Calvino ambientalista non è una sorpresa. Lo scrittore che si schiera dalla parte del mondo animale è un tratto presente nella sua opera fin dall'inizio. Il pezzo che segue stava dentro la rubrica "Gente nel tempo" da lui curata. Vi si parla di una logica animale "che pure esiste", una logica che, per un rovesciamento di prospettiva, viene elevata al rango di "umana" nel senso più nobile della parola.
Italo Calvino, Le capre ci guardano, l'Unità edizione piemontese, 17 novembre 1946
In California l'associazione degli allevatori di bestiame caprino della vallata di San Fernando ha celebrato una commemorazione delle capre di Bikini, sacrificate "per il bene dell'umanità". E' stata ammainata una bandiera a mezz'asta con rulli di tamburi, sono stati intessuti elogi funebri delle bestie defunte.
Qualcuno osserverà che non si son mai fatte commemorazioni dei bambini, delle donne, dei vecchi morti a Yroshima, a Torino, a Milano, che ne sapevano quanto le capre di Bikini del perché morivano, e che pure sono stati sacrificati sull'altare della necessità di guerra.
Ma il senso di questa commemorazione caprina è da ricercarsi, io credo, in un segreto rimorso del genere umano verso gli animali unito a un'ipocrisia caratteristica del genere umano. Vi siete mai chiesto che cos'avranno pensato le capre a Bikini? e i gatti nelle case bombardate? e i cani in zona di guerra? e i pesci allo scoppio dei siluri? Come avranno giudicato noi uomini in quei momenti, nella loro logica che pure esiste, tanto più elementare, tanto più - stavo per dire - umana?
Sì, noi dobbiamo una spiegazione agli animali, se non una riparazione. Loro possono capire quando noi li uccidiamo per mangiarli, quando li mettiamo a tirare un carro, forse anche quando li torturiamo per divertirci nelle corride, o quando li vivisezioniamo per esperimento. sono cose che succedono più o meno anche tra loro. Ma la guerra? Sì, noi dobbiamo una spiegazione agli animali, dobbiamo chieder loro scusa se ogni tanto mettiamo a soqquadro questo mondo che è anche il loro, se li tiriamo in ballo in affari che non li riguardano.
Ecco allora che entra in gioco l'ipocrisia umana. Facciamo degli animali morti o reduci non delle vittime ma degli eroi, tutti dediti alla nostra causa, caduti gridando evviva, li facciamo nostri complici, corresponsabili delle rovine che abbiamo causato: e commemoriamo le capre morte per il bene dell'umanità, erigiamo monumenti ai muli, diamo onorificenze ai piccioni. E, nella nostra ipocrisia, di quello che sarebbe un motivo di rimorso facciamo un motivo di orgoglio: "Ecco, vedete - diciamo - anche le capre, anche i piccioni sono con noi!".
Però, se ci pensate bene, questo succede anche tra uomini: quanti monumenti dedicati agli eroi di una o di un'altra guerra non sarebbero più giusti, più reverenti, più morali, insomma meno ipocriti, se fossero dedicati alle vittime dell'una o dell'altra guerra.
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I bambini ci guardano è un film del 1943 diretto da Vittorio De Sica.
La serie di test nucleari denominati operazione Crossroads si riferisce alle detonazioni nucleari prodotte dagli Stati Uniti d'America nell'atollo di Bikini (Isole Marshall) nell'estate del 1946.
Serenella Iovino, Gli animali di Calvino, Doppiozero, 23 ottobre 2023
Di recente ho pubblicato un libro che si intitola Gli animali di Calvino. Il sottotitolo però è un po’ bizzarro: Storie dall’Antropocene. “Che c’entra Calvino con l’Antropocene?”, vi chiederete. Domanda legittima. Sicuramente non lo aveva mai sentito nominare: in fondo, se ne parla solo da una ventina d’anni. Il fatto, però, che il nome non esistesse quando Calvino scriveva non significa che non esistesse l’Antropocene. E secondo me lui se n’era accorto benissimo: pensiamo alle città continue (Leonia!), o all’inquinamento industriale e nucleare della Nuvola di Smog o di Marcovaldo.
