Il lavoro ben fatto, il gesto necessario, la grandezza discreta e possente del mondo che si dispiega sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno: di queste evidenze elementari è fatta la trama delle occasioni minime che compongono la nostra esistenza. La naturalezza della vita immediata dentro uno spazio domestico investito dalla luce: il mondo allora si riduce a ciò che vediamo e in un tale spettacolo offre il sentimento di qualcosa che dura, con noi e al di fuori di noi, con la forza dell'essere ridotto alla precisione assoluta del particolare. Non meraviglia che Proust sia stato affascinato da Vermeer. Il senso e il mistero della vita si scioglie in un sentimento di adesione attenta e calma a ciò che ci appare vero: in un determinato istante e per sempre.
Melania Mazzucco
Popolana? No, Regina...
la Repubblica, 13 ottobre 2013
In Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, lo scrittore
Bergotte, al Jeu de Paume per una mostra di Vermeer, muore d'infarto
mentre ammira la Veduta di Delft. Il minuscolo lembo di muro giallo,
"dipinto così bene da far pensare a una preziosa opera d'arte cinese",
gli sembra migliore di ogni sua frase: quella materia ricca di strati di
colore l'unica bellezza per cui vale la pena vivere. Ma per me il più
bel muro del mondo è quello che chiude insieme la cucina e il quadro
nella Lattaia.
Una superficie rivestita di intonaco bianco crema - grezza e nuda
come una pagina, o una tela. La lattaia apparteneva al principale
committente e mecenate di Vermeer, Peter Claeszoon van Ruijven. Finì
all'asta ad Amsterdam, nel 1696. Nel catalogo era descritta come "una
cameriera che travasa il latte, eseguita alla perfezione, fiorini 175".
Una cifra elevata ma non eccezionale. L'autore era stimato dai
contemporanei, un bravo maestro, come tanti altri. Però solo la Veduta
di Delft fu valutata di più.
Vermeer ha dipinto poco. In 22 anni (morì giovane, a 43), 28 quadri
certi, più 7 discussi. Nemmeno 2 all'anno, mentre i suoi colleghi
arrivavano a 50. Non sappiamo se la parsimonia era dovuta a pigrizia di
invenzione, nostalgia della perfezione, o alla malinconia. Ha dipinto
quasi sempre giovani in un interno. Mai vecchi, neonati, animali, fiori.
Ha raffigurato donne intente a scrivere o leggere lettere, ma non ne ha
lasciata una. Di lui conosciamo quanto forma la trama di una vita -
famiglia d'origine e propria, debiti, relazioni, malattia e morte - ma
ci sfugge l'essenziale. In questa esistenza elusiva un'unica data
conta: il 1653. Quell'anno, ventenne, Vermeer sposò Catharina Bolnes,
giovane cattolica benestante che gli offrì le rendite della madre e
l'agio della casa di lei sull'Oude Langendijk, e si iscrisse alla
corporazione di san Luca, divenendo maestro pittore. Gli eventi della
sua biografia - la nascita dei moltissimi figli, i rapporti coi
colleghi, i successi, la crisi economica, perfino la guerra - non
trovano spazio nella sua pittura, come accidenti senza eco. Separando la
sua persona dall'opera, Vermeer si è annullato in essa.
La lattaia ha braccia sode e corpo robusto. Non somiglia alle bambole
di porcellana degli altri suoi dipinti, e neanche alle loro affettate
cameriere. Indossa abiti da poco, il corpetto di camoscio giallo limone
cucito grossolanamente, il tessuto logoro delle maniche rimboccate, la
stoffa ruvida del grembiule blu, la cuffia sgualcita. Vermeer non ha mai
più dipinto una donna di bassa estrazione sociale come lei. Solo donne e
ragazze della borghesia (gli uomini gli divennero presto superflui) in
occupazioni frivole - bere, suonare, provarsi gioielli.
Forse usò come modella Tanneke Everpoel, la domestica della moglie, per
anni al servizio dei Vermeer e a loro legata da non banale devozione:
nel 1663, durante una lite, si lanciò sul fratello della signora (pazzo
violento che finì i suoi giorni in una casa di correzione per
delinquenti) impedendogli di piantarle la punta di ferro del bastone nel
grembo. La moglie di Vermeer era incinta.
