giovedì 19 agosto 2021

Lucio Caracciolo sull'Afghanistan

Il territorio afghano – non lo Stato Afghanistan, miraggio forse indotto dalla locale abbondanza di oppiacei – misura da un paio di secoli la temperatura dei grandi o miseri giochi che le potenze ingaggiano nel cuore impervio dell’Asia. Fossero gli imperi zarista e britannico, l’altro ieri, o siano quelli americano e cinese, con la partecipazione speciale di quel che resta del russo, oggi e certamente domani. La fuga insieme tardiva e affrettata del più agguerrito esercito del mondo da quel campo minato ha già conseguenze rilevanti. La prima è la perdita di credibilità del Numero Uno. Riflesso della crisi di fiducia in sé stessa che investe la società americana e ne confonde la razionalità strategica (ma anche viceversa). Sarà una tempesta destinata a mutare in schiarita entro fine decennio, come pronosticava l’anno scorso il geniale geopolitico George Friedman nel suo La tempesta prima della calma , il più originale studio sul momento americano? Nelle cancellerie europee riecheggiano quale profezia le parole di Angela Merkel dopo il suo non-incontro con Trump del maggio 2017: «I tempi nei quali potevamo completamente affidarci ad altri sono passati da un pezzo. Noi europei (eufemismo per tedeschi, n.d.r. ) dobbiamo riprendere il nostro destino nelle nostre mani». Il discorso con cui Biden ha giustificato il ritiro davanti al suo pubblico era d’altronde di stringente logica trumpiana. È l’America che sta cambiando registro, non questo o quel presidente. Più ambigue le conseguenze nel teatro asiatico, epicentro del duello Stati Uniti-Cina. Il provvisorio vincitore di questa mano è il Pakistan. I talebani sono prolungamento dei servizi segreti (Isi) e delle Forze armate pachistane, impegnate a tenere insieme un edificio tarmato dalla nascita, vero arsenale del jihadismo. Soprattutto destinate a controllarne l’arsenale nucleare, allestito per bilanciare quello dell’arcinemico indiano. Con l’evacuazione degli occidentali l’Afghanistan talebano disegna per Islamabad l’agognata profondità strategica contro il vicino. E ne rafforza il vincolo con la Cina, frutto della medesima fissazione anti-indiana. A prima vista, dunque, occorre registrare il trionfo pachistano in terra afghana, su cui l’Isi contava fin dall’autunno 2001, quando correttamente prevedeva che il tentato suicidio americano in quel teatro di “guerra al terrorismo” sarebbe andato a buon fine. Ne deriva la speculare sconfitta dell’India, che negli ultimi anni ha messo tutte le sue uova nel paniere americano venendone ripagata con la cessione dell’Afghanistan al nemico esistenziale. Al grado superiore, questa concatenazione segnerebbe un punto per Pechino nella partita con Washington. Specie se, come pare, i cinesi riusciranno ad esercitare un certo grado di influenza su Kabul. E se i talebani, pragmatici e concreti come vogliono oggi apparire, eviteranno di esportare le loro tecniche terroriste nella vicina provincia cinese del Xinjiang a vantaggio dei ribelli uiguri. Sarà interessante verificare se la Turchia, che in Asia centrale sente di giocare in casa, darà mano alle intese sino-pachistano-afghane. Di sicuro Erdogan intende investire nella regione, con l’equilibrismo necessario a non trovarsi contro gli “alleati” a stelle e strisce. Il formidabile successo delle serie televisive di propaganda neo-ottomana in Pakistan testimoniano, fra l’altro, del soft power turco. Per niente tranquilli sono invece i russi. Il timore che l’estremismo islamista sedimentato nell’Afpak penetri nello spazio regionale ex sovietico e persino in casa propria induce Mosca a cercare fra i talebani referenti che garantiscano contro questa tentazione. Ancora meno sereni i persiani, che hanno perso la loro sfera d’influenza attorno a Herat e sono esposti ai devastanti flussi di droga e alle ondate di profughi afghani in fuga via Iran-Turchia verso l’Europa. Tutto ciò conforta chi a Washington, un po’ credendoci e altrettanto per consolarsi, confida che questa sconfitta possa presto volgere in rivincita: noi ce ne andiamo da quel pantano, ora sono affari di cinesi, russi e iraniani. La storia non è finita. Tantomeno nella terra del Grande Gioco. La Repubblica, 19 agosto 2021

