Claudio Vercelli, Paul Ginsborg, tra analisi scientifica e intervento civile, il manifesto, 12 maggio 2022
Con la silenziosa eleganza che ne ha
contraddistinto l’intera esistenza se ne è andato, dopo una malattia
tanto insidiosa quanto repentina nei suoi esiti fatali, Paul Ginsborg.
La sua traiettoria intellettuale si è articolata tra il Regno Unito e
l’Italia, le sue due patrie, la prima di origine, l’altra di
appartenenza.
Nato a Londra nel luglio del 1945, quando il paese stava uscendo da
una guerra pressoché totale, aveva studiato al prestigioso Queens’
College di Cambridge, proseguendo successivamente come Fellow al
Churchill College. Il suo insegnamento è sempre stato sospeso tra la
passione per la storia moderna e contemporanea e l’afflato sociologico.
A PARTIRE dagli anni Ottanta si era trasferito in
Italia, dove aveva svolto attività di docenza a Siena, Torino e poi a
Firenze. Nell’ateneo di quest’ultima città aveva quindi insegnato storia
dell’Europa contemporanea dal 1992 fino al pensionamento, avvenuto nel
2015. L’attenzione per le dinamiche continentali e per quelle italiane
hanno costituito il fuoco del suo lavoro. Così come l’identificazione
con il nostro Paese, del quale era diventato cittadino nel 2010. Le sue
opere «italiane» risalgono al 1978, con uno studio su Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49.
Tuttavia, i testi più importanti sono quelli che l’hanno reso noto al
di là del tradizionale pubblico accademico. Si tratta di una serie di
volumi, itineranti tra il rigore dell’analisi scientifica e l’urgenza
dell’intervento civile, con i quali ha cercato di mettere a fuoco i
caratteri più recenti della società italiana. In particolare i lavori
pubblicati da Einaudi, a partire dalla Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, uscito nel 1989 e più volte ristampato nonché aggiornato, passando per L’Italia del tempo presente
e la curatela dell’Annale einaudiano dedicato al Risorgimento. Insieme,
infine, all’ultima opera di maggiore impatto analitico, Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950.
A QUESTE OPERE, di maggiore densità analitica, si
erano accompagnati e poi aggiunti i libri che ne qualificavano
l’intervento nell’attualità. Critico severo e implacabile di Berlusconi,
letto come un fenomeno di dissoluzione dei quadri repubblicani e
costituzionalistici (ad esempio con il suo Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica oppure nel lavoro collettaneo, coordinato con Enrica Asquer, sul Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere), si era ripetutamente dedicato alla riflessione sul rapporto tra istituzioni, società e cultura civile.
Il timbro britannico, e con esso la necessità di mantenere un profilo
che non fosse totalmente travolto dalle passioni politiche, nei fatti
si era notevolmente stemperato con l’adesione alla stagione dei
movimenti, quella che a partire dalla dissoluzione dei partiti della
Prima repubblica, dall’emergere del populismo e dal ritorno di politiche
di impronta patrimonialista e autocratica, rivendicava l’impossibilità
di rispettare il distacco tra impianto teoretico e impegno civile.
A tale riguardo, Ginsborg coglieva lo smarrimento di quel composito
aggregato sociale che anch’egli era andato definendo come «ceto medio
riflessivo», dinanzi alle fratture e alle lacerazioni prodotte dalla
transizione da un’organizzazione industriale a società dove
l’immaterialità era un campo di costruzione non solo di egemonie ma
anche di domini.
LA SUA INTERPRETAZIONE della lunga età di
Berlusconi, dal 1994 fino agli anni più recenti, si inserisce infatti
dentro una tale cornice, nella quale ritornano anche gli echi, emendati
tuttavia dell’ideologismo originario, di una riflessione a tutto campo
sulle fragilità civili del nostro Paese. Lo studioso era infatti molto
attento, posta la sua sensibilità sociologica, ad evitare le trappole di
un discorso declinato meramente sul piano dell’antropologia negativa,
dove invece prevalgono le caratterizzazioni stereotipate sui presunti
«caratteri» nazionali.
