Roberto Esposito,
La filosofia del non so che Jankélévitch esploratore del pensiero quotidiano, la Repubblica, 10 febbraio 2012
In una stagione, come questa, caratterizzata dalla assoluta incertezza
delle prospettivee quasi da un'inafferrabilità di ciò che sta al fondo
dell' esperienza quotidiana, il pensiero di Vladimir Jankélévitch,
espressamente rivolto alle figure del non-so-che e dell' incompiuto
torna ad interpellarci. "Un lampo... poi la notte! - O fuggitiva
beltà,/ per il cui sguardo all' improvviso sono rinato,/ non potrò
vederti che nell' eternità?/ In un altro luogo, ben lontano di qui, e
troppo tardi, mai forse!/ Perché ignoro dove fuggi, e tu non sai dove
io vado". E' difficile trovare qualcosa che, più di questi versi di
Baudelaire, dedicati
A una passante (in
I Fiori del male), restituisca
l' ispirazione e la tonalità di fondo del filosofo, di cui, a pochi
mesi di distanza da
Il non-so-che e il quasi-niente, esce adesso,
sempre da Einaudi, e ancora a cura e con una intensa introduzione di
Enrica Lisciani Petrini,
Da qualche parte nell' incompiuto.
Nelle
pagine iniziali del libro- costituito da una lunga intervista fattagli
dall' allieva e scrittrice Béatrice Berlowitz - , il filosofo descrive
l' Occasione come un lampo fuggitivo, una traccia inafferrabile, una
stella cadente che scompare nel momento stesso in cui si accende. In
essa la novità irrompe, improvvisa, nel teatro del mondo, per poi
esplodere in mille frammenti. Per afferrarla prima che si dissolva,
bisogna attendere l' attimo propizio, anticipandola nei suoi movimenti
repentini come il cacciatore con una velocissima preda. E' perciò che
all' Occasione ci si avvicina sulla punta dell' anima - afferma
Giovanni della Croce -, sapendo che difficilmente tornerà a battere una
seconda volta alla nostra porta. E tuttavia non si deve scambiare
quest' attenzione all' aspetto instabile delle cose, al rincorrersi
abbagliante e caduco delle apparenze, con una sorta di relativismo
etico.
L' intera vita di Jankélévitch sta a dimostrare il contrario.
Iscritto nel 1940 al Front populaire, quando vengono promulgate le
leggi razziali in Francia il filosofo ebreo-francese di origine russa
entra in clandestinità per battersi nella Resistenza. Dopo la guerra
il suo impegno, sempre nella sinistra, non viene mai meno, per trovare
nel Sessantotto una nuova occasione di militanza, fino alla battaglia
in difesa dell' insegnamento della filosofia nei Licei.
E allora? Come
conciliare l' eleganza impalpabile, la seduzione dello charme, la
leggerezza di una scrittura aderente fino alle più intime fibre al
carattere chiaroscurale dell' esistenza, con la dura intransigenza
etica delle sue scelte e anche con un testardo rigore filosofico? La
curatrice italiana del libro lo spiega richiamandosi al plafond
bergsoniano di Jankélévitch: considerando, come fa appunto Bergson, l'
intera realtà un flusso temporale in continuo mutamento, egli esclude
che si possa accedere all' essenza ultima delle cose, che resta così
imperscrutabile ed ineffabile. Ma proprio per questo, all' interno
dell' unico mondo in cui si snoda la nostra vita abbiamo piena libertà
di comportamento e dunque tutta la responsabilità delle nostre azioni.
Naturalmente, essendo la realtà stessa costituita da un tessuto
mobile, sfrangiato e plurale, anche il nostro atteggiamento non potrà
essere definito da un rigido schema normativo, dovrà tenere conto di
situazioni diverse, aderendo alle infinite pieghe della vita come di
volta in volta ci si presenta. Da qui non solo il rifiuto di ogni
imperativo categorico di matrice kantiana, ma anche la dichiarata
sintonia con un sociologo del quotidiano come Simmel - su cui si veda
la recentissima monografia di Antonio De Simone,
Conflitto e società
(Liguori). Ciò che li unisce è una medesima sensibilità per i fenomeni
più ordinari, pulviscolari, dell' esistenza - il tutto-il-giorno di
tutti i giorni, come egli stesso si esprime. Al suo fondo vi è il
rifiuto di ogni pretesa di conoscere l' intero significato di ciò che
si sta facendo, della vita effettiva colta nel suo semplice farsi.
