Federica Montevecchi
Intelligenza anti-tatticista
Il Sole 24 ore, 13 ottobre 2013
Vittorio Foa merita di restare nella memoria soprattutto per il suo modo di essere. Era un politico, nel senso virtuoso del termine, perché nelle sue azioni e parole traspariva un costume e insieme un necessario professionismo, costruito negli anni attraverso lo studio. Né moralismo, né tatticismo dunque, tantomeno improvvisazione, ma accettazione della sfida di essere esemplare, se per esempio intendiamo il comportamento che rende possibile un concreto incontro con gli altri, poiché dei molteplici punti di vista altrui si ha considerazione e curiosità. Va da sé che l'esemplarità è praticabile dove esista una soggettività sociale e dove la dimensione individuale riesca ad aprirsi a quella universale, rappresentata da ogni essere umano. È la grande questione che la politica da sempre sottintende, a partire dagli antichi Greci: si tratta di una sfida perché l'esemplarità comporta l'emancipazione dall'attenzione esclusiva a se stessi e al proprio particolare, vale a dire dalla spontaneità. In tal senso non si può prescindere dall'educazione, o meglio dalla formazione, che è naturalmente intellettuale e morale a un tempo e si pone l'obiettivo non di imporre
un pensiero, ma di spingere gli individui a pensare, in modo da
sviluppare uno sguardo ampio e lungimirante, capace di vedere oltre se
stessi e oltre il presente. Non a caso Foa, ancora negli ultimi anni
della sua vita, invitava chi è impegnato pubblicamente a leggere e
informarsi non per confermare visioni preconfezionate rispetto
all'esperienza, ma al fine di penetrare oltre l'immediato accadere,
senza erudizione o atteggiamenti propagandistici.
Tutto questo è coerente con la tradizione azionista alla quale Foa aderì
partecipando dapprima alle attività cospirative di Giustizia e Libertà,
il movimento antifascista privo di vincoli ideologici e disciplinari
fondato da Carlo e Nello Rosselli, poi al Partito d'azione. Dopo
l'arresto, avvenuto a Torino a causa della delazione dell'informatore
dell'Ovra Dino Segre, conosciuto nella storia politica e letteraria come
Pitigrilli, egli trascorse otto anni della sua giovinezza in carcere,
dal 1935 al 1943. Era stato, infatti, condannato dal Tribunale Speciale
fascista a quindici anni di reclusione poiché, dopo l'arresto di Leone
Ginzburg e Sion Segre, aveva accresciuto il suo impegno politico in
Giustizia e Libertà fino a diventarne figura di riferimento. Gli anni di
reclusione furono dedicati allo studio, condiviso in parte con
straordinari compagni di prigionia come Ernesto Rossi e Massimo Mila,
tanto che quando Foa uscì dal carcere, dopo la caduta di Mussolini, era
pronto per assumere un ruolo politico importante, prima nella
Resistenza, poi nell'Assemblea costituente.
La successiva storia repubblicana italiana non ha soddisfatto, per
diversi e discussi motivi, le aspettative che hanno accompagnato la
liberazione dal nazifascismo: il prefascismo e il fascismo non sono mai
diventati del tutto passato, tantomeno ha avuto possibilità di
concretizzarsi il progetto azionista di democrazia integrata, sulla base
del quale il governo dal basso avrebbe dovuto confrontarsi e
intrecciarsi con quello centrale, la democrazia diretta con quella
rappresentativa. Ciò nonostante Foa non ha mai smesso di interrogarsi
sul rapporto fra liberalismo e radicalismo indirizzando il suo impegno
soprattutto verso il sindacato, che divenne uno strumento della lotta
operaia e, in generale, il terreno dove esperienze autobiografiche
diverse si fondevano nella difesa e promozione dell'autonomia, intesa
come potere di decisione su stessi. Il sindacato era, infatti,
considerato un mezzo volto tanto alla tutela del lavoro e dei suoi
diritti, quanto alla proposta di ideali di trasformazione: è chiaro che
questa idea del sindacato come punto di raccordo fra ideale e reale era
vincolata alla capacità del sindacato stesso di farsi carico delle
trasformazioni del lavoro e di comprenderle, senza rinserrarsi nella
difesa esclusiva e corporativa del lavoro tradizionale, dunque in una
miopia politica e storica.
Nel modo di agire e di pensare di Foa convergevano l'intelligenza,
impegnata nel cogliere la realtà come processo in atto, e
l'immaginazione, intesa come strumento pratico, capacità di vedere le
possibilità di cambiamento. Al contrario, ai suoi occhi, la
contemplazione di modelli politici prestabiliti appariva segno di
pigrizia mentale, di un'inclinazione all'autoinganno che porta a
ingannare anche il prossimo e di un'esperienza politica come
contrapposizione ripetitiva, che fraintende il rapporto fra azione e
reazione e impedisce così la ricerca di un terreno diverso di confronto.
Essere realista significava per lui tanto sfruttare le fasi di
cambiamento, per cercare di mutare i rapporti di forza nella società,
quanto accettare la situazione impegnandosi per migliorarla: era un modo
per evitare di porre l'ideale «fuori dell'impegno quotidiano, il futuro
fuori del presente», come scrisse ne Il cavallo e la torre, la sua
autobiografia. Era anche un modo di contenere la pratica esclusiva del
tatticismo fine a se stesso, che isterilisce la capacità di pensare e di
agire: del resto che Foa abbia cercato di salvaguardare l'idea e la
pratica di una politica alta lo dimostrano diversi episodi della sua
esistenza, in particolare la scelta, nei difficili anni Settanta del
Novecento, di abbandonare per qualche tempo l'attività sindacale e
pubblica, dopo alcune esperienze fallimentari nella sinistra radicale,
per tornare a praticare la politica come educazione, cioè a studiare e
insegnare.
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