È difficile iniziare a parlare da subito di un’eredità di Paul
Ginsborg qualora il suo magistero intellettuale, e la sua attività
politica, non vengano messe in relazione con l’affermarsi, nello stesso
arco di tempo, delle suggestive ma inconsistenti ipotesi di una «terza
via», quella propugnata da Anthony Giddens e fatta propria da Tony
Blair. Nel mentre quest’ultima attraversava una buona parte di ciò che
era rimasto dei partiti socialisti e della sinistra europea, di fatto
svuotandone completamente la residua identità, Paul Ginsborg si stava
scoprendo animatore intellettuale dei gruppi dei girotondini, divenendo
poi uno dei fondatori di Libertà e Giustizia.
L’intero suo lavoro culturale ci restituisce una serie di intensi
fotogrammi su un lunghissimo tempo, quello della transizione e
dell’impotenza, avviatosi già con la fine degli anni Settanta e per
nulla conclusosi nel nostro Paese.
https://www.repubblica.it/cultura/2022/05/11/news/morto_paul_ginsborg_ritratto_personaggio_storico_militante_innamorato_dellitalia-349112896/
Simonetta Fiori, Paul Ginsborg, uno storico militante, la Repubblica, 11 maggio 2022
Il professore inglese che cambiò la storia d'Italia. A Paul Ginsborg,
morto ieri all'età di 76 anni, venne subito riconosciuta la patente di
inventore di un nuovo genere storiografico. Aveva una qualità allora
rara tra gli storici italiani. Sapeva raccontare. E, a differenza di
altri studiosi anglosassoni, evitava di inarcare il sopracciglio verso
gli eterni vizi del carattere nazionale. Figura esile, temperamento mite
(nell'accezione bobbiana dei forti), inconfondibile accento british,
perfino nella fisicità leggera restituiva una sua eccentricità rispetto
al ceto accademico consapevole.
Nato a Londra il 18 luglio del 1945, del nostro paese s'era
innamorato da giovane, fin dai tempi della tesi di dottorato sul
patriota Manin. E dopo un lungo insegnamento a Cambridge, a Firenze ha
scelto di trascorrere gli ultimi trent'anni della sua vita, intrecciando
il mestiere dello storico con l'impegno civile. I girotondi, il
movimento in difesa della legalità che nel 2002 contribuì a fondare
contro gli abusi di Silvio Berlusconi, hanno rappresentato l'esito
naturale di un'idea del paese maturata nel corso dei suoi studi. Come se
dopo tanta ricerca intellettuale, occorresse rimboccarsi le maniche per
raddrizzare il legno storto, al fianco di "quel ceto medio riflessivo" -
espressione di suo conio - nel quale era depositato tutto il potenziale
civico dell'Italia migliore.
Pur senza rivendicare blasoni e medaglie, Ginsborg è stato un innovatore. Prima della sua Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988,
uscita da Einaudi sul finire degli anni Ottanta, nessuno studioso aveva
raccontato il nostro paese oltre la dimensione politica e
istituzionale, allungando la lente sul costume e sulla società, sui
consumi degli italiani, sul loro rapporto con il cinema e la tv. Anche
le sue fonti erano diverse da quelle tradizionali, spaziando dalle
testimonianze orali alle indagini sociologiche e ai rapporti delle
commissioni parlamentari. In un panorama ondeggiante tra l'accademia e
l'ideologia, Ginsborg rompeva anche con una narrazione ancora
condizionata dalle famiglie comunista e cattolica, per adottare uno
sguardo libero, nel solco tracciato dagli azionisti Vittorio Foa e
Alessandro Galante Garrone, i "suoi maggiori". Lui si definiva un figlio
del Sessantotto, del quale fino alla fine ha rivendicato
"l'insofferenza a qualsiasi forma di potere e strapotere", un
intellettuale di sinistra che non ha mai finto di essere neutrale. Ma
proprio la consapevolezza delle proprie passioni lo induceva a lottare
contro la faziosità e il pregiudizio, dando voce il più possibile ai
documenti.
La pluralità di fonti e l'originalità dello sguardo non furono l'unica novità della sua Storia d'Italia che
per la prima volta trasferiva sul terreno storiografico il tema della
famiglia, un grande attore politico fino a quel momento recluso entro i
confini dell'antropologia e della sociologia. E al permanere di forti
legami parentali lo studioso attribuiva lo scarso senso dello Stato
nutrito dagli italiani, la debole etica pubblica, in una
contrapposizione costante tra valori individuali e valori nazionali.
