Emanuele Trevi
Goodbye Berlinguer. L’illusione della purezza
Con una scrittura felice Francesco Piccolo dà voce ai sentimenti privati e politici di un uomo di sinistra
Corriere della Sera, 28 ottobre 2013
si parla di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi)
Come tutti i desideri che si rispettino, e nonostante la sua ingannevole
umiltà, anche Il desiderio di essere come tutti (Einaudi) di Francesco
Piccolo è una proiezione di se stesso nell’impossibile, una tensione
destinata a non trovare mai il suo punto di approdo e una sfida
consapevole al principio di realtà. Se valutassimo questa aspirazione
secondo il metro del buon senso, tanto varrebbe desiderare di essere
migliori o più belli di tutti gli altri. Nel libro di Piccolo, poi, le
cose si complicano notevolmente perché il significato di quei «tutti»
non è per nulla generico, non se ne sta lì come un semplice bersaglio di
cartone sul quale prendere la mira. Al contrario, si potrebbe dire che
il vero argomento affrontato da Piccolo sia la ricerca di un significato
possibile a questa parola, «Tutti», che campeggia a caratteri cubitali
sulla prima pagina dell’«Unità», all’indomani degli immensi funerali di
Enrico Berlinguer, celebrati il 13 giugno del 1984.
Quel giorno, il
ventenne Piccolo se ne era rimasto a casa sua, a Caserta, chiuso nella
stanza dei genitori a guardare i funerali in tv, piangendo e sollevando
il pugno chiuso, seduto su una scomoda poltroncina, col timore
dell’arrivo imprevisto di un genitore o di un fratello. Nessuno, per sua
fortuna, violò la solitudine del momento e lo scrittore regala a noi
l’imbarazzante privilegio di sorprenderlo in quell’assurda posizione,
spiacevole ed enfatica al tempo stesso, dunque inevitabilmente comica.
Piccolo
è diventato nel corso del tempo un maestro di questi rapidi
autoritratti, che hanno il merito di rendere credibile il percorso di
conoscenza in corso. È vita ed è nello stesso tempo esercizio
intellettuale, senza che l’una ostacoli l’altro o viceversa, in una
specie di pirandellismo a oltranza, specializzato nel cavare
sorprendenti gocce di saggezza dal futile e dall’aleatorio. È un buon
metodo, capace di produrre frutti memorabili; ma un bravo scrittore non
si può accontentare di questo. Alle soglie dei cinquant’anni, Piccolo ha
deciso di allargare decisamente l’orizzonte.
Il desiderio di essere
come tutti è un’autobiografia politica o, meglio, la storia di un
individuo che percepisce se stesso come appartenente a una comunità.
Fatti di natura privata si intrecciano a un lunghissimo segmento della
storia civile dell’Italia, quarant’anni suddivisi in due parti, la prima
intitolata a Enrico Berlinguer, la seconda a Silvio Berlusconi. Come si
sarà intuito dalla scena dei funerali di Berlinguer seguiti in
televisione, il protagonista di questa storia è un ragazzo, poi un uomo
di sinistra.
Come tanti della sua età e delle sue idee, anche
Piccolo può affermare che la sorte, dal punto di vista politico, non gli
ha riservato nulla di bello, nemmeno una di quelle stagioni esaltanti
che ogni generazione aspira a vivere. Lui però, non scrive per lagnarsi.
La mancanza di una cosa è un oggetto altrettanto interessante della
cosa stessa. La cosa che manca, ed è sempre mancata, è una duratura
vittoria della sinistra, assieme a tutte le possibilità storiche che
questa avrebbe comportato.
Ma la sconfitta non è solo la mancanza di
vittoria: essa infatti è capace di produrre un intero modo di vedere il
mondo e in definitiva un modo di essere. Piccolo descrive un dramma
collettivo di proporzioni gigantesche, tale da suggerire anche al suo
stile perplesso e suadente certe inusuali punte di solennità o di
stizza. Ci racconta una lunga e spaventosa metamorfosi, psicologica
ancora prima che ideologica, che ha condotto la sinistra ad albergare in
sé un sentimento di «purezza» morale capace di erigere un muro fra sé e
l’avversario. E ci fa vedere come questa pretesa di superiorità, che
confonde l’etica e la politica come in un gioco delle tre carte, non può
che aver trasformato la sinistra in una grande forza conservatrice,
custode di valori nobili ma immutabili nel tempo, indiscutibili,
impermeabili al cambiamento.
Come tutti hanno potuto vedere con i
propri occhi e come Piccolo racconta magistralmente, questa catastrofe
intellettuale della superiorità ha trovato l’impulso finale con
l’avvento di Berlusconi. Noto con piacere che Piccolo non manca di
aggiungere alla lunga lista dei sintomi di questa specie di malattia
mentale collettiva anche il verbo «resistere», svuotato di ogni
credibilità da un uso davvero dissennato. Flannery O’Connor una volta ha
scritto che c’è gente che vive «in un mondo che Dio non ha mai creato».
