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venerdì 28 novembre 2014

Calipso, la Grande Dea

Calipso
(gr. Καλυφώ; lat. Calypso)
Utet, Letteratura europea on line


Con questo nome è designata nell’Odissea (V, 68 ss.) una ninfa, figlia di Adante, che vive nell’isola di Ogigia, entro una grotta attorno la quale cresce la vite. Nel poema omerico si narra che Calipso accolse Ulisse naufrago e, innamoratasi di lui, lo trattenne per sette anni a Ogigia nonostante la melanconia dell’eroe e il suo rimpianto per la patria lontana. Al termine dei sette anni Zeus, per mezzo di Ermes, ordinò a Calipso di lasciar partire Ulisse, e la ninfa allora diede modo all’eroe di costruirsi la zattera con cui sarebbe giunto presso l’isola dei Feaci.
Il nome di Calipso è stato interpretato in passato come la nasconditrice o la nascosta (dal gr. kalyptō, nascondo). Più recenti studi hanno però proposto che si tratti di un nome egeo-anatolico (da kala, fianco di monte, più il suffisso -yb), significante “la dea della grotta”. Calipso infatti è, come Circe, un’immagine della Grande Dea anatolico-mediterranea.
Essa risiede al centro del mondo (“nell’ombelico del mare”), presso l’albero della vita (che nel mondo anatolico e mesopotamico è simboleggiato dalla vite fin dall’epoca sumera), e secondo lo Jensen è analoga alla giovane dea mesopotamica Siduri, incontrata da Gilgamesh in un giardino al centro del mondo, presso una vite. In quanto signora della vita, Calipso può offrire a Ulisse per trattenerlo l’ambrosia che accorda l’immortalità (e che Ulisse rifiuta, desideroso di tornare a Itaca). Il soggiorno dell’eroe nella grotta, che è santuario e talamo nuziale della dea, dev’essere quindi inteso come una permanenza alle fonti della vita che si inquadra nel grande disegno iniziatico dell’Odissea. Oltre che nell’Odissea, Calipso appare estremamente di rado nella letteratura classica. Esiodo nella Teogonia nomina un’oceanina Calipso, e una tardiva appendice alla Teogonia menziona due figli, Nausitoo e Nausinoo, che Calipso avrebbe avuto da Ulisse. Restano inoltre interpretazioni parodistiche della vicenda di Calipso e Ulisse nell’opera del commediografo Anassila e di Luciano. Oltre che in varie opere ispirate all’Odissea, nelle letterature moderne e contemporanee la figura di Calipso ricompare, tra l’altro, nelle Avventure di Telemaco di Fénelon e nei Dialoghi con Leucò di Pavese.




Odissea, libro V, traduzione di Enzio Cetrangolo

Ma quando nell'isola giunse, ch'era lontana,
 Ermes uscito dal mare violaceo alla riva,
 percorse la terra, finché alla grotta pervenne
 vasta dimora alla ninfa bene chiomata;
 la trovò ch'era dentro. Un gran fuoco
 ardeva al camino; un odore di cedro e di tio
 spirava nell'aria intorno per l'isola.
 E là dolcemente cantando ella tesseva
 con la spola sua d'oro intenta al telaio.
 Un bosco aggirava la grotta fiorente:
 ontani e pioppi e cipressi odorosi,
 dove uccelli di vaste ali avevano i nidi:
 civette e falchi e cornacchie dalla lunga lingua
 gracchianti assidue, amiche del mare;
 e c'era davanti una vite carica d'uve;
 e quattro fontane, l'una all'altra vicine,
 di fila, una chiara acqua mandavano in rivoli opposti;
 e intorno un fiorire era di viole e di apio
 su morbidi prati: tanto che uno là pervenuto.
 anche se dio, ne avrebbe incantata la vista
 e allegrezza del cuore. Là rimaneva
 immoto stupito a guardare il nunzio di Zeus. 