Ma Vermeer spersonalizza la lattaia, come tutti i suoi modelli, privi
di identità e inespressivi come maschere. Malraux paragonò i loro volti
enigmatici a quelli dei kouroi della Grecia arcaica. La lattaia deriva
da altri quadri, perché Vermeer - idolatrato per la minuzia del
dettaglio naturalistico - inventava invece non dalla realtà ma
dall'arte. Commercianti, birrai, fornai e mercanti di Delft apprezzavano
la pittura di genere: scenette ambientate in bordelli, cucine e
salotti, che col pretesto di moralizzare descrivevano i costumi
contemporanei. Esisteva una Lattaia di Gerrit Dou, "fine pittore" di
Leida. Ma Vermeer andò a cercarsi il modello in una Regina Artemisia
dell'italiano Domenico Fiasella: un quadro di storia. Era ancora giovane
e non limitato dall'ambizione di essere considerato un gentiluomo: fece
qualcosa di inaudito (e irripetibile). Diede alla sua serva la dignità
di una regina.
La lattaia è sola, nella cucina spoglia. Nella finestra a sinistra,
da cui entra la luce del giorno, uno dei vetri è rotto. Gli arredi sono
modesti: sul pavimento uno scaldino, sulla parete d'angolo un cesto di
vimini e un secchio di rame. E la cornice scura di uno specchio. Che non
riflette nulla: la pittura non è copia della realtà. In basso, il
battiscopa è una fila di piastrelle quadrate di ceramica decorate con
disegni azzurri: artigianato di qualità, sfornato dalle fabbriche di
Delft. Vi si riconoscono dei Cupido. Forse alludono all'amore. Cosa
pensa la serva mentre, le palpebre basse, assorta, lavora? Sul tavolo,
una caraffa, una cesta, forme di pane e la ciotola di terracotta in cui
lei fa colare un filo di latte. Il pittore la inquadra dal basso. Forse
perché dipingeva seduto, e quello era il suo punto di vista. Forse
perché così la figura acquistava monumentalità.
Vermeer, noto nel '600 per l'abilità
nella prospettiva, costruì attentamente quella di questa tela, in cui si
vede ancora il foro dello spillo in corrispondenza del punto di fuga.
Sulla mano destra della lattaia. Perché è il suo gesto che deve
catturare lo sguardo. La luce batte sulla cuffia, sulla fronte della
ragazza, e sul muro dietro di lei.
L'effetto del chiaroscuro ritaglia la figura (evidenziata sulla
spalla e sul lato sinistro dalla linea di contorno bianca), che sembra
sospinta in avanti, verso lo spettatore. Ma il tavolo ingombro di
masserizie lo tiene a distanza - di qua dalla soglia. Gocce di colore
picchiettate con la punta tonda del pennello (è la tecnica del
"puntinato") riflettono la luce: il manico della cesta e la crosta del
pane barbagliano. Il fiotto del latte e la ragazza acquistano una forza
epica. Il tempo si ferma, un attimo insignificante si dilata
all'infinito e racchiude il segreto della vita.
Ma il muro? Non serve solo da sfondo. Vi affiorano minime tracce. Un
chiodo, e la sua ombra: il buco di un altro chiodo che, quando è stato
estratto, ha scrostato l'intonaco. Sono tracce reali e insieme
metaforiche. In quella cucina era appesa una carta geografica, e Vermeer
l'aveva dipinta. Non eseguiva disegni preparatori e si concedeva molti
ripensamenti: correggeva, eliminava, copriva. E così poi ha cancellato
la carta geografica (suggeriva il mondo esterno, che lui voleva invece
escludere dal quadro). Il mondo è tutto qui: esistono solo la donna e il
latte che sgorga dalla brocca. Il chiodo però si vede, come i buchi.
L'arte raffigura ciò che resta. La pittura può solo colorare le tracce,
registrare con la massima cura e amore (la perfezione cinese di Proust)
gli istanti della nostra vita - le assenze, le ferite, lo
sbriciolamento di ogni superficie su cui la luce (il tempo) si posa.
Vermeer non svelerà mai a cosa sta pensando la lattaia. Il silenzio che
impone ai personaggi è il suo. Lascia che parli il muro. Cioè la pittura
stessa.
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