lunedì 16 agosto 2021

Un museo a Ferragosto

SIMONE LORENZATI ROSSANA (CN) - E' un giorno agostano caldissimo. A tutto si pensa tranne che ad una visita ad un Museo. Eppure. Eppure senti che devi andarci, senti che quel piccolo passo non è un passo qualunque. Perché in effetti non lo è. Intanto è la prima volta in cui (ri)torni in un Museo, dopo un anno e mezzo. Nel frattempo una pandemia generale che ha sconvolto il mondo ma che, paradossalmente, ha anche aiutato a dare il giusto valore alle cose. E che ha ricordato a tutti quanti l’enorme importanza della cultura e della storia. Senza dimenticare il dovere della testimonianza, quella che ci permette di capire cosa siamo stati (e, magari, di provare a decidere dove andare). Ed è proprio allora che hai la fortuna di trovare aperto il Codirosso, ovvero il Museo della Resistenza presente a Rossana (CN). Nato vent'anni fa su iniziativa del professor Riccardo Assom, attento storiografo della Resistenza, l’Ecomuseo Il Codirosso si colloca in Val Varaita, ossia in un luogo che vide attivi i partigiani della 15esima Brigata garibaldina “Saluzzo”, poi divenuta 181esima a causa del trasferimento della prima in Val Po. Da oltre sedici anni, ormai, l'Associazione che ne cura la gestione è un Ente Onlus riconosciuto. Il museo si caratterizza per una collezione estremamente ricca di cimeli, tra cui alcuni rari o finanche unici, cui si aggiungono attente descrizioni didascaliche, documentazioni fotografiche e cartacee. Da rimarcare, poi, i numerosi disegni realizzati dal comandante Ernesto Casavecchia negli anni che precedettero la guerra, disegni che arricchiscono ulteriormente il complesso museale, sito all'interno delle sale dello storico Palazzo Garro in via Mazzini 67 a Rossana. L'allestimento è permanente e la visita può proseguire in contesto montano a Borgata Grossa di Lemma (a sette chilometri da Rossana) su di un sentiero partigiano inaugurato nel giugno 2013. Qui, su diversi pannelli dislocati lungo il percorso, vi si leggono nomi e vicende che caratterizzarono quelle giornate di oltre settant’anni fa. Riccardo Assom, fondatore dell’originale museo proprio a Lemma, ricordava che il tutto era stato fatto "per essere da insegnamento alle nuove generazioni e fare in modo che i nostri giovani crescano nel rispetto delle idee di ognuno, coltivando lo spirito di fratellanza che deve esserci tra i popoli, a garanzia dei più alti valori della democrazia riconquistata nei venti mesi di quella dura lotta che vide coinvolta, oltre ai partigiani, anche la popolazione civile". Ma, al di là dei numeri, è cosa fa da contorno al tutto ad essere speciale. Intanto la gentilezza, la cortesia e la professionalità di Ginevra e Paolo, che sono poi alla base di quest’ora e mezza che ci riporta nell’Italia che fu. Si percepisce la loro passione, la loro voglia di raccontare cosa fu la Val Varaita in quel triennio, tra il 1943 ed il 1945. E sono proprio queste tre annate a scandire, temporalmente e fisicamente, gli spazi delle tre sale. Ti ritrovi a sentire le storie di ragazzi poco più che ventenni. Ragazzi, quindi, giovanissimi e che, pure, non ebbero dubbi sulla scelta da compiere. E i partigiani furono davvero di ogni colore politico, dai monarchici fino agli anarchici. Nelle zone di pertinenza del Museo, tuttavia, la parte del leone la fecero i partigiani garibaldini comunisti ed i giellini. Nonostante anni, viene da pensare sin dall’infanzia, imbevuti da una dottrina unicamente di stampo fascista, decisero di combattere a favore della Libertà, affinché si potesse ritornare a leggere, a manifestare, a fare politica, in sostanza a vivere, liberamente. Ed è bello pensare che le parole di Pietro Calamandrei (se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione) e di Antonio Gramsci (istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi perché abbiamo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra forza) vengano ora riprese da chi quella storia non vuole cancellare. Da chi comprende come l’italica tendenza all’oblio, al mettere insieme e al far equivalere ogni cosa – nella notte in cui tutte le vacche sono bige anche tutti i morti divengono uguali – non debba passare. E allora il mio consiglio, per quanto possa contare, è di farvi questo regalo. Di quelli inaspettati quanto preziosi. Il museo apre la prima e la terza domenica di ogni mese, dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18, oltre che su appuntamento (3332966316).

