giovedì 4 dicembre 2025

Il triangolo amoroso

Valentina Pigmei
Lily King, quelle dense riflessioni sul rimpianto e il tempo che va via

il manifesto, 4 dicembre 2025

La trama di Cuore l’innamorato (Fazi Editore, pp. 222, euro 18.50, traduzione di Manuela Francescon) si riassume in poche righe: il romanzo inizia negli anni ’80, quando la protagonista – una studente di Letteratura all’ultimo anno di college – si trova in mezzo a due amori: Sam è religioso e riservato; Yash è appassionato e ironico. Poi la storia fa un salto in avanti di quasi trent’anni e ritroviamo la protagonista, che nel frattempo è diventata una scrittrice e vive con il marito e i figli, alle prese con il passato che riaffiora prepotentemente quando Yash ricompare nella sua vita.

Nel suo famoso e citatissimo saggio del 2008 Two Paths for the Novel, Zadie Smith distingueva tra romanzieri contemporanei che seguono un percorso strutturato, controllato e lavorano con delle tracce prestabilite e altri che scrivono in modo aperto, non lineare, lasciando che i personaggi e il testo sfuggano al loro controllo. Lily King (classe 1963) fa sicuramente parte della seconda categoria e il suo nuovo romanzo è per sua stessa ammissione molto diverso da quello che all’inizio pensava di scrivere.

QUESTA APERTURA la percepiscono anche i lettori che inizialmente si ritrovano a leggere una campus novel – una di quelle storie ambientate nei college americani con dialoghi brillanti, tensioni romantiche e amori intellettuali – che poi diventa una riflessione sul rimpianto, sul tempo, sulla nostalgia, sulla perdita, e su quanto resti della giovinezza nel corso della vita. «Non pensavo di scrivere un romanzo strappalacrime. Pensavo solo: come faccio ad atterrare questo aereo?», ha detto Lily King intervistata da Literay Hub. «Di solito lascio semplicemente che le cose accadano. Una volta che scrivo alcune pagine, comincio ad avere idee che raccolgo in fondo al quaderno in cui sto scrivendo. Quasi subito ho una vaga idea dell’arco emotivo della storia, da dove partono emotivamente i personaggi principali e dove finiranno. Come ci arriveranno, e cosa accadrà lungo la strada, quello salta fuori più gradualmente». Questo è anche un libro che parla di libri e di scrittori, ma senza nessuna posa intellettualistica. La protagonista cresce tra corsi universitari di letteratura, seminari, poesie lette ad alta voce, discussioni su romanzi amati e rifiutati. Nel libro sono evocati autori classici, testi, lezioni e processi creativi, ma non per esibire erudizione, al contrario per raccontare come i libri modellino le relazioni, le ambizioni e perfino le emozioni della sua protagonista. Dopo Euforia (Adelphi) e Scrittori e amanti (Fazi editore), Lily King si conferma inoltre la più brava scrittrice di triangoli amorosi della contemporaneità.

NELLA NARRATIVA di Lily King il triangolo non è un orpello della trama: è una lente per osservare come cambiamo nel tempo. In tre romanzi distanti per ambientazione e stile, King torna sempre allo stesso nodo: chi eravamo, chi siamo, chi avremmo potuto essere. È lì, tra tre personaggi e le loro passioni, che la sua scrittura trova il suo vero centro. Tra i migliori libri del 2025 per New YorkerNew York Times e TimeCuore l’innamorato è un romanzo che commuove profondamente senza mai essere melenso, struggente eppure pieno di umorismo. Una storia sentimentale che parla di letteratura, che non diventa mai, nemmeno lontanamente, un esercizio di stile.

Il superfluo della vita


Ludwig Tieck, Il superfluo della vita, traduzione di Paola Capriolo, Carbonio editore 2025

La nobile Clara e il borghese Heinrich, spiriti inquieti in un mondo che non li comprende, decidono di stare insieme a dispetto di ogni regola, unendosi in un matrimonio segreto contro la volontà del padre di lei. Innamorati e felici, gli sposi vivono nascosti in un’angusta soffitta, nutrendosi di passione e sogni, assorti nella beatitudine di un dolce conversare, rinunciando al superfluo per godersi la vita nella sua poetica essenzialità. Ma l’inverno impietoso e la miseria spingono Heinrich a uno stravagante espediente che è anche un atto estremo e irrevocabile: bruciare la scala che li collega al mondo, scegliendo l’amore come unico rifugio, pur sapendo di condannarsi all’isolamento…
Scritta nel 1839 e considerata dallo stesso autore una delle sue opere più riuscite, Il superfluo della vita è una novella delicata e luminosa, piena di arguzia e candore, in cui l’incanto della fiaba avvolge il mistero della vita, sospesa tra presente e passato, tra doveri e diletti, tra sogno e realtà.

Ludwig Tieck (Berlino, 1773-1853) è stato un influente scrittore, traduttore, poeta e critico letterario tedesco, figura di spicco del Romanticismo. Nel 1799 diede vita insieme a Novalis, i fratelli Schlegel, Schelling e Fichte al circolo romantico di Jena, un punto di riferimento per la letteratura dell’epoca. Tra le sue opere più significative si annoverano i romanzi Storia del signor William Lovell (1796) e Le peregrinazioni di Franz Sternbald (1798), il racconto fiabesco Il biondo Eckbert (1797), le fiabe teatrali Il gatto con gli stivali (1797) e Il mondo alla rovescia (1798), le novelle Il fidanzamento (1823) e Il superfluo della vita (1839).

Paola Capriolo, nata a Milano nel 1962, è autrice di numerosi libri di narrativa, da La grande Eulalia (Feltrinelli 1988) a Irina Nikolaevna o l’arte del romanzo (Bompiani 2023). Le sue opere sono tradotte in molti Paesi. Ha scritto saggi su Benn, Rilke e Thomas Mann e tradotto per diversi editori testi di Goethe, Kleist, Keller, Stifter, Schnitzler, Thomas Mann e Kafka. Dal 2018 fa parte della giuria del Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria.

