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Giuseppe Galasso, Il paradiso borbonico? E' solo un'invenzione nostalgica, Corriere del Mezzogiorno, 13 luglio 2017
Che il largo moto di rivalutazione e di fantasiosa nostalgia del Mezzogiorno borbonico portasse a riflessi politici era nella logica di questi fenomeni, ripetuta e verificata in tanti casi in Italia e fuori d’Italia. Per il Mezzogiorno, ciò appariva, anzi, più facile data la rapidissima diffusione di quella rivalutazione e nostalgia, per cui alcuni vi hanno trovato il fortunato appiglio per libri e scritture di scarsissimo o nessun peso storico e culturale, e tuttavia portati dall’onda della moda in materia a tirature e vendite da capogiro. Le clamorose fortune di questa pseudo-letteratura storica, se hanno potenziato il moto di opinione da cui essa è nata, hanno fatto torto, peraltro, alle, invero poche, opere che sulle stesse note di rivalutazione e nostalgia hanno dato (da Zitara a Di Fiore) contributi discutibili o poco accettabili, ma sono state scritte con ben altro scrupolo e serietà. Questa è, però, una legge comune dell’economia, che non risparmia nessun altro campo. Ovunque la moneta cattiva espelle la moneta buona.
Il risultato è che oggi il primo che
incontriate per istrada o altrove può farvi dotte lezioni sui cento e
cento primati del Regno delle Due Sicilie, sulla rapina delle ricchezze
meridionali dopo il 1860. E ancora sul felice stato e sulla lieta vita
del Mezzogiorno prima del 1860, sulla deliberata politica di dipendenza
coloniale e sfruttamento in cui l’Italia unita tuttora mantiene il
Mezzogiorno, e su altre simili presunte «verità», lontane dalla «storia
ufficiale».Tutto ciò farebbe pensare a quella quindicina e più di
generazioni di meridionali susseguitesi dal 1860 in poi come segregate
dalla vita civile e istituzionale dello Stato e della società italiana.
Si sa, però, che non è così. Si sa che l’integrazione dei meridionali
nell’Italia unita, come per gli altri italiani, è stata profonda,
rompendo un isolamento storico che, nel caso di varie parti del
Mezzogiorno, durava da secoli. Mezza diplomazia italiana è stata fatta
di meridionali. I due migliori capi di Stato Maggiore dell’Esercito –
Pollio e Diaz – erano napoletani. Già da dopo la prima guerra mondiale
la burocrazia italiana ha cominciato a essere fatta per lo più di
meridionali. Quattro presidenti della Repubblica su 12 (De Nicola,
Leone, Napolitano, Mattarella), vari capi di governo (da Crispi a
D’Alema), innumerevoli ministri, vari e potenti capi di partito sono
stati meridionali. Sulle cattedre universitarie e nell’insegnamento la
parte dei meridionali si è fatta sempre più ampia.
Si potrebbe continuare, ma conta ben più
ricordare che proprio il Mezzogiorno è stato il teatro di maggiore
fortuna del nazionalismo italiano: un nazionalismo tanto forte che il
partito delle «camicie azzurre» rimase per un bel po’ in piedi accanto
al partito fascista prima di confluire in esso; e anche del fascismo
rimase a lungo nel Mezzogiorno la traccia. Conta ricordare che il
Mezzogiorno è stato la parte d’Italia con maggiore evidenza più legata alla causa monarchica e alla Casa di Savoia
anche quando era ormai esclusa ogni possibilità di ritorno monarchico
(e non si dica che i meridionali volevano difendere solo l’istituzione
monarchica, perché non è vero: l’attaccamento ai Savoia fu manifestato a
lungo in modo indubitabile).
Su questo metro, però, non si finirebbe più, e non serve neppure. Il corso delle
cose sistema spesso questioni come questa senza quasi darlo a vedere.