giovedì 8 luglio 2021

Un ricordo di Angelo Del Boca

Matteo Dominioni, Ciao Angelo Questa mattina abbiamo dato un ultimo saluto ad Angelo Del Boca. Credetemi, in questo momento mi è molto difficile scrivere. Ci proverò, raccontando in modo disordinato qualche storia personale. Tutto incominciò tanti anni fa. Una sera, ero con la famiglia in Alto Adige a trovare i parenti materni, la Rai a tarda ora fece vedere un documentario sulla Libia e cominciò un’aspra discussione tra mio padre e uno zio di mia madre che era rimasto mutilato in Libia e per questo, insieme al fatto che era ancora fascista, odiava i libici e Gheddafi. Fra i due contendenti ‘volarono gli stracci’ come si suol dire. Mia madre che anteponeva gli equilibri famigliari si arrabbiò parecchio e rinfacciò a mio padre di avere bevuto troppo e avere esagerato. Ho visto mio padre litigare con altre persone al massimo quattro volte in tutta la vita, e quindi rimasi molto colpito ma diedi ragione a lei. Tornati a Como, dopo qualche giorno, chiesi ulteriori delucidazioni. Mio padre andò verso la libreria e, a colpo sicuro, estrasse e mi passò un libro. Era ‘La guerra d’Abissinia’ di Angelo Del Boca, pubblicato nel 1965 da Feltrinelli e che mio padre aveva preso ai tempi dell’università. Lo lessi d’un botto, lo sottolineai indelebilmente col trattopen, lo rilessi e lo rilessi ancora. Avevo 14 anni e cominciai a domandarmi perché a scuola non mi venivano raccontate certe cose, e come mai nemmeno negli ambienti democratici non vi era memoria sui crimini fascisti in Africa. Mi resi conto in quel momento che c’erano cose del nostro passato che i grandi sapevano e non ci avevano raccontato. Come sempre. Altro che Gramsci, Bordiga o Togliatti, io volevo sentir parlare degli altri, di Abebè Aregai e Zellechè Liku, dei fratelli Kassa e degli anonimi meslenié e cantastorie che sostennero la resistenza al fascismo. Cominciai a informarmi leggendo tutti i libri di Del Boca; con gli anni crebbero interesse e passione che mi hanno permesso di fare ricerca. Adigrat, Adua, Gimma, Macallè sono divenuti luoghi famigliari come Ponzate, Longone al Segrino o i sestrieri veneziani. La prima volta che incontrai Angelo, molto probabilmente rimase perplesso, ‘Il solito rasta scappato di casa’ si sarà detto vedendo i miei dreadlock di 1 metro, ma ricordo ancora il momento dei saluti. ‘Quanti anni hai?’, ‘27’ risposi, ‘allora non sei più giovane’. Aveva ragione, disse 5 parole che mi cambiarono, che poi, negli anni successivi, quando sentivo dire ‘giovani storici’ nei confronti degli over 27 mi tornavano regolarmente in mente e mi giravano le scatole. Grazie tante, dite giovani per tenerci precari, sottopagati, umiliati e per garantire la gerontocrazia. Andare in corso Inghilterra a Torino a chiacchierare con Angelo, scambiare idee, ricevere suggerimenti è stata la cosa più edificante della mia vita. Passavano le ore senza che ce ne accorgessimo e gli incontri finivano sempre con un ‘devo scappare ho il treno’ oppure ‘adesso ti lascio mia moglie ha preparato la cena’. Grazie ad Angelo ho conosciuto Martha Nassibou che a sua volta mi mise in contatto con Abate Ghetacciù figlio di ras Ghetacciù e Mikael Immirù, figlio di ras Immirù. Non c’è più nessuno purtroppo ma le storie le ho raccolte e registrate. Racconti di un mondo tradizionale che non c’è più, ma anche testimonianze di stragi, massacri, deportazioni. Grazie ad Angelo ho pubblicato alcuni articoli su ‘Studi piacentini’ e ‘I sentieri della ricerca’ che furono due esperienze editoriali importantissime per gli studi italiani sul colonialismo. In diverse circostanze mi diede degli input per delle ricerche. Alcune andate a termine come quella su Fekini che portò alla pubblicazione di ‘Ad un passo dalla forca’, altre finite nel nulla. Una in particolare la voglio raccontare. Un giorno mi arrivò una busta nella quale Angelo aveva inserito una lettera della comunità di esuli somali in Gran Bretagna originari di Barca. Questi chiedevano informazioni, documenti, fonti insomma per potere ricostruire la propria storia. Purtroppo, non sono mai riuscito ad esaudire quella richiesta che era un vero e proprio grido d’aiuto. Credeteci, ma ogni tanto ci penso e mi sento in colpa, per non avere fatto il mio dovere e per non avere aiutato i fratelli e le sorelle somale. Angelo, fosse stato più giovane, lo avrebbe fatto. Quando ero via di casa e arrivava una lettera da Torino, chiedevo di aprirla e leggermela subito al telefono. In un caso mio padre aprì la busta ma non mi volle leggere il contenuto. Scannerizzò le due pagine e mi inviò un file. Era una bella lettera, troppo bella per essere letta da un’altra persona. Perdonatemi la caduta di stile ma devo ammettere di essere stato fortunato nella vita, perché tutto sommato ho fatto quello che sin da pischello avrei voluto fare: scrivere un libro sul colonialismo italiano lavorando fianco a fianco con persone e studiosi di altissimo livello. Qualcuno ha detto – è una citazione sciocca me ne rendo conto – che i sogni sono progetti da realizzare. Io il mio sogno l’ho realizzato. Ciò detto, di solito, quando qualcun^ mi dice ‘Sto leggendo il tuo libro’, rispondo ‘salta il capitolo 2’, oggi direi ‘leggi l’introduzione e poi chiudilo, non perdere tempo. Leggiti Del Boca’. Ieri mio figlio a cena mi dice ‘hai sentito? È morto Del Boca. E adesso?’. Non sono riuscito a rispondere subito e lui ha capito il mio dolore. Alla fine ‘andiamo avanti Carlo’ gli ho detto. Ci sono tantissim^ studios^ che negli anni hanno dato contributi straordinari. L’eredità di Angelo è nei libri, nelle riviste, nei convegni, nei seminari, nelle iniziative militanti. Andiamo avanti studiando, ricercando, divulgando. Nessuno per favore in questo momento mi chieda cosa si potrebbe fare. Lasciatemi nel mio dolore. Ho solamente un rimpianto: mi sarebbe piaciuto trascorrere un pomeriggio al castello di Lisignano con Angelo, Davide e Manulo a parlare di Etiopia, di India, di Afghanistan, dell’Ossola e dei partigiani piacentini.