 









Odissea, libro V, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti 

E rispondendole disse l’accorto Odisseo
“O dea sovrana, non adirarti con me per questo:
so anch’io, e molto bene, che a tuo confronto
la saggia Penelope per aspetto e grandezza non val niente a vederla:
è mortale, e tu sei immortale e non ti tocca vecchiezza.
Ma anche così desidero e invoco ogni giorno
Di tornarmene a casa, vedere il ritorno.
Se ancora qualcuno dei numi vorrà tormentarmi sul livido mare
sopporterò, perché in petto ho un cuore avvezzo alle pene.
Molto ho sofferto, ho corso molti pericoli fra l’onde e in guerra:
e dopo quelli venga anche questo!”



mercoledì 4 giugno 2014

Ifianassa


Lucrezio 

Infatti, sorretta dalle mani dei guerrieri, è condotta tremante
all’altare, non perché dopo il rito solenne
possa andare fra i cori dello splendente Imeneo,
ma empiamente casta, proprio nell’età delle nozze,
perché cada, mesta vittima immolata dal padre,
affinché una fausta e felice partenza sia data alla flotta.
Tanto male poté suggerire la religione.

(trad. Luca Canali)

E fu portata su le braccia degli uomini 
così tremante all'altare: non come vergine al rito 
atteso, fra i cori della festa di nozze 
nel corteo delle fiaccole, ma crudelmente casta
nel tempo nuziale fu pallida vittima stesa
sotto il ferro che il padre le immerse nel petto, 
perché si aprisse alle navi la calma del mare. 
Può spingere a questi delitti la religione.

(Trad. E. Cetrangolo)

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nàm sublàta virùm || manibùs tremibùndaque ad àras

dèductàst, || non ùt sollèmni || mòre sacròrum

pèrfectò possèt || clarò comitàri Hymenaèo,

sèd casta ìncestè || nubèndi tèmpore in ìpso

hòstia cònciderèt || mactàtu maèsta parèntis,

èxitus ùt classì || felìx faustùsque darètur.

Tàntum rèligiò || potuìt suadère malòrum.



Nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras
deductast, non ut sollemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur.
Tantum religio potuit suadere malorum.

(De rerum natura, I, 95-101)



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Significativa è qui la scelta di Lucrezio di indugiare sul contrasto tra le nozze promesse alla fanciulla (elemento sottolineato da Euripide) e il motivo reale della sua convocazione in Aulide: lo stesso rito del sacrificio ricalca per alcuni aspetti quello matrimoniale. Tra i più significativi ricordiamo l’espressione “deductast ad aras” che è ricollegabile al rito della deductio, ovvero l’accompagnamento della sposa verso la casa dello sposo, oppure il complemento “nubendi tempore in ipso” con cui si pone l’accento sulla giovane età della fanciulla, ben più adatta alle nozze che alla morte. (Linda Molli)

venerdì 16 maggio 2014

L'incipit dell'Eneide

 

 


 


Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam fato profugus Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum, saevae memorem Iunonis ob iram,
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem
inferretque deos Latio; genus unde Latinum
Albanique patres atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,
quidve dolens, regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?

traduzione di Annibal Caro 

L’armi canto e ’l valor del grand’eroe
Che pria da Troia, per destino, ai liti
D’Italia e di Lavinio errando venne;
E quanto errò, quanto sofferse, in quanti
E di terra e di mar perigli incorse,
Come il traea l’insuperabil forza
Del cielo, e di Giunon l’ira tenace;
E con che dura e sanguinosa guerra
Fondò la sua cittade, e gli suoi Dei
Ripose in Lazio: onde cotanto crebbe
Il nome de’ Latini, il regno d’Alba,
E le mura e l’imperio alto di Roma.
Musa, tu che di ciò sai le cagioni,
Tu le mi detta. Qual dolor, qual’onta
Fece la Dea ch’è pur donna e regina
Degli altri Dei, sì nequitosa ed empia
Contra un sì pio? Qual suo nume l’espose
Per tanti casi a tanti affanni? Ahi! tanto
Possono ancor là su l’ire e gli sdegni?