Se
si chiede all' acrobata come fa a mantenersi sulla punta della guglia
di Notre-Dame, egli perderà l' equilibrio e si schiaccerà al suolo,
come la farfalla che, avvicinatasi troppo al fuoco, rischia di
diventare un pizzico di ceneri. Ciò non vuol dire, per Jankélévitch,
chiudersi nel recinto dell' assoluta immanenza - come accade, invece, a
Deleuze lungo l' altra filiera che si origina da Bergson. Non a caso
resta forte in lui il richiamo alla mistica ebraica, spagnola ed anche
russa. Lo stesso tema del "non-so-che" è, del resto, riconducibile a
quell' Angelus Silesius che in uno dei suoi primi distici del
Pellegrino cherubico, scrive "Ciò che sono non lo so ancora, ciò che
so, non lo sono più". Il punto da cogliere, per penetrare nel nucleo
più intimo del discorso di Jankélévitch, in una forma che lo accosta ad
autori altrettanto eterodossi come Georges Bataille e Michel Leiris, è
che la sfera del mistico,o del sacro, non trascende il piano del
quotidiano, ma fa tutt' uno con esso (si veda, di Leiris, lo
straordinario testo
Il sacro nella vita quotidiana, ora in
Il collegio
di sociologia, Bollati Boringhieri 1991). E' così che tutte quelle che
possono sembrare delle aporie non sono altro che la paradossale
convergenza dei contrari sottesa all' intera riflessione di
Jankélévitch. Essi, tutt' altro che escludersi, o ricomporsi in una
sintesi dialettica, si coappartengono, fino a costituire l' uno il cuore
segreto dell' altro. Così accade, nella sfera dell' etica, per il
rapporto, apparentemente antinomico, tra l'
esperienza del perdono e l'
irredimibilità della colpa.
Una volta fatto, il male non si cancella:
nulla può portare in vita l' esistenza violata o distrutta, come quella
del popolo ebraico nel genocidio. Da questo punto di vista il crimine è
in sé imperdonabile. Ma proprio ciò che è in sé imperdonabile sfida
il perdono a toccare il suo margine più estremo, come un amore non
ricambiato è, più di ogni altro, il "puro amore" - atto di dedizione
assoluta, senza condizioni o ricompense. E' la stessa relazione
contraddittoria che lega in un unico nodo musica e silenzio. Non
soltanto la musica è circondata, scandita, inaugurata dal silenzio. Nel
suo fondo inascoltato, è silenzio essa stessa. La musica vive del
silenzio, come nei pianissimo di Albéniz, nei passaggi tonali di
Debussy, nelle battute mute di Liszt. In queste pagine su musica e
silenzio, musicali anche esse, Jankélévitch dà il meglio di se stesso.
Il silenzio è origine, materia e fine della musica. Un respiro tacito
che la penetra e l' avvolge spingendola oltre se stessa verso quell'
ineffabile che esprime il mistero stesso della vita. E che altro è, la
vita, per venire all' ultimo contrasto, se non insieme il contrario e
il luogo elettivo della morte. Più che ciò che resiste alla morte,
come ancora sosteneva il grande medico Bichat, la vita è ciò che
resiste a qualcosa che è essa stessa. Essa è la prima contraddizione da
cui tutte le altre provengono. Perciò l' immagine minacciosa dello
scheletro con la falce è insieme errata e giusta. La morte non è un
drago che aggredisca la vita dall' esterno, ma una forza della vita
che, senza dirci come, dove e quando, nasce al suo interno fino ad
inghiottirla nel suo vuoto di senso.
http://machiave.blogspot.it/2013/03/la-verita-la-grazia-il-silenzio.html