venerdì 9 aprile 2021

La morte del principe Andrej

Il principe Andréj non soltanto sapeva di dover morire, ma si sentiva mancare, ed era come già morto a metà. Aveva la sensazione di allontanarsi da ogni cosa terrena e quella di una strana e gioiosa levità di tutto il suo essere. Senza impazienza e senza ansia, attendeva il compimento di ciò che incombeva su di lui. Quella cosa terribile, eterna, ignota e lontana di cui aveva sentito la presenza per tutta la vita, gli era ormai vicinissima e, per quella strana sensazione di levità dell’essere, quasi comprensibile e tangibile… Aveva avvertito la prima volta questo sentimento quando la granata gli turbinava davanti come una trottola ed egli guardava le stoppie, i cespugli, il cielo, pur sapendo che dinanzi a lui c’era la morte. Quando, dopo essere stato ferito, aveva ripreso coscienza e nella sua anima, in un istante, quasi egli si fosse liberato dal peso della vita, era sbocciato quel fiore dell’amore eterno, libero, indipendente da questa vita, egli non temeva più la morte e non vi pensava. Quanto più, in quelle ore di dolorosa solitudine e di semidelirio, che aveva trascorso dopo la ferita, rifletteva su quel nuovo principio di eterno amore che gli si era rivelato, tanto più, senza avvedersene, ripudiava la vita terrena. Amare tutto e tutti, sacrificarsi sempre per l’amore, significava non amare nessuno, significava non vivere di vita terrena. E perciò, quanto più era permeato da questo principio d’amore, tanto più rinnegava la vita e tanto più distruggeva quella terribile barriera che, quando non c’è amore, sta tra la vita e la morte. Allorché, in quel primo tempo, si ricordava di dover morire, diceva a sé stesso: “Che importa? Tanto meglio!”. Ma dopo quella notte a Mitisci quando, quasi in preda al delirio, aveva visto comparire colei che egli desiderava e quando, premendo la mano di lei alle proprie labbra, aveva pianto silenziose lacrime di gioia, l’amore per una donna era insensibilmente penetrato nel suo cuore e lo aveva di nuovo legato alla vita. E turbamenti e pensieri gioiosi ripresero ad affacciarsi alla sua mente. Ricordando il momento in cui, al posto di medicazione, aveva veduto Kuragin, non poteva più tornare ai sentimenti di allora. Ora lo tormentava il dubbio: sarà ancora vivo? E non osava chiederlo. La malattia, dal lato fisico, seguiva il suo corso naturale, ma ciò che Natascia aveva definito “gli è accaduto questo” era avvenuto due giorni prima dell’arrivo della principessina Màrija. Era stata l’ultima lotta morale tra la vita e la morte, e la morte era riuscita vittoriosa. Era stata l’inattesa consapevolezza di amare ancora la vita, che si raffigurava per lui nell’amore per Natascia, e l’ultima, dominata crisi di orrore davanti all’ignoto. Era sera. Come ogni giorno, dopo pranzo, egli aveva un po’ di febbre e una straordinaria lucidità di pensiero. Sònja era seduta presso la tavola. Egli sonnecchiava. A un tratto fu assalito da una sensazione di gioia. “Ah, è venuta lei!”, pensò. Infatti ora, al posto di Sònja, era seduta Natascia, entrata senza fare alcun rumore. Da quando Natascia aveva incominciato a curarlo, il principe Andréj provava la sensazione fisica della vicinanza della fanciulla. Ella sedeva accanto a lui, sulla poltrona, e gli nascondeva con la sua persona la luce della candela. Lavorava a maglia. (Aveva imparato a fare la calza da quando, una volta, il principe Andréj le aveva detto che nessuno sapeva curare gli ammalati così bene come le vecchie governanti che fanno la calza, e che in quello sferruzzare c’è un qualcosa di riposante). Le dita sottili della fanciulla si muovevano rapide sui ferri che di tanto in tanto si urtavano, e il principe Andréj vedeva nettamente il profilo pensieroso del suo volto. Ella fece un movimento, il gomitolo di lana le cadde dalle ginocchia. La fanciulla trasalì, guardò il principe, messa la mano davanti alla candela, con un movimento cauto rapido e preciso si chinò, raccolse il gomitolo e riprese la posizione di prima. Egli, immobile, la guardava e capiva che, dopo aver fatto quel movimento, ella aveva bisogno di respirare profondamente, ma non si decideva a farlo e riprendeva fiato a poco a poco. Al monastero di Tròjtza, il principe e Natascia avevano parlato del passato ed egli le aveva detto che, se Iddio