traduzione di Luca Canali 

Canto le armi e l'uomo che per primo dalle terre di Troia
raggiunse esule l'Italia per volere del fato e le sponde
lavinie, molto per forza di dei travagliato in terra
e in mare, e per la memore ira della crudele Giunone,
 e molto avendo sofferto in guerra, pur di fondare
la città, e introdurre nel Lazio i Penati, di dove la stirpe
latina, e i padri albani e le mura dell'alta Roma.
O Musa, dimmi le cause, per quali offese al suo nume,
di cosa dolendosi, la regina degli dei costrinse un uomo
insigne per pietà a trascorrere tante sventure, ad imbattersi
in tanti travagli? Tali nell'animo dei celesti le ire?

traduzione di Pier Paolo Pasolini

Canto la lotta di un uomo che, profugo da Troia 
la storia spinse per primo alle sponde del Lazio: 
la violenza celeste, e il rancore di una dea nemica, 
lo trascinarono da un mare all’altro, da una terra 
all’altra, di guerra in guerra, prima di fondare la sua città 
e di portare nel Lazio la sua religione: origine 
del popolo latino, e albano, e della suprema Roma. 
Tu, spirito, esponi le intime cause: per quale offesa 
o per quale dolore, la regina degli dèi obligò quell’uomo 
così religioso, a dover affrontare tanti casi, tante 
fatiche: miseria di passioni nei cuori celesti!

Traduzione di Enzio Cetrangolo 

L'uomo guerriero, il profugo io canto che primo
dalle spiagge di Troia giunse fatalmente in Italia
sui lidi di Lavinio; molto e per terre e per mari 
quello fu sbalestrato da Numi celesti a causa dell'ira
lunga di Giunone; e molto in guerra anche sofferse
per fondare la nuova città e condurre i Penati
nel Lazio; da cui la stirpe latina e i padri 
Albani provennero e dell'alta Roma le mura.
Musa, e tu dimmi di questo le cause: per quale
offesa o dolore colei ch'è regina dei Numi
costrinse quell'uomo di fede profonda a passare
per tanti pericoli, a subire tanti travagli.
Un'ira sì grave nei petti celesti permane? 


venerdì 14 giugno 2013

Massimo Recalcati, Telemaco

Odissea, libro II
il discorso di Telemaco agli itacesi

 ansioso di dire
 si fece nel mezzo. L’araldo Pisenore, uomo
di saggi consigli, in mano gli porse lo scettro,
E prima, al vecchio rivolto, Telemaco disse:
“O vecchio, non lungi è quell’uomo: son io,
radunato ho il popolo io, colpito da grande dolore.*
Non di gente, che a noi s’appressi armata,
Nè d’altro, da cui penda il ben comune,
Io vegno a favellarvi. A far parole
Vegno di me, d’un male, anzi di duo,
Che aspramente m’investono ad un’ora.
Il mio padre io perdei? Che dico il mio?
Popol d’Itaca, il nostro: a tutti padre
Più assai, che Re, si dimostrava Ulisse.**
L’altro è peggiore, che presto tutta la casa
mia scuoterà, distruggendo tutti i miei beni.
Si affollano i Proci intorno a mia madre
ritrosa, e son figli di nobili;  ma entrare
non osano in casa d’Icario suo padre,
che dovrebbe la figlia cedere in moglie
a quello che gli riesca più gradito;*
l’intero dì nel mio palagio in vece
banchettan lautamente, e il fior del gregge
struggendo, e dell’armento, e le ricolme
della miglior vendemmia urne vôtando,
vivon di me: nè v’ha un secondo Ulisse,
Che sgombrar d’infra noi vaglia tal peste.
Io da tanto non son, nè uguale all’opra
in me si trova esperïenza, e forza.
Oh così le avess’io, com’io le bramo!**
ma più non sopporto
che la mia casa continui a perire.
Dovreste voi stessi indignarvi e temere
di perder la stima degli altri vicini
e guardarvi dall’ira dei numi, che i vostri
giorni non mutino in tristi. Io vi supplico
per Zeus Olimpio e per Temi, che scioglie
e raduna gli uomini insieme: frenate
dei Proci l’impeto folle, o amici;
non lasciatemi solo a struggermi in pianto,
se pure mio padre, il nobile Ulisse
non mai recò danno agli Achivi
tanto che abbiate di lui a lamentarvi e vogliate
incitare costoro al mio danno. Assai meglio
sarebbe per me se voi stessi i miei beni
divoraste: ne avrei forse un giorno il compenso;
verrei ad uno tutti a pregarvi fintanto
che le sostanze mie non tornassero.
Ora d’affanno insanabile colmate il mio cuore.”*
Detto così, gittò lo scettro a terra,
ruppe in lagrime d’ira, e viva corse
105
di core in cor nel popolo pietade.
     Ma taciturni, immoti, e non osando
Telemaco ferir d’una risposta,
tutti stavano i Proci.**
... 
* Enzio Cetrangolo
** Ippolito Pindemonte