Ricordate le fiere proclamazioni secessionistiche della Lega Nord? Ora
essa parla e si atteggia da forza nazionale, anche se nei confusi
termini delle pasticciate velleità da «líder máximo»
di Salvini. Il corso delle cose agirà anche sul piano culturale. Come
sono passati il nazionalismo delle camicie azzurre e il fascismo,
appoggiati dai maggiori e minori nomi della cultura italiana di un
secolo fa, e culturalmente ben più forti e provveduti, così passerà
anche l’onda della rivendicazione borbonica.
La quale onda rivela, intanto, sempre più
la sua macroscopica e inattesa incapacità di dar luogo a un qualsiasi
serio movimento politico di qualche, sia pur minima, consistenza. E già
questo dice quanto sia debole la sua spinta culturale, benché agiti temi
tra i più orecchiabili e utilizzabili in chiave demagogica e tra i più
ascoltati e utilizzati a sostegno dei movimenti di tipo «leghista» in
Italia e altrove («conquista piemontese» e sue violenze, rapina e
sfruttamento dello Stato unitario a danno del Sud, e così via). Da
ultimo, poi, si è aggiunto il tema della «nazione napoletana», senza,
peraltro, mostrare una sufficiente informazione sulla sua antica e
complessa storia, e come se fosse una postuma scoperta di oggi, mentre è
il tema di tutta la maggiore e migliore storiografia meridionale, da
Angelo di Costanzo nel ‘500 a Giannone nel ‘700, e poi a Cuoco e a
Croce, nonché ai continuatori della stessa tradizione.
Tutto a posto, dunque? Tutto si spiega e si
vanifica? Evidentemente no. Se nel breve giro di un paio di decenni si
diffonde a tal punto una certa moda culturale, sia pure senza capacità
di riflessi politici, allora vuol dire che qualcosa non va sotto il
nostro cielo. Vuol dire che ci dev’essere un perché più profondo
dell’atteggiamento di moda. Le risposte possono essere molte: la
sprezzante sfida nordista della Lega, che non poteva non provocare una
reazione meridionale; o la progressiva scomparsa del Mezzogiorno dalla
più immediata e importante agenda politica italiana; o la conseguente
sensazione di un’estrema, definitiva difficoltà a trovare nello Stato
italiano, come si era sperato soprattutto dal 1945 al 1990, un modo di
compensare e superare le gravi negatività della politica italiana verso
il Mezzogiorno dopo il 1860, da subito denunciate dal pensiero
meridionalistico; o, ancora, le difficoltà dovute alla non ancora
superata crisi di questo Stato, che sul Mezzogiorno per forza di cose si
sono ripercosse in peggiore maniera e misura.
La ragione eminente pare, però, sempre più
la crisi dello Stato e dell’idea nazionale, in corso dalla metà del ‘900
in tutta Europa, che l’Unione Europea non ha saputo finora superare e
compensare in un nuovo quadro etico e politico di uguale forza ideale.
Si è verificato così il paradosso di una realtà europea in cui la forza
di un persistente nazionalismo degli Stati e delle opinioni pubbliche
europee si accompagna a una crisi sempre più diffusa, politica e ideale,
dello Stato e dei valori nazionali, che in alcuni paesi (Spagna, Gran
Bretagna, Belgio, Italia) è particolarmente forte.
È su questo fronte che appare preoccupante il problema posto
dall’antitalianismo borbonizzante. Sul piano culturale lo si può
ritenere ben poco vitale e, comunque, destinato a essere superato (e
anche omologato in quel
tanto di fondato che può essere in esso). Sul piano politico, invece,
alla sua incapacità di alimentare un filone politico specifico e
consistente, corrisponde la sua forza erosiva e corrosiva dell’idea nazionale italiana, della quale il Mezzogiorno ha tanto partecipato e della quale, nonostante
le apparenze, tuttora profondamente partecipa. E da ciò derivano un
danno sicuro all’organismo nazionale italiano e un suo indebolimento in
Europa, senza che si riesca in alcun modo a vedere che cosa ne venga di buono al Mezzogiorno.
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