giovedì 19 settembre 2019

Un omaggio alla Hollywood di una volta






Simone Lorenzati, Il nono film di Tarantino 

Los Angeles, nel 1969. E' probabilmente questa, prima ancora della storia coi suoi personaggi, la vera protagonista di C'era una volta a... Hollywood, film di Quentin Tarantino uscito ieri in Italia. Il periodo è noto, quello del Flower Power, un mondo che si illude di cambiare tra sogni e Comuni, tra felicità e utopia rivoluzionaria, mentre la realtà statunitense lo riporta al quotidiano orrore della Guerra in Vietnam. Tuttavia il movimento hippy cresce, la protesta, che carica di giovani le strade, si percepisce anche nel Cinema, eclissando vecchi miti a favore di qualcosa di nuovo. E Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) rappresenta esattamente questo. Protagonista, ad inizio decennio, di una serie western di successo, si ritrova ora a fare i conti con il tempo che, inesorabilmente ma velocemente, passa. Rick non ha ormai più alcun ruolo da protagonista positivo, insomma non veste da tempo i panni di un qualche personaggio che crei empatia con il pubblico. Al contrario viene utilizzato come una vecchia gloria da far prendere a pugni dal nuovo eroe di turno, che cambia, al contrario del suo ruolo di cattivo ad aeternum. Accanto a lui c'è la sua controfigura, l'amico fraterno Cliff Booth (Brad Pitt), che oltre ad essere anche suo autista, è quasi il factotum di Rick. E partendo da loro due Tarantino porta effettivamente lo spettatore all'interno di quel mondo e di quell'epoca, grazie a un eccezionale lavoro degli scenografi che ci proiettano nella Los Angeles di mezzo secolo fa. Il tutto condito dalla perfezione dei costumi, delle musiche, nonché della pellicola in 35mm, 16mm (e addirittura 8mm) utilizzata dal direttore della fotografia Robert Richardson per riportare quel tipo di d'immagine, pastosissima, distante anni luce dall'odierno digitale. A ciò si aggiunga che il viaggio, sia nel tempo sia in quel Cinema, è ulteriormente accentuato da continui passaggi tra colore e bianco e nero e da un aspect ratio che passa dal classico 2.39:1 fino al televisivo 1.33:1, dando una reale vita autonoma al grande schermo. Da ogni inquadratura trasuda la passione del regista nei confronti di quell'epoca e del Cinema di quegli anni. Insomma assistiamo ad una vera e propria dichiarazione d'amore che si traduce in lunghissimi quadri dedicati ai paesaggi o al percorso in macchina da un luogo all'altro della LA che fu. Ma non solo il Cinema, in quanto anche la televisione di quel momento, anche gli stessi mestieranti di tv e Cinema, vengono racchiusi in quello stesso abbraccio. Basti pensare che uno dei protagonisti della pellicola nella vita fa lo stuntman, ossia uno che si sporca le mani, e si rompe le ossa, per vivere di Cinema. Ed è sostanzialmente qui la profonda, profondissima differenza, rispetto ai precedenti otto lavori tarantiniani, compreso il penultimo, The Hateful Eight. Niente dialoghi intensi (meglio ci sono, ma più sfumati), molto meno splatter (ad eccezione del finale) poiché in C'era una volta a... Hollywood tutto ciò viene meno. Tarantino sceglie, questa volta, di parlarci e di illustrarci un mondo, piuttosto che di raccontarci una storia. E così Rick Dalton e Cliff Booth, senza poi dimenticare la presenza sullo sfondo di una certa Sharon Tate (Margot Robbie), compagna del regista Roman Polański, diventano i protagonisti di un racconto di vita vissuta che ama fondere la realtà storica con la fantasia sfrontata, tuttavia rispettosa, tipica di Tarantino. Cosa ne esce è un lungo (due ore e quaranta di durata) omaggio al cinema di fine anni ’60 inizio ’70, in cui emerge un regista diverso, probabilmente più attempato, che punta meno su violenza e parolacce e più su dettagli e inquadrature. Certo, molti appassionati del suo cinema potrebbero non accettare una scelta simile. Deludente, allora? Chi scrive, che è da sempre un amante del regista italoamericano, ritiene assolutamente di no, se si riesce a concepire il film ponendosi nell’ottica con cui il regista desiderava realizzarlo. Un Tarantino diventato cineasta che, tuttavia, non rinuncia, anche qui, ad alcune sue prerogative (si pensi ai dialoghi tra Rick e la piccola attrice, tra lui e Booth). Insomma un intimo omaggio a un cinema, ad una intera industria cinematografica verrebbe da dire, ormai persi nei ricordi dei loro stessi protagonisti.
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