Incipit

In un inverno tra i più rigidi si era creato verso la fine di febbraio un bizzarro disordine, sul cui sorgere, svilupparsi e placarsi si diffusero nella capitale le voci più strane e contraddittorie. È naturale che, quando tutti vogliono parlare e raccontare senza conoscere l’oggetto del loro discorso, anche un fatto comune assuma le tinte della favola. L’avventura si era svolta in una delle vie più anguste della periferia, che è assai popolata. Ora si diceva che un traditore e ribelle era stato scoperto e arrestato dalla polizia, ora che un ateo, intenzionato in combutta con altri miscredenti a svellere il cristianesimo dalle radici, dopo un’ostinata resistenza si era arreso alle autorità e ora sarebbe rimasto sottochiave finché, nella solitudine, non avesse trovato princìpi e convinzioni migliori. In precedenza però, ancora nel suo appartamento, si era difeso con una vecchia doppietta, anzi, addirittura con un cannone, e prima che si arrendesse era scorso del sangue, sicché tanto il concistoro quanto il tribunale penale avrebbero chiesto di sicuro la sua condanna a morte. Un calzolaio politicamente impegnato pretendeva di sapere che l’arrestato era un emissario legato dai rapporti più stretti, come capo di numerose società segrete, a tutte le personalità rivoluzionarie d’Europa: aveva retto tutti i fili a Parigi, a Londra e in Spagna, così come nelle province orientali, ed era sul punto di far scoppiare nelle Indie più remote un’immane rivolta che poi, al pari del colera, si sarebbe propagata in Europa per far divampare in chiare fiamme ogni materiale incendiabile. Quanto risultava assodato era che in una piccola casa avevano avuto luogo dei disordini, era stata chiamata la polizia, il popolo aveva schiamazzato, erano stati notati uomini in vista che si immischiavano nella faccenda, e dopo qualche tempo tutto era tornato tranquillo senza che si capisse il senso dell’accaduto. Nella casa stessa era impossibile non cogliere certi segni di devastazione. Ciascuno interpretò la cosa come gli dettavano l’umore o la fantasia. Dopo di che, carpentieri e falegnami ripararono i danni. In quella casa aveva abitato un uomo che nel vicinato nessuno conosceva. Era uno studioso? Un politico? Uno del posto? Un forestiero? Nessuno, per quanto accorto, sapeva dare notizie soddisfacenti in proposito. Certo è che questo sconosciuto conduceva una vita molto tranquilla e ritirata, non lo si vedeva mai a passeggio o in un luogo pubblico. Non era an- 19 cora vecchio, aveva modi compiti e la sua giovane moglie, che si era votata con lui a quella solitudine, poteva essere definita una bellezza. Si era intorno a Natale quando questo giovane uomo, nella sua stanzetta, seduto vicinissimo alla stufa, parlò così alla moglie: “Tu sai, carissima Clara, quanto io ami e ammiri il Siebenkäs del nostro Jean Paul; ma come se la caverebbe il suo umorista se si trovasse nella nostra situazione, per me resta un enigma. Non è vero, amor mio, che ora tutti i mezzi sembrano esauriti?”. “Certo, Heinrich” rispose lei sorridendo e insieme sospirando, “ma se tu, che per me sei l’essere più caro, rimani allegro e sereno, accanto a te non posso sentirmi infelice”. “Infelicità e felicità sono solo parole vuote” rispose Heinrich. “Quando tu mi seguisti dalla casa dei tuoi genitori, quando per amor mio abbandonasti ogni scrupolo con tanta generosità, allora il nostro destino fu deciso per tutta la vita. Amare e vivere era ormai il nostro motto: come saremmo vissuti, poteva esserci del tutto indifferente. Perciò ancora adesso vorrei domandare con cuore saldo: chi mai, nell’Europa intera, è così felice come io posso proclamarmi a pieno titolo e con tutta la forza del mio sentimento?”. “Manchiamo quasi di tutto” disse lei, “ma non di noi stessi, e quando strinsi il mio patto con te sapevo bene che non eri ricco; a te non era ignoto che 20 non avrei potuto portare nulla con me dalla mia casa paterna. La povertà è dunque divenuta una sola cosa con il nostro amore, e questa stanzetta, la nostra conversazione, il contemplarci a vicenda figgendo lo sguardo negli occhi amati, è la nostra vita”. “Giusto!” esclamò Heinrich, e dalla gioia balzò in piedi per abbracciare con impeto la bella. “Pensa quanto saremmo disturbati adesso, eternamente divisi, soli e distratti tra la folla della gente elegante, se tutto si fosse svolto in modo normale! Quali sguardi, là, quali discorsi, strette di mano, pensieri… Si potrebbero addestrare e ammaestrare animali o persino marionette perché facciano gli stessi complimenti e pronuncino gli stessi luoghi comuni. E dunque, mio tesoro, noi siamo qui come Adamo ed Eva nel nostro paradiso, dal quale a nessun angelo viene la superflua idea di scacciarci”. “L’unico problema” disse lei con voce un po’ flebile, “è che la legna sta finendo, e questo inverno è il più rigido tra quanti ne ho conosciuti finora”. Heinrich rise. “Vedi” disse, “rido per pura cattiveria, ma il mio non è ancora il riso della disperazione: esprime soltanto un leggero imbarazzo, dato che non so assolutamente come potrei procurarmi del denaro. Il modo però bisogna trovarlo, poiché è impensabile che noi si debba intirizzire con un amore così ardente, con un sangue così caldo! Assolutamente impossibile!”. Lei gli sorrise con affetto e replicò: “Se solo, come la Lenette di Jean Paul, io avessi portato con me qualche vestito da vendere, o se qui in giro, nel nostro piccolo ménage domestico, avessimo qualche bricco o mortaio d’ottone superfluo o qualche paiolo di rame, allora sarebbe facile trovare una soluzione”. “Eh già” disse lui in tono baldanzoso, “se fossimo milionari come quel Siebenkäs, non sarebbe una grande impresa procurarsi la legna e persino del cibo migliore”. Lei guardò verso la stufa dove il pane bolliva nell’acqua per fornire il più magro dei pranzi, che sarebbe poi stato concluso da un po’ di burro come dessert. “Mentre tu” disse Heinrich, “sovrintendi alla nostra cucina e impartisci al cuoco gli ordini necessari, io mi dedicherò un poco ai miei studi. Come mi rimetterei volentieri a scrivere, se non avessi già dato fondo a inchiostro, carta e pennini… Mi piacerebbe anche leggere qualcosa, qualsiasi cosa, se solo avessi ancora un libro”. “Devi pensare, mio caro” disse Clara lanciandogli un’occhiata maliziosa. “Voglio sperare che ai pensieri tu non abbia ancora dato fondo”. “Cara sposa” replicò lui, “il nostro ménage è così vasto e grandioso da richiedere tutta la tua attenzione: non ti distrarre, per non creare scompiglio nella nostra economia. E poiché adesso mi reco nella mia biblioteca, da questo momento in poi lasciami tranquillo: devo infatti ampliare le cognizioni e dare nutrimento allo spirito”. “È unico!” disse la moglie a se stessa ridendo allegramente. “E come è bello!”