gli avesse concesso di vivere, non avrebbe cessato di ringraziarlo perché, grazie a quella ferita, era di nuovo riunito a lei; ma, da allora, non avevano mai più parlato del futuro. “Era o non era possibile che ci fosse un futuro?”, pensava egli ora, guardando la fanciulla e ascoltando il lieve ticchettio dei lunghi aghi. “Possibile che il destino mi abbia riunito a lei in un modo così strano soltanto per lasciarmi morire? E’ possibile che io abbia avuto la rivelazione della verità della vita soltanto perché vivessi nella menzogna? Io l’amo più di tutto al mondo. Ma cosa posso fare, se l’amo?”, pensò e, all’improvviso, si mise involontariamente a gemere, per l’abitudine datagli dalle lunghe sofferenze. A quel gemito, Natascia posò il gomitolo, si chinò verso l’ammalato e, vedendo gli occhi lucenti di lui, gli si avvicinò di più. – Non dormite? – No, da un pezzo vi sto guardando. Ho sentito quando siete entrata. Nessuno, come voi, mi dà quella pace così dolce… e quella luce… Vorrei piangere dalla gioia… Natascia si chinò ancora di più verso di lui. Il suo viso raggiava di estatica gioia. – Natascia, io vi amo troppo. Più di tutto al mondo! – Anch’io! – esclamò la fanciulla, e si voltò per un attimo. – Ma perché troppo? – domandò poi. – Perché troppo? Ebbene, cosa pensate, cosa sentite in fondo all’animo? Vivrò? Che ne dite? – Ne sono certa! Ne sono certa! – gridò quasi Natascia, afferrandogli tutt’e due le mani con slancio appassionato. Egli tacque. – Come sarebbe bello! – E, presa una mano di lei, la baciò. Natascia era felice e commossa; ma subito pensò che l’ammalato aveva bisogno di tranquillità. – Intanto non avete dormito – disse, soffocando la propria gioia. – Cercate di dormire… ve ne prego. Egli, dopo averla stretta, lasciò la mano di Natascia, ed ella tornò verso la candela e sedette dov’era prima. Due volte lo guardò e due volte vide gli occhi lucenti di lui che incontravano i suoi. Si impose il compito di fare un dato pezzo di maglia e di non guardarlo più sino a che non avesse finito. Difatti, poco dopo, egli chiuse gli occhi e si addormentò. Non dormì a lungo e ad un tratto si svegliò agitato, coperto da un sudore freddo. Si era addormentato continuando a pensare a ciò che tanto occupava allora la sua mente: alla vita e alla morte. E, soprattutto, alla morte a cui si sentiva più vicino. “L’amore? Che cosa è l’amore?”, pensava. “L’amore si oppone alla morte. L’amore è vita. Tutto, tutto ciò che capisco, lo capisco soltanto perché amo. Tutto è, tutto esiste, soltanto perché amo. Tutto è legato all’amore. L’amore è Dio e morire, per me, piccola particella d’amore, significa tornare alla fonte comune ed eterna”. Questi pensieri gli parevano consolanti. Ma non erano altro che pensieri. Qualcosa vi mancava, avevano qualcosa di unilateralmente personale, di intellettuale, erano privi di evidenza. E persisteva la stessa, vaga inquietudine. Si riaddormentò. In sogno, si vide coricato nella camera in cui si trovava realmente, non era più ferito, stava bene. Parecchie persone insignificanti, indifferenti, apparivano a un tratto davanti a lui. Egli parlava con loro, discuteva di cose inutili. Esse si preparavano a recarsi in qualche posto. Il principe Andréj ricordava vagamente che tutto questo non aveva alcuna importanza, che egli aveva ben altre cose più gravi e preoccupanti cui pensare, ma continuava ugualmente a parlare, sorprendendo i suoi ascoltatori con parole futili e spiritose. A poco a poco, insensibilmente, tutte quelle persone cominciavano a sparire e tutto cedeva il posto a un solo problema: come si poteva chiudere la porta? Egli si alzava e andava verso la porta, con l’intenzione di spingere il paletto per chiuderla. Dal riuscirvi o meno dipendeva “tutto”. Egli andava, si affrettava, ma le gambe non si movevano, ed egli sapeva che non sarebbe giunto in tempo a chiudere, tuttavia tendeva morbosamente tutte le proprie forze. Una paura tormentosa lo assaliva. Era la paura della morte: essa stava dietro la porta. Ma mentre egli barcollando, senza più forze, stava per giungere alla porta, ecco che “quella cosa” orribile, premendo dall’altra parte, cercava di spingere per entrare e bisognava trattenerla. Egli si afferrava alla porta, raccoglieva le ultime forze, non già per chiudere, – ormai era impossibile – ma almeno