Anna Zafesova
Quelle minoranze protette da Mosca
Il collasso dell’Urss ha
lasciato un mosaico di Stati con molte etnie e confini improvvisati Putin
vuole riunire il “grande popolo russo”. Baltici e moldavi temono di
finire nel mirino
La Stampa, 2 settembre 2014
Vladimir Putin avanza a Ovest, ma intanto gli si apre un fronte alle
spalle: Nursultan Nazarbaev, il presidente del Kazakhstan, ha detto che
il suo Paese potrebbe anche uscire dalla Unione Euroasiatica che Mosca
ha cercato di mettere in piedi con tanta fatica per ricostituire sulle
ceneri dell’ex Urss una sorta di anti-Ue.
Il monito del primo e unico leader di Astana, al potere
ininterrottamente dal 1989, fa seguito alle incaute parole di Putin sul
fatto che ha «costruito uno Stato laddove non è mai esistito». Voleva
essere un complimento, ma visto il corso degli eventi in Ucraina
Nazarbaev, che mantiene buoni rapporti sia con gli Usa che con la Cina,
ha preferito rispondere con durezza. Anche perché i russi etnici sono
più di un quinto della popolazione, e il Nord del Paese – abitato
soprattutto da russi etnici, molti dei quali venuti a colonizzarlo due
secoli fa – è stato più volte rivendicato dai nazionalisti russi, a
cominciare da Solzhenitsyn.
È uno dei tanti punti vulnerabili in un’Est pieno di paure, dove il
collasso dell’impero «internazionalista» sovietico ha lasciato un
mosaico di etnie e Stati con identità e confini improvvisati. E da
quando Putin ha proclamato che i russi sono «il più grande popolo
diviso» e che la sua missione è proteggere il «mondo russo», la paura di
pretese e pretesti aumenta. Qualche mese fa Mosca ha varato una legge
che semplifica l’ottenimento della cittadinanza per tutti i sudditi ex
sovietici o dell’impero dei Romanov, una mossa funzionale alla creazione
di «quinte colonne» negli ex satelliti russi.
Il Baltico è il primo a temere la ripetizione di questo scenario
collaudato. In Lettonia e in Estonia i russi – per non aumentare la
confusione post-sovietica spesso si parla di «russofoni», in quanto
anche altre minoranze come gli ebrei usano il russo – sono un quarto, e
occupano posizioni rilevanti nell’economia. E molti di loro ricordano
senza troppo piacere le umiliazioni per ottenere il diritto di
cittadinanza. Anche se le nuove generazioni preferiscono godere dei
privilegi europei, la «quinta colonna» di filo-russi resta cospicua. E
l’appartenenza di alcuni territori di confine, come Narva, potrebbe
venire facilmente rimessa in discussione.
L’incubo che nessuno vuole rivivere si chiama Transnistria, enclave a
maggioranza russa ribellatasi alla Moldova già 25 anni fa e da allora
oscura nazione non riconosciuta che oggi manda i suoi uomini addestrati a
Mosca a Donetsk. Ad aprile, dopo l’annessione della Crimea, la
Transnistria ha chiesto di unirsi alla Russia, ma non ha mai ricevuto
risposta. Ma oggi, se si realizzassero i piani dei separatisti di
scavarsi un «corridoio» nel Sud-Est ucraino, potrebbe congiungersi con
la «Nuova Russia» che il Cremlino vorrebbe disegnare in quella regione.
Ma a preoccuparsi non sono solo gli ex satelliti di Mosca che oggi
guardano all’Europa, ma anche i fedelissimi come Alexandr Lukashenko.
L’«ultimo dittatore d’Europa» è stato molto cerchiobottista nella crisi
ucraina, e si è rifiutato di aderire all’embargo sui prodotti
occidentali imposto da Putin, meritandosi qualche giorno fa rimproveri
pubblici di «contrabbando» (a Mosca si segnalano già apparizioni di
«autentico parmigiano bielorusso» con etichette cambiate a Minsk). I
sudditi russi di Lukashenko sono l’8%, ma il russo è lingua ufficiale e
l’identità nazionale (come l’economia) è talmente fragile da poter
soccombere facilmente a eventuali pressioni di Mosca.
Le schegge del «mondo russo» meno a rischio di venire sfruttate come
«quinte colonne» sono anche quelle che più avrebbero voluto la
protezione di Mosca: i russi nell’Asia Centrale, costretti negli ultimi
20 anni a emigrare o a venire abbandonati sotto il giogo dei nuovi khan
post-comunisti. Ma è improbabile che Mosca guardi a Oriente, sia perché
il suo braccio di ferro è con l’Europa, sia perché gli emirati del gas e
del petrolio, dall’Uzbekistan alla Turkmenia, sentono ormai
«l’ombrello» della Cina più vicino di quello russo.
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