. “Leggerò dunque di nuovo il mio diario” annunciò Heinrich, “che scrissi un tempo, e mi interessa studiarlo a ritroso, cominciando dalla fine e preparandomi così a poco a poco per l’inizio, in modo da comprenderlo meglio. Ogni sapere autentico, ogni opera d’arte o pensiero profondo deve sempre richiudersi in un cerchio e unire nel modo più intimo principio e fine, come il serpente che si morde la coda – un simbolo dell’eternità, dicono altri; un simbolo dell’intelletto e di tutto ciò che è giusto, sostengo io”. Lesse l’ultima pagina, ma a mezza voce: “Narra una favola che un pericoloso delinquente, condannato alla morte per fame, divorasse a poco a poco se stesso: in fondo è semplicemente la favola della vita e di qualsiasi uomo. Lì alla fine rimanevano soltanto lo stomaco e i denti, a noi rimane l’anima, come viene chiamato l’incomprensibile. Anch’io però mi sono spogliato e consumato in modo simile quanto all’aspetto esteriore. Sarebbe quasi ridicolo che io possedessi ancora un frac con annessi e connessi, dal momento che non esco mai. Al compleanno di mia moglie le comparirò dinnanzi in gilet e maniche di camicia, poiché sarebbe sconveniente corteggiare una persona introdotta a corte con addosso un pastrano alquanto logoro”. “Qui si concludono la pagina e il libro” disse Heinrich. “Tutto il mondo capisce che i nostri frac sono un abbigliamento stupido e privo di gusto, tutti ne biasimano la bruttezza, ma nessuno prende la cosa tanto sul serio, come me, da sbarazzarsi completamente di quel ciarpame. Ormai non saprò neppure dai giornali se altri esseri pensanti seguiranno il mio coraggioso esempio regolandosi allo stesso modo”. Voltò pagina e lesse quella precedente: “Si può vivere anche senza tovaglioli. Se penso a come il nostro stile di vita si sia ridotto sempre più a surrogati, palliativi e rattoppi, concepisco un vero e proprio odio per il nostro secolo avaro e spilorcio e prendo la decisione, poiché ne ho la possibilità, di vivere alla maniera dei nostri molto più generosi progenitori. Questi miserabili tovaglioli, come persino gli inglesi di oggi rammentano ancora con disprezzo, evidentemente sono stati inventati all’unico scopo di risparmiare la tovaglia. Se è dunque un segno di liberalità non badare alla tovaglia, io mi spingo ancora oltre dichiarando superflua anche quella, insieme con i tovaglioli. L’una e gli altri saranno venduti e mangeremo sulla tavola ripulita all’uso dei patriarchi, all’uso… mah? Di quali popoli? Non ha importanza! Molta gente mangia persino senza tavola. E come ho detto, non sgombro la casa da tutto ciò per cinica parsimonia, secondo l’esempio di Diogene, ma al contrario, godendo della mia agiatezza, solo per non trasformarmi in uno scialacquatore, come l’epoca attuale, a forza di fare assurde economie”. “Hai ragione” disse la moglie sorridendo; “eppure allora vivevamo ancora scialacquando, grazie al ricavato di quella roba superflua. Spesso avevamo addirittura due portate”. Ora i due sposi siedono a consumare il più misero dei pasti. Chi li avesse visti avrebbe dovuto reputarli degni d’invidia, tanto erano allegri, addirittura euforici a quel semplice desco. Quando la zuppa di pane fu finita Clara, con aria maliziosa, andò a prendere dalla stufa un piatto coperto e mise davanti allo sposo stupefatto anche qualche patata. “Guarda!” esclamò lui. “Questo si chiama, quando uno ha studiato a sazietà i suoi numerosi libri, preparargli per giunta una lieta sorpresa! Anche questo buon frutto della terra ha contribuito alla grande rivoluzione dell’Europa. Viva l’eroe Walter Raleigh!”. – Brindarono con i bicchieri dell’acqua, e Heinrich si assicurò che l’entusiasmo non avesse prodotto neppure un’incrinatura nel vetro. “Per questa estrema raffinatezza” disse poi, “per questo servirci dei nostri bicchieri di tutti i giorni, i più ricchi principi dell’antichità ci avrebbero invidiati. Dev’essere noioso bere da un boccale d’oro, specie un’acqua così bella, limpida e sana. Nei nostri bicchieri invece il fluido rinfrescante ondeggia così gaio e trasparente, così tutt’uno con il bicchiere, che si è tentati di credere di stare assaporando l’etere stesso ridotto in forma liquida. – Il nostro pranzo è terminato: abbracciamoci”. “Tanto per cambiare” disse lei, “potremmo anche spingere la nostra sedia davanti alla finestra”. “Be’, spazio ne abbiamo” disse il marito, “un vero ippodromo, se penso alle gabbie che Luigi XI fece costruire per i suoi sospettati. È incredibile quale fortuna rappresenti già il fatto di poter sollevare a piacimento un braccio o un piede. È pur vero, se penso alle aspirazioni che sorgono in certi momenti nel nostro spirito, siamo comunque in catene: la psiche è la pania che ci tiene incollati e dalla quale non possiamo liberarci volando via una volta che, il Cielo sa come, ci siamo balzati dentro, e noi e la pania siamo a tal punto una cosa sola che a volte consideriamo quella prigione il nostro io migliore”. “Non essere così serio” disse Clara prendendogli la bella mano con le sue dita morbide e affusolate, “guarda piuttosto con che bizzarri fiori di ghiaccio il gelo ha ornato le nostre finestre. Mia zia sosteneva sempre che grazie a questi vetri coperti da uno spesso strato di ghiaccio la stanza diventa più calda che se le lastre fossero sgombre”. “Non è impossibile” rispose Heinrich; “ma non rinuncerei al riscaldamento basandomi su questa convinzione. Alla fine il ghiaccio sulle finestre potrebbe diventare così spesso da restringerci la stanza, e ci crescerebbe intorno, sino a sfiorarci la pelle, quel famoso palazzo di ghiaccio di Pietroburgo. Noi però preferiamo vivere da borghesi, e non come i principi”. “Ma questi fiori” esclamò Clara, “come sono meravigliosi e vari nei loro disegni! Si crederebbe di averli già visti tutti nella realtà, per quanto poco si sia in grado di dar loro un nome. E vedi, spesso l’uno copre l’altro, e la grandiosa vegetazione sembra crescere ancora, mentre ne parliamo”. “Chissà” domandò Heinrich, “se i botanici hanno già osservato questa flora, se l’hanno disegnata e riportata nei loro libri dotti? Chissà se questi fiori e queste foglie si ripresentano secondo certe regole o si trasformano sempre di nuovo a capriccio? Il tuo alito, il tuo dolce respiro ha evocato questi spiriti floreali, revenants di una stagione estinta, e mentre tu ti immergi in dolci e piacevoli pensieri e fantasticherie, qui un genio umoristico, con funebre grafia, trascrive le tue intuizioni e i tuoi sentimenti in spettri e larve di fiori componendo un effimero libro di famiglia, dove io posso leggere quanto mi sei fedele e devota, quanto pensi a me, sebbene io ti sieda accanto”. “Molto galante, egregio signore!” replicò Clara con grande cordialità. “Lei potrebbe dunque definire questi fiori di ghiaccio istruttivi e ingegnosi, come gli schizzi fin troppo colti ed eleganti che possediamo a illustrazione delle opere di Shakespeare”.

