venerdì 9 agosto 2013

Gramsci postmoderno e l'immaginario

Massimiliano Panarari
Europa, 9 agosto 2013
pubblicato con il titolo Leggere Gramsci nella post-democrazia

Una premessa (alquanto) doverosa. Antonio Gramsci (1891-1937), per chi non lo ricordasse, era un comunista e, per la precisione, un leninista. Certamente, un marxista a suo modo eterodosso, sui generis ed eretico, e che pagò un duro prezzo personale anche per questa sua originalità e autonomia rispetto al movimento comunista internazionale egemonizzato dall’Unione Sovietica di Stalin (ed espresso in Italia dalla sua Togliatti’s Version). Ma sempre marxista (e, nella fattispecie, esponente del “marxismo occidentale”, al quale è assimilabile per la formazione di tipo storicista, antipositivista e idealista) – e questo va saputo nel momento in cui ci si accinge (come utilissimo e doveroso) a leggerlo ai giorni nostri. Perché, giustappunto, Gramsci è assolutamente e integralmente figlio dei propri tempi di ferro e di fuoco. Ma si rivela pure perfettamente in grado, in virtù di alcune categorie e intuizioni formidabili, e di portata molto durevole, di trascendere il Novecento per parlare ai nostri giorni postmodernizzati e divenuti tanto liquidi.
E, allora, va tenuto sempre presente, a rigor di storiografia e onestà intellettuale, che quando ci esercitiamo in qualche ermeneutica liberale o liberal (che, lo confessiamo, ci piace molto…) di Gramsci, stiamo compiendo una forzatura e una operazione di decontestualizzazione che cozza con la filologia. Ma proprio qui, d’altronde, ovvero nella loro capacità di oltrepassare la propria epoca, risiedono il landmark e la cifra distintiva dei classici: cosa che vale anche per il filosofo di origini sarde. Il quale, letto con gli occhi e il senno dell’oggi, ci descrive superbamente gli elementi non funzionanti nel rapporto tra popolo ed élites dirigenti che hanno unificato questa nazione, dicendoci tanto, anche ben oltre le finalità che perseguiva quando scriveva, dei problemi e dei deficit che ci trasciniamo da più di un secolo e mezzo, e ci impediscono di diventare (finalmente) un “Paese normale”. Perciò leggere alcuni passaggi dei Quaderni del carcere risulta estremamente interessante per comprendere alcune delle radici profonde e di lunga durata dell’antipolitica, e dell’antipartitismo che, in modo ciclico (e assai rumoroso), riaffiora nella politica italiana. E indica, per filo e per segno, quanto un partito di sinistra (ovvero intenzionato a trasformare – ovviamente senza la rivoluzione violenta che costituiva un must per i marxisti novecenteschi – lo stato delle cose esistente) abbia bisogno di intellettuali, o, come qualcuno direbbe ai nostri tempi, di analisti simbolici capaci di delineare un progetto di emancipazione dei più deboli, i quali ci sono ancora, e anzi, come dovrebbe apparire evidente, aumentano vieppiù al dilagare delle diseguaglianze.
Gli intellettuali “organici” (all’epoca andava così) al partito e alle masse (ovvero coloro che erano specializzati nell’esercizio della “funzione intellettuale”, perché Gramsci pensava che chiunque fosse, in certa misura, un intellettuale) erano infatti investiti di un compito delicatissimo e fondamentale. Ossia la missione di elaborare un universo culturale, fatto di visioni e istituzioni, contrapposto a quello dominante che ammaliava le classi subordinate, rendendole inconsapevolmente complici di chi le manteneva in stato di soggezione: in poche parole, a loro spettava la produzione di una controegemonia che se la giocasse alla pari con l’egemonia culturale vittoriosamente instaurata dalle classi dominanti (come, per fare un esempio attuale, e mutatis mutandis, il neoliberismo che respiriamo ininterrottamente dagli anni Ottanta dell’ascesa di Reagan e della Thatcher). L’egemonia è, quindi, la messa in opera di un poderoso lavoro di direzione culturale e di pedagogia di massa che stabilisce i connotati di ciò che diventerà nazionalpopolare (senso comune e gusto di massa).
Gramsci era infatti convinto che la cultura rappresentasse una straordinaria (anzi, un’imprescindibile) opportunità di emancipazione anche politica e sociale, e che gli intellettuali di professione (con il partito “intellettuale collettivo”, e fors’anche general intellect, come direbbe qualcuno) potessero costruire, da mediatori preziosi, una filosofia popolare al servizio degli oppressi e delle lotte per raddrizzare le storture della società.
Se si sostituisce l’espressione soft power alla parola direzione culturale, si pensa a quanto quella stessa egemonia si sovrapponga alla nozione postmoderna di immaginario (anche se Gramsci era, appunto, un campione tutto d’un pezzo della modernità), si ripercorrono le sue categorie di “crisi organica” e di “blocco storico”, si guarda alla fortuna straordinaria di cui gode in vari ambienti accademici e culturali anglosassoni – che ne hanno agevolato perfino la riscoperta in madrepatria – si percepisce nitidamente quanto il pensatore dei Quaderni vada ancor più letto in questa nostra epoca di postdemocrazia (e di postpolitica). E, allora, scusate se è poco…

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