per trattenerla. Ma le sue forze erano insufficienti, maldestre e, premuta da quell’orrore, la porta si apre e si richiude. Ancora una volta quella cosa premeva dall’altra parte. Gli ultimi, sovrumani sforzi erano vani: due battenti si spalancavano senza rumore. Quella cosa era entrata, era la morte! E il principe Andréj moriva. Ma, proprio nell’istante in cui moriva, il principe Andréj si era ricordato che stava dormendo e, fatto un ultimo sforzo, si era svegliato. “Già, quella era la morte… Sono morto e mi sono svegliato. Sì, la morte è risveglio”. La sua anima era stata, a un tratto, avvolta dalla luce, e il velo che sino a quel momento gli aveva nascosto l’ignoto, si era sollevato davanti allo sguardo del suo spirito. Si sentì come liberato da una forza dapprima imprigionata dentro di lui e provò quello strano senso di levità che non lo abbandonò più. Quando, destandosi madido di gelido sudore, si era agitato sul divano, Natascia gli si era avvicinata e gli aveva domandato che cosa avesse. Il principe Andréj non le aveva risposto e, senza capirla, aveva continuato a fissarla con uno sguardo strano. Ecco ciò che gli era accaduto due giorni prima dell’arrivo della principessina Màrija. Proprio da quel giorno, come diceva il dottore, la febbre che lo prostrava aveva preso una brutta forma, ma Natascia non si curava di ciò che diceva il dottore; ella vedeva quei terribili sintomi morali, che non le lasciavano alcun dubbio. Pure da quel giorno era cominciato per il principe Andréj insieme con il risveglio dal sonno, il risveglio dalla vita. E, in relazione alla durata della vita, esso non gli appariva più lento del risveglio dal sonno in relazione alla durata di un sogno. Nulla vi era di terrificante e di brusco in quel risveglio relativamente lento. I suoi ultimi giorni, le sue ultime ore trascorsero come al solito, molto semplicemente. E la principessina Màrija e Natascia, che non si allontanavano da lui, lo sentivano. Esse non piangevano, non trasalivano e, negli ultimi giorni, avevano la sensazione di non assistere più lui (egli non c’era già più, se ne era andato), ma il suo ricordo più intimo: il suo corpo. I loro sentimenti erano così forti che il lato esteriore e terribile della morte non le impressionava più, ed esse non trovavano necessario eccitare il loro dolore. Non piangevano né davanti a lui né quando erano sole, ma nemmeno parlavano di lui tra di loro. Sentivano di non poter esprimere a parole ciò che avevano compreso. Tutte e due vedevano come egli sempre più profondamente, in modo lento e tranquillo, si allontanasse da loro, sprofondando chissà dove, e entrambe sapevano che così doveva essere e che era bene che fosse così. Il principe Andréj si confessò e si comunicò; tutti vennero a dargli l’ultimo addio. Quando gli condussero suo figlio, posò le labbra su di lui e volse il capo, non perché quel saluto gli fosse penoso (la principessina Màrija e Natascia lo capivano), ma soltanto perché supponeva che da lui non si esigesse altro. Ma quando dissero di dare al figlio la sua benedizione, egli fece ciò che gli si chiedeva e si guardò attorno come per chiedere se dovesse fare ancora altro. Quando, con gli ultimi sussulti, l’anima si staccò dal corpo, la principessina Màrija e Natascia erano presenti. – È finita?! – disse la principessina Màrija, dopo che il corpo di lui, raffreddandosi già da alcuni minuti, giaceva immobile davanti a loro. Natascia si avvicinò, guardò quegli occhi spenti e si affrettò a chiuderli. Li chiuse e non li baciò, ma avvicinò religiosamente le labbra su quello che era l’ultimo e il più vicino ricordo di lui. “Dov’è andato? Dov’è ora?”. Quando il corpo, lavato e vestito, giacque nella bara sopra la tavola, tutti si avvicinarono per dargli l’estremo addio, e tutti piangevano. Nikòluska piangeva per lo stupore doloroso che gli straziava il cuore; Sònja e la contessa piangevano di pietà per Natascia e perché egli non era più; il vecchio conte piangeva perché sentiva che presto sarebbe toccato a lui fare lo stesso tremendo passo. Natascia e la principessina Màrija ora piangevano anch’esse, ma non per i loro dolori personali; piangevano per la commozione reverente che aveva invaso le loro anime dinanzi alla coscienza del semplice e solenne mistero della morte che si era compiuto innanzi a loro.

