giovedì 8 luglio 2021
Un ricordo di Angelo Del Boca
Matteo Dominioni, Ciao Angelo
Questa mattina abbiamo dato un ultimo saluto ad Angelo Del Boca. Credetemi, in questo momento mi è molto difficile scrivere. Ci proverò, raccontando in modo disordinato qualche storia personale.
Tutto incominciò tanti anni fa. Una sera, ero con la famiglia in Alto Adige a trovare i parenti materni, la Rai a tarda ora fece vedere un documentario sulla Libia e cominciò un’aspra discussione tra mio padre e uno zio di mia madre che era rimasto mutilato in Libia e per questo, insieme al fatto che era ancora fascista, odiava i libici e Gheddafi. Fra i due contendenti ‘volarono gli stracci’ come si suol dire. Mia madre che anteponeva gli equilibri famigliari si arrabbiò parecchio e rinfacciò a mio padre di avere bevuto troppo e avere esagerato. Ho visto mio padre litigare con altre persone al massimo quattro volte in tutta la vita, e quindi rimasi molto colpito ma diedi ragione a lei. Tornati a Como, dopo qualche giorno, chiesi ulteriori delucidazioni. Mio padre andò verso la libreria e, a colpo sicuro, estrasse e mi passò un libro. Era ‘La guerra d’Abissinia’ di Angelo Del Boca, pubblicato nel 1965 da Feltrinelli e che mio padre aveva preso ai tempi dell’università. Lo lessi d’un botto, lo sottolineai indelebilmente col trattopen, lo rilessi e lo rilessi ancora. Avevo 14 anni e cominciai a domandarmi perché a scuola non mi venivano raccontate certe cose, e come mai nemmeno negli ambienti democratici non vi era memoria sui crimini fascisti in Africa.
Mi resi conto in quel momento che c’erano cose del nostro passato che i grandi sapevano e non ci avevano raccontato. Come sempre. Altro che Gramsci, Bordiga o Togliatti, io volevo sentir parlare degli altri, di Abebè Aregai e Zellechè Liku, dei fratelli Kassa e degli anonimi meslenié e cantastorie che sostennero la resistenza al fascismo.
Cominciai a informarmi leggendo tutti i libri di Del Boca; con gli anni crebbero interesse e passione che mi hanno permesso di fare ricerca. Adigrat, Adua, Gimma, Macallè sono divenuti luoghi famigliari come Ponzate, Longone al Segrino o i sestrieri veneziani.
La prima volta che incontrai Angelo, molto probabilmente rimase perplesso, ‘Il solito rasta scappato di casa’ si sarà detto vedendo i miei dreadlock di 1 metro, ma ricordo ancora il momento dei saluti. ‘Quanti anni hai?’, ‘27’ risposi, ‘allora non sei più giovane’. Aveva ragione, disse 5 parole che mi cambiarono, che poi, negli anni successivi, quando sentivo dire ‘giovani storici’ nei confronti degli over 27 mi tornavano regolarmente in mente e mi giravano le scatole. Grazie tante, dite giovani per tenerci precari, sottopagati, umiliati e per garantire la gerontocrazia.
Andare in corso Inghilterra a Torino a chiacchierare con Angelo, scambiare idee, ricevere suggerimenti è stata la cosa più edificante della mia vita. Passavano le ore senza che ce ne accorgessimo e gli incontri finivano sempre con un ‘devo scappare ho il treno’ oppure ‘adesso ti lascio mia moglie ha preparato la cena’.
Grazie ad Angelo ho conosciuto Martha Nassibou che a sua volta mi mise in contatto con Abate Ghetacciù figlio di ras Ghetacciù e Mikael Immirù, figlio di ras Immirù. Non c’è più nessuno purtroppo ma le storie le ho raccolte e registrate. Racconti di un mondo tradizionale che non c’è più, ma anche testimonianze di stragi, massacri, deportazioni.
Grazie ad Angelo ho pubblicato alcuni articoli su ‘Studi piacentini’ e ‘I sentieri della ricerca’ che furono due esperienze editoriali importantissime per gli studi italiani sul colonialismo. In diverse circostanze mi diede degli input per delle ricerche. Alcune andate a termine come quella su Fekini che portò alla pubblicazione di ‘Ad un passo dalla forca’, altre finite nel nulla. Una in particolare la voglio raccontare. Un giorno mi arrivò una busta nella quale Angelo aveva inserito una lettera della comunità di esuli somali in Gran Bretagna originari di Barca. Questi chiedevano informazioni, documenti, fonti insomma per potere ricostruire la propria storia. Purtroppo, non sono mai riuscito ad esaudire quella richiesta che era un vero e proprio grido d’aiuto. Credeteci, ma ogni tanto ci penso e mi sento in colpa, per non avere fatto il mio dovere e per non avere aiutato i fratelli e le sorelle somale. Angelo, fosse stato più giovane, lo avrebbe fatto.
Quando ero via di casa e arrivava una lettera da Torino, chiedevo di aprirla e leggermela subito al telefono. In un caso mio padre aprì la busta ma non mi volle leggere il contenuto. Scannerizzò le due pagine e mi inviò un file. Era una bella lettera, troppo bella per essere letta da un’altra persona.
Perdonatemi la caduta di stile ma devo ammettere di essere stato fortunato nella vita, perché tutto sommato ho fatto quello che sin da pischello avrei voluto fare: scrivere un libro sul colonialismo italiano lavorando fianco a fianco con persone e studiosi di altissimo livello. Qualcuno ha detto – è una citazione sciocca me ne rendo conto – che i sogni sono progetti da realizzare. Io il mio sogno l’ho realizzato. Ciò detto, di solito, quando qualcun^ mi dice ‘Sto leggendo il tuo libro’, rispondo ‘salta il capitolo 2’, oggi direi ‘leggi l’introduzione e poi chiudilo, non perdere tempo. Leggiti Del Boca’.
Ieri mio figlio a cena mi dice ‘hai sentito? È morto Del Boca. E adesso?’. Non sono riuscito a rispondere subito e lui ha capito il mio dolore. Alla fine ‘andiamo avanti Carlo’ gli ho detto. Ci sono tantissim^ studios^ che negli anni hanno dato contributi straordinari. L’eredità di Angelo è nei libri, nelle riviste, nei convegni, nei seminari, nelle iniziative militanti. Andiamo avanti studiando, ricercando, divulgando. Nessuno per favore in questo momento mi chieda cosa si potrebbe fare. Lasciatemi nel mio dolore.
Ho solamente un rimpianto: mi sarebbe piaciuto trascorrere un pomeriggio al castello di Lisignano con Angelo, Davide e Manulo a parlare di Etiopia, di India, di Afghanistan, dell’Ossola e dei partigiani piacentini.
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