Quello del familismo e più in generale della centralità della famiglia
nella società è un filone che attraversa la ricerca di Ginsborg nei suoi
innumerevoli saggi, fino al fondamentale affresco sul Novecento europeo
che vede qualsiasi utopia anarchica, progetto sovversivo o ideologia
rivoluzionaria arrestarsi sulla soglia di casa. Di fronte alla famiglia -
è la sua tesi ampiamente documentata - dovettero fermarsi perfino i
totalitarismi rosso e nero, incapaci di scioglierla in un ordine sociale
superiore (Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950, Einaudi).
Familismo, in Italia, può fare rima con clientelismo e trasformismo.
Allo storico del "tengo famiglia" doveva capitare in sorte di essere il
primo autore d'un saggio storico sul nascente evo berlusconiano. Uscito
nel maggio del 1994, su incarico del Saggiatore, Stato dell'Italia era
la radiografia di un paziente bizzarro, che sogna la rivoluzione e vota
a destra, che pare mosso da una spinta morale per poi regredire
all'egoistico interesse materiale, che si nutre di antifascismo sul
piano esistenziale per poi mandare al governo il partito dei
postfascisti. La nuova destra gli pareva ereditare i vecchi vizi del
sistema italiano. E il tempo non gli avrebbe fatto cambiare idea. Alla
natura patrimoniale del sistema berlusconiano dedica un importante
saggio nel 2011, al termine del cosiddetto ventennio azzurro (Berlusconismo,
con Enrica Asquer, Laterza): Ginsborg vi rintracciava un'inedita forma
di dispotismo populista che cambiava forma e sostanza dello Stato di
diritto, attraverso il controllo dei media e l'estensione delle
proprietà private di Berlusconi nella sfera pubblica. Ma nonostante
l'individualismo sfrenato diffuso nel paese, lo studioso non rinuncia ad
aver fiducia nel "ceto riflessivo", nel ceto medio pensante a cui
attribuisce il patrimonio delle virtù civili, smarrito da una sinistra
politica esangue. Nel 2002, insieme a Pancho Pardi, guida "la marcia dei
professori" a Firenze, all'interno del più vasto movimento dei
girotondi, nato contro le ingerenze del potere esecutivo contro quello
giudiziario. È l'anno delle piazze animate da Nanni Moretti, Nando Dalla
Chiesa, Paolo Sylos Labini. Sette anni più tardi scende in campo il
cosiddetto "popolo viola", sorto per autoconvocazione su Facebook contro
le "leggi canaglia" del premier: anche stavolta Ginsborg non mancherà
di dare il suo sostegno.
La sua elaborazione intellettuale s'accompagna sempre più a una militanza civile febbrile. Presente sulle pagine di Repubblica e di Passato e presente,
la rivista degli storici di sinistra, lo studioso è molto attivo nelle
sedi di Libertà e Giustizia, l'associazione fondata da Gustavo
Zagrebelsky e Sandra Bonsanti di cui tre anni fa è divenuto presidente.
La politica non lo distrae dagli studi storici, a cui continua a dare
apporti innovativi. Il suo volume sul Risorgimento, curato insieme ad Alberto Mario Banti per la Storia d'Italia di
Einaudi, ancora una volta valorizza mentalità, emozioni, immaginari
rispetto alla storia istituzionale. Una cesura netta rispetto alla
tradizione storiografica.
Ma nella stagione dell'impegno, da storico avvertito, Ginsborg è
capace innanzitutto di storicizzare sé stesso. Non è un caso che uno
degli ultimi saggi einaudiani sia dedicato alla passione, divenuto il
nuovo lemma del suo personalissimo lessico politico. Compassione,
inclusione, amore. Quanto più prestiamo attenzione alla passione, tanto
più potremo reimparare a essere democratici, a cominciare da quel luogo
privilegiato di sentimenti e affetti che è la famiglia. Questo, in
fondo, il lascito del professore di Cambridge che ha osservato gli
italiani come nessuno aveva mai fatto prima.