venerdì 29 gennaio 2021

 
 
 

LIBRI A KM ZERO
 
Gianni Oliva, Il giovane editore che scommette sui libri di carta e racconta vezzi, gusti e manie dei collezionisti, La Stampa Torinosette, 29 gennaio 2021
 
Un libro che ha il profumo delle bancarelle dei portici di via Po e di piazza Carlo Felice, l'odore delle pagine sfogliate, rilette, meditate: a metà strada tra autobiografia intellettuale e ricostruzione d'ambiente, "La compagnia del libro" di Giovanni Carpinelli (edizioni Raineri Vivaldelli) è una stimolante cavalcata tra i libri di seconda mano e i loro significati. La trama è essenziale e segue le vicende imprenditoriali di Marco, che ha il coraggio di iniziare un'attività libraria quando la stagione del cartaceo sembra esaurita, ottiene risultati insperati abbinando la vendita diretta con quella on line, e la ramifica creando un'editrice per ripubblicare "testi in attesa di resurrezione": con lui sono gli amici del banco al mercato di piazza Nizza, Valentina, impiegata al Circolo dei Lettori; Giacomo, commercialista agiato con studio precollinare; e Giovanni, l'autore, professore universitario in pensione. Il messaggio di questa piccola storia di vita è semplice: bisogna avere il coraggio di credere nel futuro e rigenerarsi, senza cedere all'"isolamento rancoroso della nostalgia". Ma il fascino del volume (130 pagine che si leggono in un fiato) risiede soprattutto nella rassegna dei volumi che passano sulla bancarella, nei gusti variegati di coloro che li raccolgono nelle proprie biblioteche, negli interessi fluttuanti dei compratori. Nei grandi lotti di libri che eredi frettolosi cedono a Marco per sgomberare i locali, scorre la storia delle attitudini culturali italiane dell'ultimo secolo: le prime edizioni da collezionista de "il Gattopardo" o "Se questo è un uomo", la grafica fascista di Gino Boccasile o Marcello Dudovich, le serie di Georges Simenon, i cataloghi di Frassinelli ripresi da Adelphi, i tascabili Bur e Oscar Mondadori, la letteratura di consumo di Dan Brown o della Rowling.
Lettore attento e appassionato, Carpinelli dissemina il racconto di commenti di spessore (a proposito di Simenon, parla di "stile sfumato" che "avvicina allo spettacolo della vita, senza mai arrivare ad impadronirsi del senso"), ma soprattutto celebra la forza del libro: "il libro narra una vicenda esemplare, oppure strana, oppure appassionante. Contiene versi capaci di mutare l'immagine del mondo. O riflessioni profonde, o formule divertenti". Soprattutto, il libro è una compagnia che "ti può cambiare la vita" perché dentro "ci trovi il mondo". —

 

domenica 17 gennaio 2021

Reinventarsi per uscire dallo stallo

 


Simone Lorenzati, Casa di riposo e teatro


Ormai la pandemia è accanto a noi da dieci mesi. Intorno a noi. E tra i più colpiti dal virus a livello fisico ma anche emotivo - vi sono senza dubbio alcuni tra gli anziani delle Rsa. Eppure, c’è chi non si è affatto dimenticato di loro. C’è chi, nonostante tutto, ha pensato di coinvolgerli, unendo due cose, apparentemente, ad oggi, inconciliabili: ospiti di una casa di riposo e teatro. Ed è proprio da questo binomio, infatti, che ha preso forma il laboratorio teatrale che vede protagonisti – tra gli altri - Vera, Stella, Alberto e Celeste, tutti tra i settanta ed i novantotto anni. “Fino al prossimo abbraccio” è il titolo dell’opera che, grazie all’impegno della compagnia “Soggetti smarriti”, debutta così sul palco, in un contesto non certamente favorevole, eppure con un entusiasmo assolutamente contagioso.

