Massimo Recalcati
La stanchezza dell'Occidente
la Repubblica, 6 ottobre 2013
L’esaurimento è una reazione alle sirene dell’edonismo esasperato che
produce anche la precarietà sociale ed economica Il fenomeno nasce dal
“principio di prestazione”, che costringe la vita a essere “produttiva” e
l’individuo ad affermare se stesso. Recentemente il sociologo coreano
Byung-Chul Han ha proposto l’immagine della stanchezza come chiave
interpretativa della nostra epoca. Qualcosa si è esaurito, è scaduto, è
divenuto privo di forza. In contrasto solo apparente con questa
stanchezza di fondo il nostro tempo sembra sostenuto da una corrente
eccitatoria permanente. Come intendere questa oscillazione bipolare tra
frenesia e stanchezza? Tutti ci lamentiamo di come il tempo della nostra
vita sia incostante accelerazione. Rocco Ronchi per definire questa
tendenza ha evocato l’immagine della “mobilitazione generalizzata” con
la quale Ernst Jünger aveva definito il tempo caotico della prima guerra
mondiale. La nostra mobilitazione permanente non ha però come bussola
la difesa del suolo, dell’identità, dei confini. Noi non abitiamo
piuttosto il tempo della liquefazione di ogni identità, della
contaminazione, della globalizzazione, della relativizzazione di tutti i
confini?
Questo significa che l’attuale mobilitazione in cui tutti siamo
coinvolti non ha un obbiettivo fuori dalla riproduzione di se medesima.
Siamo tutti stanchi e al tempo stesso tutti mobilitati. Siamo bipolari,
costretti a servire un principio di prestazione inflessibile e
superegoico per poi riconoscerci esausti, sfiniti, senza più risorse.
Questo paradosso lo indicava già Heidegger nella sua diagnosi del
nichilismo occidentale: il nostro tempo è il tempo della riduzione del
mondo a pura risorsa da sfruttare illimitatamente. In questo senso la
nostra stanchezza rivela la verità dell’iperattivismo che non affligge
solo le vite dei bambini occidentali ma, ben più radicalmente, la vita
stessa dell’Occidente. La vita è esausta, spossata, afflitta da una
stanchezza reattiva alle sirene dell’iperedonismo che, non
dimentichiamolo, produce anche la precarietà sociale ed economica che è
il vero volto dell’Occidente sotto la maschera della sua giostra
maniacale. Marcuse aveva già messo in luce come il capitalismo avesse
trasfigurato il principio freudiano di realtà nel principio di
prestazione. Una nuova forma di alienazione si delineava: non solo
quella relativa allo sfruttamento della forza lavoro – secondo lo schema
marxista –, ma quella di una nuova forma di oppressione della vita
costretta ad essere necessariamente produttiva, liberata dai vincoli
oscurantisti della tradizione, ma asservita ad un nuovo padrone: la
necessità della affermazione ad ogni costo della propria individualità.
Ebbene, la stanchezza che ci affligge oggi non mostra forse il limite di
questo mito antropologico? Non mostra la corda del sogno narcisistico
di diventare padroni di noi stessi, di realizzare il nostro nome a
prescindere da quello dell’Altro?
Facciamo due soli esempi. Il primo è quello del disagio giovanile che
non si caratterizza più per il conflitto vitale tra le generazioni, ma
per uno spegnimento del sentimento della vita. Al centro non è più il
disagio tra la giovinezza che avanza le sue esigenze di trasformazione
del mondo e l’ordine granitico dell’esistente, ma il disagio di un vita
spenta, stanca, lontana dal desiderio. I sintomi attuali degli
adolescenti che si rivolgono allo psicoanalista (violenza, alcoolismo,
tossicomanie, dipendenza dall’oggetto tecnologico, anoressia, bulimia,
isolamento, ecc.) hanno questa radice in comune: non scaturiscono più
dalla dissonanza tra il desiderio e la realtà, ma da una specie di
affaticamento del desiderio stesso. La vita che dovrebbe sbocciare nel
tempo della sua primavera tende a contrarsi, a chiudersi su se stessa, a
ripiegarsi. Questo movimento regressivo contrasta solo apparentemente
con l’esaltazione maniacale di cui si nutre la nostra Civiltà poiché, in
realtà, è solo l’altra faccia di quella medaglia.
Il secondo esempio riguarda uno dei grandi simboli dell’Occidente; è la
stanchezza di Benedetto XVI che, sfinito, lascia il suo posto mostrando
il volto umano del rappresentante ideale e normativo di Dio in terra.
Cosa vi possiamo leggere? Non solo un dramma interno alla Chiesa
Cattolica e alla necessità di un suo profondo rinnovamento. Esso rivela
una stanchezza profonda nella vita di tutte le istituzioni che non
sembra più in grado di essere animata da passioni profonde. Il senso
religioso della vita e quello laico della polis sembrano entrambi
esauriti. Si pensi solo alla stanchezza che avvolge la politica come
tale. In questo tornante non è in gioco l’esperienza della perdita di
tutti i valori, lo spettro minaccioso del nulla, della morte di Dio come
accadde alle soglie del Novecento. Oggi quel grande smarrimento
ontologico lascia il posto al frastuono della vita spensierata, all’homo
felix dedito alla ricerca compulsiva della “sensazione”, prigioniera
della idolatria degli oggetti, integralmente esteticizzata. Al centro
non v’è più il nulla che minaccia l’essere, ma un troppo pieno che
ottunde, un eccesso di presenza, una mancanza della mancanza, come
direbbe Lacan.
Eppure questa ultima grande crisi economica mostra tutti i segni della
gravissima patologia che affligge l’Occidente. Siamo in un punto di
snodo: dobbiamo provare a leggere la stanchezza attuale dell’Occidente
non solo come l’effetto di una disillusione fondamentale delle false
promesse di felicità del capitalismo, ma anche come una domanda di un
altro mondo possibile. L’uomo dell’Occidente è un uomo stanco della vita
o di questa vita? Dovremmo provare a leggere in questa nostra
stanchezza non solo una caduta depressiva della vita, ma anche
l’esigenza di un’altra vita. Essa contiene già in sé una domanda latente
di pausa, di sconnessione dalla connessione perpetua a cui siamo
“obbligati”, contiene già una esigenza positiva di silenzio.
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