domenica 11 agosto 2024

O tosco che per la città del foco

 

 


 O tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
 La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la quale fui forse troppo molesto.
                       Dante, Inferno, X, 22-27

A parlare è Farinata degli Uberti che si rivolge a Dante. 
 

Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi

O tosco...: possiamo chiosare questo grande verso con la didascalia che Dante stesso farà seguire: Subitamente questo suono uscìo / d'una delle arche. Proprio perché la spiegazione è posposta, l'uscita di questa voce è improvvisa e subitanea (Subitamente) e risuona tra i sepolcri con incredibile autorità. L'apostrofe, che ad ogni parola esprime un profondo e complesso ambito di pensieri e sentimenti (Tosco - città del foco - vivo...) è forse la più+ straordinaria di tutto il poema, esempio eminente deell'intensità e sinteticità di cui è capace il verso dantesco.
- Tosco: cioè toscano, della mia stessa patria; questa parola porta con sé tutto il mondo di Farinata, concentrato appunto in quella patria.
- per la città del foco: qui nell'Inferno, nella città di Dite, nel luogo del tormento eterno; e il pensiero non può non correre dall'una all'altra città.
- vivo: con valore e posizione predicativa: ancor vivo, e quindi ancora legato a quel mondo. Tu solo vivo tra noi morti per sempre. La parola, come Tosco, non sta a caso nella prima sede del verso. 
- ten vai: così libero e padrone di te stesso nell'andare.
- Onesto: in modo onorevole e cortese ("honorabiliter et ornate": Benvenuto). Dimostri quindi un animo elevato e capace di nobili sentimenti (e per questo potrai ascoltarmi). Onesto, come onestà, ritiene ancora in Dante del valore latino derivato da honor

Commento di Natalino Sapegno 

O Tosco: una voce si leva d'un tratto a interrompere il dialogo fra Dante e Virgilio, e si rivolge a Dante solo. Tosco, per toscano, è la forma normale nel poema (cfr. Inf., XXII, 99; XXIII, 76, 91; XXVIII, 108; XXXII, 66, ecc.). – città del foco: Dite (cfr. Inf., VIII, 73; XI, 73); e, piú particolarmente, la necropoli degli eretici, con le sue tombe ardenti. 

Commento di Nicola Fosca

 All'improvviso (v. 28), una voce interrompe il dialogo fra i due poeti; essa è autorevole, ma cerca di adeguarsi (piacciati: cfr. le parole di B. Latini in Inf. XV.31) al tono cortese (onesto, termine-chiave della poesia cortese e stilnovistica) del dialogo; tuttavia, è rivolta solo a Dante, che non solo è vivo (il che meraviglia tutte le anime), ma soprattutto è tosco (forma usuale per “toscano”), cioè fiorentino, come ha rivelato il suo modo di parlare (la sua loquela: cfr. Mt. 26.73). Anche il conte Ugolino noterà la favella fiorentina del pellegrino (Inf. XXXIII.11-12). Così il dannato giacente nella tomba, Farinata degli Uberti, evidenzia subito il suo interesse basilare: la città natia, nobil patria, alla quale dice di essere stato forse dannoso (molesto). Farinata fu capo dei Ghibellini fin dal 1239; contribuì alla cacciata dei Guelfi nel 1248 e poi, ritornati questi, fu bandito nel 1258. Riorganizzate le forze ghibelline, fu uno degli artefici della disfatta guelfa a Montaperti (1260) e governò Firenze fino alla morte (1264). Nel 1266 la parte ghibellina fu cacciata da Firenze, per poi esser definitivamente bandita nel 1267; in quanto ghibellino, fu accusato di eresia e condannato vent'anni dopo la morte (cfr. n. 13-15). Si noti che qui Farinata ammette di aver fatto del male alla propria città (molesto ha un senso molto più forte dell'attuale: cfr. Inf. XIII.108), accettando il giudizio della parte avversa: forse, però. In effetti, non è possibile pensare, all'Inferno, al pentimento (un pentimento effettivo e non “accidentale”: cfr. Inf. XI, n. 40-45); ed infatti, più avanti, egli ammetterà a chiare lettere che ciò che più lo tormenta è la sorte del suo partito, non rinnegando affatto la sua passione preponderante, quella politica (faziosa), che in vita lo coinvolse interamente.

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