Eroi del libero pensiero

Disciplinare la cultura e la scienza, censurare l'informazione

Alessandro BARBERO e Angelo D'ORSI

si confronteranno sul tema dell'evento che vedrà la partecipazione di: Elena BASILE, Alberto BRADANINI, Luciano CANFORA, Alessandro DI BATTISTA, Donatella DI CESARE, Margherita FURLAN, Enzo IACCHETTI, Marc INNARO, Roberto LAMACCHIA, Tomaso MONTANARI, Piergiorgio ODIFREDDI, Moni OVADIA, Marco REVELLI, Carlo ROVELLI, Vauro SENESI, Marco TRAVAGLIO

Teatro grande Valdocco
via Sassari 28/B
Torino
martedì 9 dicembre ore 21

IN RISPOSTA ALLA CENSURA
Come avevamo annunciato al termine della esaltante serata del 12 novembre a Torino, al Circolo ARCI “LA PODEROSA”, in risposta alla censura nei miei confronti disposta dal Polo del ‘900, su indicazione di una serie di personaggi del sottobosco politico nazionale, abbiamo organizzato, con la collaborazione della dirigenza dello stesso Circolo, un altro evento, di ben maggiore rilievo.
Al di là del numero e del prestigio di coloro che hanno accettato l'invito, a cominciare dall'amico e collega Alessandro Barbero (che ringrazio di cuore), si tratta, nella mia personale prospettiva, di un evento che vuole proseguire il tragitto per dar vita a un grande movimento contro la menzogna, contro la narrazione unilaterale, contro la censura alla libertà di informazione, di pensiero, di ricerca, contro il tentativo di militarizzare la scuola, l’università, la cultura, contro la pretesa di piegare la scienza agli interessi di chi produce armi per giocare alla guerra: contro tutto ciò che ci sta spingendo a un conflitto con la Federazione Russa, che sarebbe un salto nel vuoto, con prevedibili rischi di annientamento da parte della maggiore potenza nucleare nel mondo.
Perciò questa iniziativa come la precedente si propone anche come una denuncia della russofobia. E vuole essere anche un monito alle classi politiche che in preda alla follia bellicistica, e accanto ad esse, anche e forse soprattutto agli “opinionisti”, i soldatini e le soldatine dell’immenso, grottesco esercito dell’ “Armiamoci e partite!”. Ci vadano loro a combattere per un regime nazistoide e corrotto come quello di Zelensky!
Devono ricevere i nostri s/governanti italiani ed europei, il nostro “BASTA!”. Un grido che noi eleviamo ed eleveremo nei prossimi mesi, e che esprime, lo sappiamo, la volontà delle masse popolari.
NOI NON VOGLIAMO LA GUERRA. NON VOGLIAMO GETTARE NELLA FORNACE BELLICA LE NOSTRE VITE, QUELLE DEI FIGLI, QUELLE DEI NIPOTI, QUELLA DELLA INTERA UMANITÀ.

