Raffaele Simone
Il linguaggio del populista
la Repubblica, 14 marzo 2013
Nella storia moderna non c’è capo populista che non si sia creato un suo
linguaggio, invariabilmente estremo, oltraggioso e sbruffone, come si
pensa che il popolo parli. Perciò, il linguaggio di Beppe Grillo, che
sembra così nuovo, non lo è affatto, anche se è ingegnosamente intonato
al tempo.
Il linguaggio del populista perfetto, del resto, obbedisce
stabilmente a tre o quattro regole. Regola prima: costruire una cornice
in cui i fatti correnti e le imprese del movimento si possano inquadrare
senza difficoltà. Quella di Grillo è la “guerra” o la “rivoluzione”.
Siamo
in guerra è il titolo del librettino ideologico di cui è autore con
Casaleggio. Ma il quadro bellico si presenta sempre a cavallo tra la
guerra vera e il soft war (la guerra finta in cui adulti vestiti di
tutto punto da militari si combattono con armi identiche a quelle vere
salvo che sparano … facendo plop): non è chiaro, ad esempio, se
l’“arrendetevi, siete circondati! ” rivolto di recente al Parlamento sia
un avviso ultimativo o un bluff alla Franco Franchi. L’ambiguità tra
comico e serio è una delle cifre del blagueur consumato.
Seconda
regola: appiccicare agli avversari dei nomignoli che ne esaltino un
tratto deformato e li sommergano nel ridicolo. Qui di nuovo l’inventiva
di Grillo oscilla tra ricordi d’infanzia e Dylan Dog, con una strizzata
d’occhio agli strati infimi della cultura popolare: lo Psiconano (il
signor B.), Topo Gigio (Veltroni), Alzheimer (Prodi), Salma (prima
Fassino poi Napolitano), Azzurro Caltagirone (Casini), mentre i media
sono barracuda e Monti è Rigor Montis. In ogni caso, l’avversario è un
cadavere o uno zombie (Bersani, detto anche Bersanator, è un “morto che
parla”) e una rubrica del blog di Beppe si intitola rotondamente “le
Facce da culo”. Se a una persona riflessiva questi epiteti possono
parere loschi, anche per l’ossessione funebre, l’impressione di uno del
movimento sarà invece di prossimità. Anche in questo gergo da
sistematica “presa per il culo” spuntano curiose evocazioni da scuola
media girate in sarcasmo: “un governo tecnico non esiste in natura”.
Terza
regola: fare apparire marziano il linguaggio degli altri, perché
oscuro, contorto e fuori della realtà rispetto a quello del capo. Ciò
significa semplificare anche brutalmente gli argomenti complessi, in
modo che tutti abbiano l’impressione di capirci qualcosa e di ritrovare
la propria realtà. Così l’incompetenza diventa meno visibile e il popolo
si sente interpellato direttamente. (Ma va detto che, essendo il
linguaggio degli altri davvero “marziano”, qui Grillo ha gioco facile.)
Quarta regola: praticare uno stile pubblico eccessivo. Qui Grillo non ha
bisogno di model-li, essendo un attore collaudato. La sua recitazione
in pubblico è a braccio (con ripetizioni frequenti da un discorso
all’altro), smodata, urlata fino a sgolarsi e accompagnata da una
corporeità debordante (scuotimenti incessanti del corpo e della vasta
zazzera), secondo schemi sperimentati in trent’anni di spettacolo.
Il
capo, pur parlando il linguaggio della gente, in effetti sia
irraggiungibile e quasi invisibile. È questo forse il vero elemento
nuovo del grillismo come stile comunicativo: dice quel che pensa il
popolo (in forma appena un po’ più elaborata) e con le parole che
ritiene che il popolo userebbe, però dal popolo e dalla tv si lascia
corteggiare, non accostare o rivolgere la parola. Più in là di lui su
questo sentiero sta solo il suo silenzioso socio Casaleggio, che come
l’oracolo di cui parla Eraclito “non dice né nasconde, ma manda segni”.
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