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I complessi di Edipo e di Narciso hanno costituito chiavi di lettura decisive per comprendere il disagio della Civiltà e sono largamente entrati nella cultura comune. Ma oggi non bastano più per interpretare la sofferenza dei giovani. Se la figura di Edipo ha messo in luce il conflitto tra le generazioni e l'impatto beneficamente traumatico della Legge sulla vita umana, quella di Narciso ha mostrato come il nostro tempo sia dominato dall'homo felix, dedicato al culto frivolo ma anche mortifero di se stesso. Di questa egemonia di Narciso raccogliamo oggi una eredità catastrofica: il mito della crescita e dell'espansione fine a se stessa ha mostrato la corda, lo spettacolo iperedonista si è rivelato un circo vuoto e melanconico.
In questo contesto, una nuova figura sembra rappresentare il disagio. È quella di Telemaco. Massimo Recalcati lavora da diversi anni sul tema del padre e della sua assenza. Nella visione di Recalcati in primo piano non c'è più il conflitto a morte tra le generazioni, né l'edonista e sterile affermazione di sé, ma una domanda inedita di padre, di adulti in grado di offrire una testimonianza credibile di come si possa vivere con slancio e vitalità su questa Terra.

Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013

sabato 22 dicembre 2012

Odissea, incipit, traduzioni a confronto

 

 


 

Enzio Cetrangolo (1990)

Parla, Musa, tu dell'eroe scaltro a me: di lui
che andò tanto vagando poi che di Troia la rocca
sacra abbatté; di molti uomini vide le terre e conobbe
la mente; e molto l'animo suo patì sul mare
per tenere se stesso e i compagni vivi al ritorno.
Ma vano fu di salvare i compagni il desiderio
pur grande: ne fece rovina la propria follia;
insensati che i buoi del Sole Iperione mangiarono,
e quello il giorno negò a loro del ritorno.
Tu di queste avventure da un punto qualsiasi movendo,
racconta, o figlia di Zeus, anche a me qualche cosa.


Rosa Calzecchi Onesti (1963)

L'uomo ricco di astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
errò dopo ch'ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;
di molti uomini le città vide e conobbe la mente,
molti dolori patì in cuore sul mare,
lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.
Ma non li salvò, benché tanto volesse,
per loro propria follìa si perdettero, pazzi!,
che mangiarono i bovi del Sole Iperione,
e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno.
Anche a noi di' qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus.



Giuseppe Aurelio Privitera (1981)

Narrami, o Musa, dell'eroe multiforme, che tanto
vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
molti dolori patì sul mare nell'animo suo,
per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo:
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: ad essi egli tolse il dì del ritorno.
Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus.

 
Emilio Villa (1964)

Era un grand’uomo, straordinario giramondo:
espugnata la sacra rocca di Troia, era andato
pellegrino, ramingo, correndo palmo a palmo
il mare: scoprì città, conobbe l’indole di genti
e nazioni. Ora, o Musica dea, ora ispirami
su costui, sulle inaudite sofferenze ch’egli,
solo con il suo coraggio, ebbe ad affrontare
per porre in salvo la propria vita, e proteggere
la via del ritorno ai suoi seguaci! perché
questo appunto egli fortemente voleva: ma
tuttavia non riuscì a portarli in salvo. Essi
perirono; ma vittime delle loro folli sacrileghe
azioni: insensati! vollero mangiare i manzi
sacri al Sole Iperione, e così avvenne che il Sole
sottrasse dal novero dei giorni proprio il giorno
del loro ritorno. Ebbene, tali eventi evoca
o dea, figlia di Zeus, evoca anche per noi
e dando inizio da qualunque momento vuoi.