Riformisti per Netanyahu

Simona Malpezzi

Roberto Della Seta
Criticare Israele è antisemitismo, se lo dice anche il Pd

il manifesto, 4 dicembre 2025

Chi contesta radicalmente i comportamenti dello Stato di Israele è antisemita. Questo è l’incredibile assunto di un disegno di legge «per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo» presentato da senatori del Pd di area «riformista».

Primo firmatario Graziano Delrio, con lui tra gli altri Simona Malpezzi e Pier Ferdinando Casini. La proposta, come altre già in discussione – della Lega, di Maurizio Gasparri, di Ivan Scalfarotto – adotta la definizione di antisemitismo elaborata molti anni fa dall’Ihra – la International holocaust remembrance alliance -, che qualifica come antisemita ogni critica radicale contro Israele e verso il sionismo quale sua ideologia fondativa.

In particolare, per l’Ihra è antisemitismo sostenere che «l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo», «applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non richiesto a nessun altro Stato democratico», «fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti».

Tutte opinioni largamente discutibili – personalmente non le condivido – ma che con l’antisemitismo c’entrano zero. Nel 2021 un gruppo di storici dell’antisemitismo e dell’Olocausto ha elaborato e diffuso un documento la Jerusalem declaration on antisemitism – nel quale si denuncia l’evidente intenzione dei promotori della definizione Ihra di allargare il concetto di antisemitismo comprendendovi, in modo abusivo, qualsiasi posizione radicalmente anti-israeliana.

Diversamente dalla proposta di Gasparri e in analogia con quelle di Lega e Scalfarotto, il disegno di legge Delrio non punisce con la galera chi scrive o dice parole che in base alla definizione Ihra sono equiparate ad antisemitismo, ma in parte fa di peggio: all’articolo 2 delega il governo – questo governo, visto che la scadenza indicata è di sei mesi – a varare uno o più decreti legislativi con prescrizioni all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) «in materia di prevenzione, segnalazione, rimozione e sanzione dei contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme on line di servizi digitali in lingua italiana».

Gli articoli 3 e 4 della proposta si spingono ancora oltre: prevedono che ogni Università nomini una sorta di controllore che vigili su eventuali attività interne, anche didattiche, che suonino come illegittime sempre sulla base dei criteri definitori dell’antisemitismo fissati dall’Ihra.

Il disegno di legge Delrio, per le sue premesse e per molti suoi contenuti, è davvero sconcertante, anche e tanto più visto che è opera di parlamentari di centrosinistra.

L’antisemitismo è un problema serio e molto attuale, purtroppo se ne scorgono tracce anche in frammenti del movimento proPal per fortuna marginali ma comunque da contrastare con il massimo rigore. Proprio perché l’antisemitismo esiste ed esiste tuttora, le culture politiche progressiste che a differenza di quelle della destra oggi al governo e con rare eccezioni lo combattono da sempre non possono permettersi infortuni come questo.

Se la proposta Delrio diventasse legge, non solo chi scrive ma tanti giornalisti e intellettuali autorevoli – Anna Foa, Gad Lerner, Stefano Levi della Torre… e questo giornale nella sua interezza – andrebbero, andremmo, sanzionati per le opinioni espresse sulla deriva nazionalista, razzista, illiberale dello Stato di Israele: del suo governo pro-tempore certo, ma anche degli altri suoi vertici istituzionali, delle sue forze armate e di sicurezza che compiono crimini quotidiani a Gaza e spalleggiano le scorribande criminali dei coloni in Cisgiordania, del suo sistema carcerario.

Infine. La confusione tra espressioni antisemite e anti-israeliane teorizzata in questo disegno di legge come negli altri analoghi cui si è affiancato, avvalora una confusione di segno opposto: tra «ebrei» e «Israele», che è uno dei canali principali attraverso i quali nell’attuale dibattito pubblico s’insinuano linguaggi, argomenti che tradiscono vero antisemitismo.

Per contrastare questa minacciosa eterogenesi dei fini, sarebbe bene che il disegno di legge Delrio torni il più rapidamente possibile nel cassetto.

mercoledì 3 dicembre 2025

Le risorse culturali della destra al potere


Marion Maréchal

Alessandro De Angelis
Atreju, il potere in scena. Da Abu Mazen a zia Mara, il grande show di Meloni
La Stampa, 3 dicembre 2025

Lo scorso anno fu Javier Milei che incantò la sala col suo tango liberista e l’estetica da profeta carismatico che promette di salvare il popolo uccidendo lo Stato.

Prima ancora Elon Musk, che aveva conquistato Marte e poi la Casa Bianca. E andando a ritroso Viktor Orban, accolto, nell’edizione di qualche anno fa, sulle note di «avanti ragazzi di Buda», e Steve Bannon, l’ideologo del primo Trump e della cancellazione del socialismo su tutto l’orbe terraqueo.

A proposito, anche Rishi Sunak, il teorico del modello Ruanda da cui Giorgia Meloni trasse ispirazione per il suo modello Albania, celebrato poi – sempre lì – con Edi Rama. Ogni volta, una «special relationship» da ostentare.

Stavolta invece, in questa edizione di Atreju che inizierà il 6 dicembre e finirà il 14, la più lunga di sempre (evidente prova di forza), stavolta, dicevamo, l’ospitone che tocca le corde profonde dell’identità non c’è, perché certo non si può catalogare come tale Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen e vicepresidente dei Conservatori europei.


