Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, XXXIV, 72-92
70Tutta la sfera varcano del fuoco,
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch'in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.
71
Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch'aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s'indi la terra e 'l mar ch'intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l'imagin lor poco alta si conduce.
72
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
73
Non stette il duca a ricercare il tutto;
che lá non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, lá si raguna.
74
Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.
75
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la piú parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giú perdesti mai,
lá su salendo ritrovar potrai.
76
Passando il paladin per quelle biche, biche = mucchi
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assirii e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci, che giá furo
incliti, et or n’è quasi il nome oscuro.
77
Ami d’oro e d’argento appresso vede
in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
et ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.
78
Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori.
V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
l’autoritá ch’ai suoi danno i signori.
I mantici ch’intorno han pieni i greppi, greppi = declivi
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.
79
Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sí mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l’opra: monetieri = falsari di monete
poi vide boccie rotte di piú sorti, boccie = ampolle
ch’era il servir de le misere corti.
80
Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
— L’elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. — qualcuno lascia l'elemosina perché sia fatta
Di varii fiori ad un gran monte passa,
ch’ebbe giá buono odore, or putia forte. putia = puzzava
Questo era il dono (se però dir lece)
che Constantino al buon Silvestro fece.
81
Vide gran copia di panie con visco, panie = trappole
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sará, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenzie nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giú, né se ne parte mai.
82
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli giá avea perduti, si converse; si converse = si concentrò sui suoi fatti e giorni
che se non era interprete con lui, era interprete = c'era una guida
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sí averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non fêrse; al punto che nessuno ne ha pregato presso Dio
io dico il senno: e n’era quivi un monte,
solo assai piú che l’altre cose conte.
83
Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual piú, qual men capace, atte a quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.
84
E cosí tutte l’altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto piú maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantitá n’era in quel loco.
85
Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, richezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
et altri in altro che piú d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.
86
Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch’uno error che fece poi, fu quello
ch’un’altra volta gli levò il cervello.
87
La piú capace e piena ampolla, ov’era
Il senno che solea far savio il conte,
Astolfo tolle; e non è sí leggiera,
come stimò, con l’altre essendo a monte.
Prima che ’l paladin da quella sfera
piena di luce alle piú basse smonte,
menato fu da l’apostolo santo
in un palagio ov’era un fiume a canto;
88
ch’ogni sua stanza avea piena di velli
di lin, di seta, di coton, di lana,
tinti in varii colori e brutti e belli.
Nel primo chiostro una femina cana una donna canuta
fila a un aspo traea da tutti quelli, traeva un filo da tutti quei batuffoli e lo avvolgeva ad un aspo
come veggián l’estate la villana
traer dai bachi le bagnate spoglie,
quando la nuova seta si raccoglie.
Stefano Jossa, Un poeta in lotta con la materia / Con Ariosto senza Calvino, Doppiozero, 7 gennaio 2007
Chi leggerà più di Rinaldo che chiede che quello che per gli uomini è
motivo di vanto, avere degli amanti, non sia per le donne motivo di
vergogna, di Ricciardetto che fa credere a Fiordispina di essere sua
sorella Bradamante improvvisamente trasformatasi in maschio, di Marfisa
che cambia le leggi ingiuste delle amazzoni nemiche degli uomini e del
tiranno Marganorre che faceva scorciare la gonna a tutte le donne del
suo regno, di Bradamante che vuol essere giudicata come cavaliere
anziché come donna alla rocca di Tristano e di San Giovanni che mette in
discussione la parola dei poeti fino a temere di aver messo in crisi
pure la propria? Dopo aver letto Calvino e Celati, Ariosto non può
essere questo: sarà fughe e inseguimenti, degustazione del racconto e
trionfo della levità, impegno dell’intelligenza e risolino beffardo.
Leggere gli scrittori che fanno i critici è bello, per capire loro e la
loro scrittura; ma per capire gli autori di cui si occupano è sempre
meglio andare a leggere questi ultimi. A volte ci sorprenderanno.
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