Ora, l’Antropocene ha molti volti: riguarda i paesaggi, gli habitat naturali, l’atmosfera, i cambiamenti climatici, le infinite disuguaglianze che dividono le popolazioni umane di fronte ai rischi ambientali. Però a soffrire nell’Antropocene è in generale la vita planetaria, la biosfera: tutta, dai microrganismi alla “megafauna carismatica”. Non si tratta solo di estinzioni, quella è solo la punta dell’iceberg. La vita nell’Antropocene è sfruttata, dislocata, manipolata, confinata—ed è anche, spesso, incontrollabile: pensiamo alle invasioni di specie “aliene” come i granchi blu o le formiche di fuoco. Calvino queste dinamiche le vede e ce lo fa vedere, e nel libro seguo la sua traiettoria narrativa per mostrare come alcuni dei suoi animali (la formica argentina dell’omonima novella, i gatti e il coniglio di Marcovaldo, il gorilla albino di Palomar, la gallina “di reparto” degli Idilli difficili) siano personaggi esemplari attraverso cui si rivela l’Antropocene.
Il libro voleva parlare della vita umana e non umana nell’Antropocene facendo parlare Calvino, e perciò si concentrava su quei cinque animali. Ognuno di loro costituiva uno spunto per far luce su fenomeni che viviamo tutti noi, a volte senza nemmeno accorgercene. Però gli animali di Calvino sono tanti, e mica tutti ci danno un messaggio geologico. Calvino è pieno di animali. Pensa animali, scrive animali, li sogna, li evoca. E allora, anche invitata da Marco Belpoliti, ho provato a fare un esperimento mentale che vi invito a fare con me.
L’esperimento è questo: immaginiamo Italo Calvino senza animali. Che cosa succede? Per primi spariscono i suoi libri d’esordio, a cominciare dai titoli: I sentieri dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo. Li seguono a ruota La formica argentina e una buona parte di Fiabe italiane, Marcovaldo e Cosmicomiche, incluso Ti con zero. I cavalli araldici e variamente bardati del Visconte dimezzato e del Cavaliere inesistente forse non sono così essenziali (anche se lo è Gurdulù, che in tutte le cose viventi si perde e si trova). Però senza animali Il barone rampante, storia di un uomo che vola, Cosimo, seguito da un cane che striscia, il bassotto Ottimo Massimo, si sfarina alle premesse: quel piatto di lumache. Le città invisibili smarriscono la felicità inconsapevole di Raissa, trainata da cani cavalli e uccelli, vivi e miniati; i pascoli, noti solo alle capre, di Cecilia, la «molto illustre città» in cui si mescolano i luoghi; le sfingi, le chimere, i draghi, le arpie, i liocorni, gli ircocervi, le idre, i basilischi e tutta la fauna immaginaria che sopravvive a Teodora, dove il dominio della specie umana passa per lo sterminio di tutte le altre; la natura una e bina di Marozia, città del topo e della rondine. Ma fermiamoci qui. Sotto il sole giaguaro non si illumina più, e perduti per sempre sono un bel numero di saggi, articoli di giornale, canzoni, traduzioni, reportage. Più di tutti però ci mancherebbe Palomar, dove animali troviamo dappertutto – e sono volanti, striscianti, ruminanti, fischianti, migranti, scacazzanti, dormienti, interi, squartati, liberi, rinchiusi, fraterni, simbolici, allegri, depressi, succubi, pronubi. Insomma, l’esperimento mentale ha dato un risultato chiaro e inequivocabile: non è possibile immaginare Calvino senza animali. Calvino è uno scrittore zoologico.