Chissà, forse è necessità. Ognuno, per un motivo o per l’altro, è diventato infrequentabile: chi ha domato l’inflazione massacrando i salari, chi è scomparso dai radar (anche se non dai satelliti), chi è caduto in disgrazia con Trump, chi, forse, è un po’ troppo hard da invitare se si continua a sostenere l’Ucraina. E poi i centri in Albania non fun-zio-na-no, ma non si può dire.

Oppure è una scelta. Sia come sia, il nome vero di rilevo è Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Qualche corda la tocca nella tradizione della destra ma parla soprattutto dell’oggi e della prospettiva, e non è affatto male: i due popoli, il processo di pace, il ruolo che vuol agire l’Italia nel Medioriente, eccetera. Interessante. È una notizia, che ci dice quanto Giorgia Meloni punti sul tema internazionale come elemento caratterizzate del suo racconto.

In fondo, è l’unica notizia veramente degna di nota, nel senso stretto di grande politica, in una kermesse che, per venire all’Italia, è innanzitutto una grande esibizione di potere. Gli “amici” internazionali, che potevano suscitare dibattito su collocazione e stato dell’arte della destra italiana, non ci sono. C’è l’enorme parata di ministri (tutti) in panel dedicati. Ci sono i “nemici perfetti” come la giudice Silvia Albano, contraria ai centri in Albania e contraria alla riforma della giustizia, quella a cui in sala non crederà nessuno ma la cui presenza, assieme ai tanti esponenti dell’opposizione (di fatto gli unici assenti sono Landini e Schlein) dà il senso di un luogo aperto, dove si discute. A proposito: si consiglia di aggiornare lo spartito dell’allarme democratico.

E, ci sono i tanti nomi pop: Mara Venier e Carlo Conti, Ezio Greggio e Raoul Bova, Gigi Buffon, Julio Velasco. Nomi importanti che anch’essi attestano una forza e un potere esercitato e percepito come duraturo, ma anche una non banale cifra culturale.

Dal recinto cattivista delle “motoseghe” a Sanremo, Striscia Domenica in. La forza dell’audience e dell’abitudine di tv che hanno perso voglia di sperimentare e stupire. È il trionfo dello status quo in formato nazional-popolare o, forse, nazional-populista, nel senso di circenses.

La Festa come esibizione in cui un posto centrale ce l’ha la cultura dell’intrattenimento più del dibattito sofferto (a proposito, quello sulla cucina italiana con Lollobrigida si annuncia come imperdibile). Ed è tutto così rassicurante e accogliente che viene ri-accolto financo Gianfranco Fini assieme a Francesco Rutelli, in un amarcord della sfida (datata 1993) a sindaco di Roma. Mica su Fiuggi e il sovranismo, però la presenza chiude la fase della damnatio memorie.

L’operazione ha una sua efficacia, perché lavora sul corpo basso della società. Lavora sull’umore e sull’immaginario di un paese che tira a campare, vuole il quieto vivere, Gaza sì ma senza troppe piazze ed è stanco di avventure dopo un decennio sull’ottovolante che ha suscitato grandi entusiasmi e repentini tonfi. Il mood non è la rivolta ma la stabilità: farsi andare bene ciò che c’è, rientrare a casa, afferrare il telecomando e guardare la tv come una distrazione dalla vita dura. Ecco, questa festa è perfetta per un paese che si vuole accontentare di ciò che ha.

La scatola vuota della democrazia

Michele Ainis 
La democrazia da ricostruire

la Repubblica, 3 dicembre 2025

La democrazia italiana è ormai un corpo essiccato. Ne rimane la forma, ne osserviamo le sembianze; e ci appaiono illese rispetto a come vennero disegnate otto decenni fa, per mano dell’Assemblea costituente. Persiste la medesima forma di governo — “parlamentare”, è questa la sua denominazione.

E in effetti a Roma continua ad abitare un Parlamento, così come un governo e un capo dello Stato, le cui prerogative formali non sono mai state negate, né corrette. Al centro non meno che in periferia si tengono elezioni per rinnovare una quantità di organi (anche troppi), e si tengono a cadenza regolare. Nella terra di mezzo tra società politica e società civile disputa una quantità di partiti e sindacati (anche troppi), ciascuno con la propria bandierina. E su tutti vigila una quantità di tribunali e controllori della più varia risma (anche troppi).

Ma le apparenze ingannano, come si suol dire; e non è mai stato così vero. Giacché la sostanza della democrazia italiana, di ciò che ne rimane, è divaricata dal suo aspetto formale. Le leggi le scrive il Consiglio dei ministri, inondando le Camere d’una pioggia di decreti. Le ulteriori regole della nostra convivenza provengono dalla magistratura, che una legislazione confusa e alluvionale obbliga a scegliere fiore da fiore, e anche a stabilire di che colore è il fiore.

Ciascuno s’esercita nel mestiere altrui, è questo lo spettacolo perenne. D’altronde anche gli eletti si sono impossessati del mestiere che un tempo toccava agli elettori. Le consultazioni nazionali avvengono sotto dettatura, con i listini bloccati dove i capipartito decidono l’elenco dei promossi. Ma pure quelle locali trovano un esito per lo più scritto in anticipo, e infatti non c’è stata alcuna sorpresa nelle sette elezioni regionali degli ultimi due mesi.

Insomma, la democrazia è divenuta una finzione. E allora perché mai dovremmo crederci? Difatti il teatro si sta svuotando dei propri spettatori. Ci allarmammo, propagando alti lamenti, quando la partecipazione crollò al 60 per cento del corpo elettorale. Adesso viaggia poco sopra il 40 per cento. E di questo passo lo sciopero del voto finirà per risucchiarci in una crisi terminale della democrazia, come nel Saggio sulla lucidità di José Saramago, dove un diluvio di schede bianche viene contrastato con le maniere forti dal governo.