Philippe Jaccottet (1955)

Ô Muse, conte-moi l’aventure de l’Inventif:
celui qui pilla Troie, qui pendant des années erra,
voyant beaucoup de villes, découvrant beaucoup d’usages,
souffrant beaucoup d’angoisses dans son âme sur la mer
pour défendre sa vie et le retour de ses marins
sans pouvoir en sauver un seul, quoiqu’il en eût;
par leur propre fureur ils furent perdus en effet,
ces enfants qui touchèrent aux troupeaux du dieu d'En Haut,
le Soleil qui leur prit le bonheur du retour...

À nous aussi, Fille de Zeus, conte un peu ces exploits!


Ippolito Pindemonte (1822)

Musa, quell'uom di multiforme ingegno
dimmi, che molto errò, poich'ebbe a terra
gittate d'Ilïòn le sacre torri;
che città vide molte, e delle genti
l'indol conobbe; che sovr'esso il mare
molti dentro del cor sofferse affanni,
mentre a guardar la cara vita intende,
e i suoi compagni a ricondur: ma indarno
ricondur desïava i suoi compagni,
ché delle colpe lor tutti perîro.
Stolti! che osâro vïolare i sacri
al Sole Iperïon candidi buoi
con empio dente, ed irritâro il nume,
che del ritorno il dì lor non addusse.
Deh, parte almen di sí ammirande cose
narra anco a noi, di Giove figlia e diva.


Originale
 

Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ
πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσε·
πολλῶν δ' ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,
πολλὰ δ' ὅ γ' ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν,
ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν καὶ νόστον ἑταίρων.
ἀλλ' οὐδ' ὧς ἑτάρους ἐρρύσατο, ἱέμενός περ·
αὐτῶν γὰρ σφετέρῃσιν ἀτασθαλίῃσιν ὄλοντο,
νήπιοι, οἳ κατὰ βοῦς Ὑπερίονος Ἠελίοιο
ἤσθιον· αὐτὰρ ὁ τοῖσιν ἀφείλετο νόστιμον ἦμαρ.
τῶν ἁμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν.

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 Eppure noi non torniamo mai a casa. Noi, lo sappiamo, andiamo altrove,
a perderci, morendo, nel mondo delle ombre che Ulisse ha visitato: a
divenire "soffi" e "aliti" fra i tanti "sogni" di esseri umani che ci
hanno preceduto. Sì a casa ci attendono forse, se saremo pazienti,
saggi, astuti, e aiutati dagli dei, Penelope, Telemaco, Laerte,
Euriclea e tanti altri. Ma là, nell'Ade, c'è già nostra madre,
Anticlea, che invano cerchiamo di riabbracciare. E verso quella notte
s'avvia - mentre noi, distogliendo lo sguardo, ci asciughiamo una
lacrima - il cane Argo: che pure, dopo vent'anni, ha rivisto e
riconosciuto Ulisse.
L'"Odissea" ce lo ricorda, questo vuoto che mancherà sempre alla
nostra compiutezza. Ma offre al nostro sognare di essa un'immagine
così tangibilmente perfetta, così vicina alla nostra esperienza di
uomini, da fermare all'estremo limite la lunga notte come fa Atena con
l'alba che sta per irrompere sul pianto, sull'amore e sul sonno di
Ulisse e Penelope: "trattenne sull'Oceano Aurora, / non lasciando che
i rapidi cavalli, / messaggeri del giorno, ella aggiogasse: / Lampo e
Fetonte, i fulgidi puledri / che portano la dea sul trono d'oro".

Piero Boitani, L'Indice, n. 10, 1994