Mi sembra una splendida definizione di questo carcere piranesiano della
purezza e della conservazione descritto da Piccolo. Che invece non ce
la fa a sentirsi superiore agli altri per un motivo del tutto opinabile e
personale, ma proprio per questo decisivo: lui, in questi vent’anni, ha
goduto di una vita felice. Nonostante il fatto che gli eventi della
politica producano in lui notevoli riflessi interiori e nonostante il
fatto che non ci sia giorno che non gli porti delle amarezze da quella
parte, non può tacere questa verità. Se avesse avuto una malattia grave,
se avesse perso una persona cara, se fosse finito nei guai con la
giustizia, la sua felicità sarebbe stata sicuramente diminuita o
estinta. Berlusconi invece non ce l’ha fatta.
Ne possiamo dedurre,
con la certezza di un corollario matematico, che questa sfera
d’esistenza rappresentata dalla lotta politica, che appassiona Piccolo
così come ci si può appassionare al calcio o all’arte contemporanea, non
possiede i requisiti necessari a determinare la soddisfazione,
l’interesse, lo spavento, l’erotismo che le esperienze davvero decisive
riescono a suscitare in noi. Per utilizzare la celebre distinzione di
Jacques Lacan, non si può negare alla politica un grado, seppur minimo,
di realtà, ma di sicuro essa non fa parte del «reale», inteso come ciò
che ogni singolo individuo sperimenta come «insostenibile», sia nel
dolore sia nella gioia. La più profonda verità morale che si possa
cavare dagli ultimi venti anni è che Berlusconi è sostenibilissimo. Di
certo, perlomeno, non fa parte del reale quella melassa di opinioni,
buoni sentimenti e inani risentimenti prodotta da un ambiente
intellettuale talmente separato dal mondo da essersi convinto, in buona
fede, di vivere sotto il tallone di una dittatura, sempre dichiarando di
voler vivere altrove e mai togliendosi effettivamente dai piedi.
Francamente,
mi convince poco la strategia fin dal titolo messa in atto da Piccolo
per evadere da questa palude. Sono d’accordo sul fatto che chi la pensa
come noi non ha mai nulla di importante da insegnarci, ma non nutro una
stima dell’umanità tale da pensare che in quei «tutti» che lo scrittore
desidera raggiungere, dall’altra parte dell’inutile barricata, ci sia
qualcosa di così prezioso. L’unica cosa davvero trasversale che esiste
nelle nostre democrazie è la stupidità. Sarei più incline alla fuga
solitaria, al rispondere solo di se stessi, al distacco totale dall’idra
morbosa dell’opinione.
Ma non dimentico che quello che ho appena
letto non è un saggio, ma un romanzo. La differenza tra un saggio e un
romanzo non è nello stile e nel linguaggio, ma nel fatto che nel secondo
si indica una strada che può valere solo, fino in fondo, per chi l’ha
scritto. Quello che davvero vale per tutti, invece, è l’amore viscerale
di Piccolo per il presente, il suo rimanere ben piantato nella vita che
gli è toccata, quell’assoluta, purissima incapacità di stare altrove che
ci ha raccontato fin dai suoi primi libri. È con un brivido di empatia e
complicità che lo ritroviamo ancora qui, che in fondo è l’unico posto
dove si possa stare con dignità e con spirito poetico, sempre a caccia
dei suoi momenti di felicità.
I menagrami e i moralisti non ci crederanno mai, ma è un’attività che basta da sola a riempire un’esistenza.
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Guido Vitiello
Massimiliano Panarari
... né apocalittico, né integrato, in linea con la funzione dell'intellettuale (nel suo caso, sicuramente progressista)
di distinguere senza farsi travolgere dallo spirito di fazione. E,
invece, relativista, e in grado di vivere nel frullato postmoderno il
cui manifesto, non a caso, è il seguitissimo programma 'Che tempo che
fa' che lo annovera tra i suoi autori, e ha saputo inventarsi, come
nessun altro prodotto culturale il nazionalpopolare "di sinistra" dei
nostri giorni.
Giovanni Orsina
... A leggere 'Il desiderio di essere come tutti' si ha l'impressione
che una certa cultura di sinistra stia facendo i conti col ventennio
berlusconiano (e di conseguenza sia diventata "oggettivamente" renziana)
così come li ha fatti col comunismo dopo il 1989: restando ben chiusa
nel proprio recinto, prendendosi meno
responsabilità che sia possibile, facendo l'autocritica minima
indispensabile. Rimodulando la propria identità in una maniera sempre
più debole - dal comunismo all'antiberlusconismo apocalittico, a un
progressismo acquoso. [...] E soprattutto replicando in una forma questa
volta sottile e leggera, ma non meno ferma la convinzione che la
sinistra resti "migliore". Tanto più che ora, arrivando infine a
comprendere in sé anche la mancanza di purezza e la superficialità, è
pure in grado di vincere le elezioni.
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