Tuttavia l’astensionismo è l’effetto della crisi, non la sua scaturigine. Le cause dipendono dal senso d’impotenza che ti morde alla gola quando scopri che il copione è già tutto scritto, e a te resta soltanto d’applaudire. Dipendono dal ritiro della delega verso politici che percepisci come mediocri o in malafede, salvo magari consegnare i tuoi destini, per un’ultima speranza o per disperazione, al capo carismatico che saprà risollevarli.

E dipendono, infine, dal brodo culturale nel quale siamo immersi. Questo è il tempo della disintermediazione, che ha messo in crisi tutti i gruppi sociali dei quali facevamo parte — la scuola, il quartiere, l’oratorio, la fabbrica, il partito. Ed è un tempo digitale, nel quale ogni attività della nostra esistenza — il lavoro, la corrispondenza, gli acquisti, le riunioni — si svolge attraverso lo schermo d’un computer.

Sicché è questa l’urgenza che ci attende. Dobbiamo ricostruire una democrazia bene ordinata, in cui ciascuno s’attenga al proprio ruolo, senza invadere le competenze altrui. Una democrazia responsabile, fondata sull’accountability, sul rendere conto dei fatti e dei misfatti; e con meccanismi che la rendano cogente, dato che alle nostre latitudini, dal Garante della privacy in giù (o in su), non si dimette mai nessuno.

Sarebbe prezioso, per esempio, l’antico istituto del recall — ossia la revoca degli eletti immeritevoli, attraverso un referendum personale indetto in corso di mandato — che tutt’oggi trova applicazione in mezzo mondo, dalla Svizzera agli Stati Uniti, dal Canada al Giappone.

E infine dobbiamo usare l’innovazione digitale contro se stessa, contro la sua vocazione autoritaria. Come? Rafforzando il referendum e consentendo il voto online in ogni consultazione elettorale, come avviene in Estonia e in varie altre contrade.

Ma per rinvigorire la democrazia italiana non serve una Costituzione tutta nuova. Serve piuttosto prendere sul serio il suo principio fondativo: la sovranità popolare.


Un programma per il futuro del paese

Pierluigi Ciocca
Un programma minimo per il paese fermo

il manifesto, 3 dicembre 2025

L’economia italiana continua a ristagnare. Dalla crisi della lira del 1992 il Pil reale è cresciuto a stento solo dello 0,7% l’anno, il peggior risultato dal tempo di Cavour. È prevedibile che l’intera legislatura si concluda nel 2027 con un simile, deludente, esito.

Nell’arco di un trentennio i politici non hanno provveduto, le imprese hanno investito poco e il progresso tecnico si è pressoché annullato. Dal 2014 l’occupazione è aumentata e la disoccupazione è scesa, ma solo perché i salari sono diminuiti e, essendo carenti gli investimenti, il lavoro ha sostituito capitale. Non è buona occupazione: è mal pagata, a bassa produttività, a scadenza o precaria, inferiore alle aspirazioni dei giovani, che emigrano.

Una azione di governo per la crescita e per la buona occupazione è necessaria, sebbene non sufficiente qualora le imprese non rispondano investendo e innovando. Le linee di tale azione – dopo l’ennesima legge di bilancio irrilevante per dimensione e contenuti – sono riassumibili, anche perché proposte invano, reiteratamente, dai migliori economisti.

Pubbliche finanze. Risparmi nei contratti di appalto e fornitura più esosi per lo Stato, nei trasferimenti della Pubblica amministrazione alle imprese, nelle spese militari, nel costo del debito devono unirsi a maggiori entrate da concessioni non più smaccatamente favorevoli ai concessionari e dal contrasto a una evasione oscena. Aprirebbero ampi spazi di risanamento dei conti della Repubblica, tuttora indebitata per il 140% del Pil.

Investimenti pubblici. Sono drammaticamente diminuiti dal 2009, con scadimento delle infrastrutture. Messa in sicurezza del territorio e dell’ambiente, sanità, istruzione, ricerca li richiedono con priorità assoluta anche perché il Pnrr è stato disperso in mille rivoli con moltiplicatore della attività economica inferiore all’unità ed è prossimo a scadere. Oltre alla utilità immediata questa spesa nel medio periodo può non gravare sui conti. Si autofinanzia, se il moltiplicatore è sufficientemente alto, con conseguenti aumenti di gettito e minori uscite per altre voci.

Distribuzione del reddito. La ripartizione degli averi è sperequata. Quasi sei milioni di italiani sono poveri, 13 milioni rischiano di diventarlo. Un riequilibrio si impone per ragioni di equità. Inoltre la progressività distributiva diffonde professionalità, potenzia il capitale umano, favorisce la crescita.

Concorrenza. Negli ultimi decenni profitti e rendite sono stati cospicui, a scapito dei salari, sebbene le imprese abbiano investito e innovato meno del passato. Se gli utili resteranno «facili» le imprese continueranno a investire poco, innovare poco, sostituire lavoro a capitale, con scarsa dinamica della produttività. Lo stimolo della competizione sulle imprese è presupposto essenziale dello sviluppo economico. Una volta assicurato il pieno utilizzo delle risorse non è compito dello Stato garantire il profitto, spacciando l’intento per una fantomatica «politica industriale» che regala danari pubblici ai privati, come la Confindustria non smette di chiedere.

Mezzogiorno. Il reddito pro capite del Meridione resta quasi la metà di quello del Nord, che pure vorrebbe una autonomia regionale favorevole, detta «differenziata». Il Sud progredirà solo se l’intera economia tornerà a crescere. E tuttavia una specifica azione che ne promuova lo sviluppo è indispensabile. Oltre ai migliori servizi – presupposto anche del turismo – vanno concentrati al Sud gli investimenti pubblici in infrastrutture e un nuovo «Iri», gestito in autonomia dalla politica, dovrebbe effettuarvi gli investimenti produttivi che i privati non realizzassero.