Lo stesso esperimento, è vero, lo si può fare con le pietre, le piante, la muta materia (in lui così inarrestabilmente parlante), i paesaggi e le città. Se «la fantasia è un posto dove ci piove dentro», nella fantasia di Calvino ci piovono dentro queste e infinite altre cose: la sua opera è per definizione e propensione «fuori del self» (Calvino 1988, p. 697; p. 733). Però qui si tratta di animali, e i suoi hanno una caratteristica particolare. Calvino infatti non si limita a parlarne o a farceli vedere, ma ci invita a vedere come loro vedono: come loro vedono se stessi e come vedono noi. Il che spesso ci aiuta anche a riflettere sugli animali che siamo.
La sua avventura zoologica inizia presto. È il 1946 quando scrive alcuni articoli sull’Unità. “Le capre ci guardano” è il più noto: nell’estate del 1945 la Marina americana aveva deciso di fare test atomici al largo dell’Atollo di Bikini, e lui – giovanissimo ma al solito lucido e spiazzante – si chiede che cosa abbiano pensato le capre fatte saltare in aria sulle navi bersaglio, e aggiunge: «Come avranno giudicato noi uomini in quei momenti, nella loro logica che pure esiste, tanto più elementare, tanto più – stavo per dire – umana?» (Calvino 2001, vol. II, p. 2131). È già tutto qui l’umanesimo di Calvino: un umanesimo di lotta e non antropocentrico, dove l’antropomorfismo c’è, ma a ben guardare è una tattica di avvicinamento, una cerimonia di benvenuto in una terra comune, perché le differenze, in fondo, contano meno delle analogie. Lo dice soprattutto nel “Marxismo spiegato ai gatti”. È qui che viene fuori, dolcemente lapidaria, la sua filosofia: «Propendo – scrive – per una concezione dell’uomo come non staccato dal resto della natura» (Calvino 2001, vol. II, pp. 2133-2134). Sarà pure (e qui il suo darwinismo è imperfetto) un «animale più evoluto in mezzo ad altri animali» (Calvino 2001, vol. II, p. 2134), ma questo, ne deduce, ci obbliga a vedere una volta e per tutte quello che non vogliamo vedere. Per esempio, che gli animali che vivono con noi sono degli sfruttati. Però il cane e il gatto possono liberarsi e tornare a essere amici: basta riconoscere che il mito della loro “naturale” incompatibilità non è che un grande racconto volto a impedirne l’unione e l’emancipazione. Occorre un’educazione marxista anche per loro, sostiene: ed ecco qui il suo marxismo, più evoluto di quello di Marx.
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Ma avrebbe senso compilare un bestiario calviniano? Alla luce di quanto detto, la risposta è no. Un bestiario infatti presuppone un sistema di simboli, una morale, un metalinguaggio e una cosmologia. Nei bestiari gli unicorni simboleggiano la castità e i conigli fertilità e lussuria, i cani la fedeltà e i gatti l’inganno. In Calvino non è così. Anche gli animali che diciamo fantastici per lui sono presenze concrete, come a Teodora la «fauna dimenticata» nelle biblioteche, a contrastare l’estinzione con l’immaginazione. Ma in Calvino gli unicorni sono né più né meno che unicorni: animali altrettanto bizzarri di quelli che vivono fuori dai libri. Anche i conigli, lo abbiamo visto, sono conigli: piccole persone che ti guardano negli occhi, direbbe Anna Maria Ortese.
Natalia Ginzburg riporta una delle ultime frasi di Calvino. Colpito dall’ictus, la testa fasciata, in ospedale a Siena, la figlia Giovanna gli chiese: «Chi sono io?» – «Tu sei la tartaruga», rispose (Ginzburg 2001, p. 109). No, Antropocene o meno, non è possibile immaginare Calvino senza animali.
https://www.academia.edu/108337996/Italo_Calvino_e_altri_animali?email_work_card=view-paper
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