Una compagnia, insomma, che ha saputo andare controcorrente, mentre il resto tendeva a distanziare e allontanare gli anziani dai propri affetti. “Il nostro credo, cosa da sempre muove le nostre, come ama dire la direttrice della struttura – la Residenza San Bernardo di Roma - Alessandra Italia, è che la vita sia un valore e ogni giorno una possibilità da non sprecare. Senza la sua generosità, unitamente a quella di Ilaria Zandri, tutto ciò non sarebbe stato possibile” esordisce Valentina Ruggiero. E’ proprio Ruggiero, infatti, ad occuparsi del progetto in prima persona, unendo la sue pluriennale esperienza nel sociale alle sue passioni per il cinema e il teatro. “Il laboratorio teatrale è nato in collaborazione con Laura Pece, aiuto regista e assolutamente fondamentale per me. Ma sono loro, i nostri anziani, ad essersi messi in discussione in prima persona”. Con lo spettacolo, infatti, è completamente cambiato l’approccio degli ospiti della Rsa rispetto al quotidiano. “Ci hanno stupito, hanno iniziato a conoscersi, a vivere, a confrontarsi. Più di una volta ci è capitato di vedere provare le battute insieme tra loro nella stanza di qualcuno. Insomma hanno fatto gruppo, lo spettacolo teatrale è stata la leva che ha dato il là al tutto” prosegue Ruggiero. “Recitare è parecchio divertente, ma non permette di lasciare fuori le proprie emozioni, il proprio stato d’animo, la propria voglia di mettesi in gioco. E’ così che gli ospiti sono diventati protagonisti, mentre io ho cercato di coinvolgerli, di invitarli a proporre, a discutere, a commentare, a progettare, unendo insomma la responsabilità del palco insieme al riconoscimento delle loro capacità”. Un progetto ambizioso che richiede, da parte degli anziani, presenza costante, esercizi di vocalizzazione, di respirazione, prove, copioni, battute da imparare a memoria. “La loro partecipazione, ovviamente volontaria, è stata enorme con un entusiasmo crescente per il progetto, senza dimenticare il loro impegno andato ben oltre ogni aspettativa. Cosa mi ha colpito è il loro essersi organizzati autonomamente - oltre l’orario delle lezioni - per provare insieme e per scrivere dialoghi e monologhi da proporre poi al nostro laboratorio”. Insomma un modo per bypassare una realtà che li vede lontani dai propri cari da marzo 2020, potendo questi avvicinarsi unicamente dietro ad un vetro. “Qui entriamo in gioco noi che, in quanto operatori, abbiamo pensato di coinvolgerli in questa cosa. Un modo per superare la solitudine, e magari far dimenticare loro i vari acciacchi”. Certo la pandemia ha imposto parecchi stop. “Sì, non ci voleva. L’idea era quella di poter esportare il progetto ad altre realtà, ma chiaramente è tutto cristallizzato. Fortunatamente la San Bernardo dispone di un suo spazio interno che abbiamo adibito a teatro e, grazie alla presenza di montatori, luci e quant’altro ci ha di fatto permesso di realizzare uno spettacolo che i nostri anziani hanno presentato, in qualche modo, di fronte ad un pubblico esterno, seppur sparuto”. La speranza, ovviamente, è che “Fino al prossimo abbraccio” possa andare in scena davanti quantomeno ai famigliari degli anziani che calcano il palco. “E’ il nostro primo lavoro – lo spettacolo è online al link https://www.youtube.com/watch?v=4IJCbAoLl0U - ma stiamo già pensando ad un seguito. Il nostro è lavoro quotidiano, sia con gli attori sia a livello di testi sia un quanto a progettazione” dettaglia ancora Valentina. “Cosa mi colpisce, e mi emoziona davvero, è vedere la gioia nei loro occhi, quando diventano protagonisti su di un palco. Alcuni si trasformano letteralmente a livello caratteriale, magari vincendo una enorme timidezza di base mentre, al contrario, altri, in apparenza molto sicuri di sé nel quotidiano, con le luci ed un microfono appaiono più timorosi. Però, una volta lì, forse sarà la magia della recitazione, li vedo davvero a loro agio, e pare che davvero riescano a dimenticare - per quell’ora - pandemia, malanni e quant’altro” conclude Valentina Ruggiero.

sabato 16 gennaio 2021

Il fantasma di Aisha


Da qualche giorno circola a Torino una mail che sarebbe stata spedita da Aisha Gheddafi a un suo corrispondente italiano. La forma è quella inequivocabile della truffa cosiddetta nigeriana. Un personaggio altolocato chiede aiuto per poter sbloccare del denaro depositato in banca. Non è dato sapere da quale indirizzo sia stata spedita la mail. La pagina  fb alla quale rimanda la foto di Aisha Gheddafi è stata creata il 10 gennaio 2021. Il reale promotore dell'iniziativa potrebbe essere un bancario marocchino di nome Akka Zeroual. 

https://it.wikipedia.org/wiki/Truffa_alla_nigeriana
https://www.teoalida.com/scams/aisha-gaddafi/