È fondamentale che questi indirizzi siano rivolti alla tutela delle categorie sociali che hanno sofferto e soffrono per il ristagno dell’economia. In una o più vesti si tratta di decine di milioni di cittadini: i salariati, i pensionati, i poveri, i contribuenti, i risparmiatori, gli anziani, i malati. A una tale, potenziale maggioranza va proposto un programma chiaro, in cui essa si riconosca e la induca a tornare al voto nell’interesse proprio e per il progresso generale del Paese.

martedì 2 dicembre 2025

I detentori della Verità

Massimo Recalcati 
L'allergia alla democrazia

la Repubblica, 2 dicembre 2025

L’assalto alla redazione torinese della Stampa ha provocato un dibattito che non bisognerebbe silenziare troppo rapidamente. Continui episodi di violenza politica che nel nome di una sola Verità incontrovertibile impediscono la pluralità delle voci, mostrano quanto il nostro tempo, considerato a torto post-ideologico, sia in realtà pervaso da un ritorno pervasivo di un fanatismo ideologico estremo. Minimizzare questi episodi e non riconoscere il loro radicamento in una cultura comunista-bolscevica di stampo vetero-novecentesco sarebbe un errore. Il taglio etico e politico promosso da Enrico Berlinguer negli anni Settanta nei confronti di quella cultura la cui spinta propulsiva iniziale doveva, nel suo lucido giudizio, considerarsi definitivamente esaurita, non ha significato purtroppo da parte di una certa sinistra italiana (nel suo inconscio, oserei dire), la piena adozione della democrazia come orizzonte insuperabile della vita collettiva. La cultura comunista nelle sue radici marxiste più ortodosse è strutturalmente allergica alla democrazia che ha storicamente considerato come un sistema del tutto omogeneo alla tutela conservatrice dei privilegi di classe e che sarebbe stato compito della rivoluzione spazzare via. Questa allergia non è una reazione cutanea di superficie ma descrive il dna della cultura comunista-bolscevica come profondamente anti-democratica. Dal punto di vista filosofico è ciò che mantiene il marxismo ortodosso nell’ambito di una filosofia dell’assoluto come fu quella hegeliana: la Verità non può essere che una sola, non può essere che la Verità della Verità. Per questa ragione il dissenso viene considerato semplicemente illegittimo e, come tale, perseguitato in ogni forma. Di qui deriva il diritto di eliminare anche fisicamente coloro che hanno pensieri divergenti, non conformi alla linea del partito o a quella del suo leader. Lo stalinismo, da questo punto di vista, è stata una esemplare ideologia del terrore praticata nel nome della Verità. È questo che deve essere messo in evidenza: ogni ideologia esercita la violenza sempre come una manifestazione della Verità. In aperto contrasto con lo spirito plurale e radicalmente laico che invece dovrebbe contrassegnare la democrazia. In questo senso Pasolini ricordava scabrosamente che il fascismo degli antifascisti non deve essere considerato come un sintomo secondario, ma come l’espressione di una passione ideologica per la Verità che vorrebbe cancellare ogni forma di dissenso critico. Oggi questa terribile tentazione è tornata in primo piano. Ma non tanto nelle forme violentemente estremiste di coloro che fisicamente aggrediscono la sede di un giornale o impediscono a giornalisti e a politici di prendere pubblicamente la parola perché colpevoli di non fornire la corretta rappresentazione della sola possibile Verità — della Verità della Verità –, quanto piuttosto nella voce dei loro maestri che sono i responsabili intellettuali di queste manifestazioni d’odio. In un carteggio tra due grandi ebrei quali furono Albert Einstein e Sigmund Freud, promosso dalla Società delle Nazioni nei primi anni trenta sul tema della tentazione umana nei confronti della guerra, si conveniva che la vera responsabilità dello scatenamento dell’odio per il nemico non era tanto da attribuire alle “masse incolte” ma alla “responsabilità degli intellettuali” che guidavano quelle masse. Sono i cattivi maestri ad armare le mani degli estremisti, ad insegnare che chi la pensa diversamente, chi non è allineato con la sola Verità possibile — con la Verità della Verità — , deve solo tacere e se ha invece l’arroganza di non tacere ma di prendere la parola, dunque di dire la propria verità, deve essergli giustamente impedito di farlo anche con la forza. È quello che tra i numerosi esempi offerti dal nostro tempo si legge nelle parole pronunciate da Francesca Albanese a proposito dell’aggressione compiuta nei confronti della Stampa. In sintesi: l’aggressione va condannata risolutamente, ma i giornalisti imparino a fare bene il loro mestiere! Con la conseguenza sillogistica, tipicamente totalitaria, che se un giornalista non fa bene il proprio mestiere — cioè non si allinea alla versione ideologica della Verità — meriterebbe allora di essere colpito? Siamo qui al cuore della cultura comunista-bolscevica e della sua ideologia radicalmente antidemocratica. La violenza sarebbe giustificata come atto di rieducazione e di purificazione del male. È la stessa giustificazione, per fare un esempio davvero estremo, che appariva nei comunicati delle Br, nei loro assassini politici o nelle cosiddette “gambizzazioni”. Se, infatti, si esercita la violenza nel nome della Verità quella che si esercita non è violenza ma una estrema difesa della Verità. Nella sua formidabile prefazione a un libro di Andrea Valcarenghi del 1973, Marco Pannella prendeva pasolinianamente le distanze dal fascismo degli antifascisti con parole che, mai come ora, sarebbe opportuno rileggere per intero e ricordare: chi si muove nel nome di una Verità solo ideologica tende fatalmente a “ripetere contro i nemici i gesti per i quali io sono loro nemico, gesti di violenza, di tortura, di discriminazione, di disprezzo…la rivoluzione fucilocentrica o fucilocratica, o anche solo pugnocentrica o pugnocritica, non è altro che il sistema che si reincarna e prosegue.”