martedì 28 marzo 2017

Giovanni Pascoli, Romagna


Giovanni Pascoli
Romagna
a Severino
 
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l'azzurra vision di San Marino:

sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l'altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l'anatra iridata,

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l'urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell'aie;

mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e '1 bue rumina nelle opache stalle
la sua laborïosa lupinella.

Da' borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d'occhi di bambini.

Già m'accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d'estate
co' suoi pennacchi di color di rosa;
 
e s'abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un biricchino.

Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l'imperatore nell'eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in via
con l'ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allor allor falciati
da' grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.

E lunghi, e interminati, erano quelli
ch'io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d'uccelli,
risa di donne, strepito di mare.

Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.

Così più non verrò per la calura
tra que' tuoi polverosi biancospini,
ch'io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozïoso i piccolini,

Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta. 

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Stefano Labbia, I giardini incantati, Cosenza, Talos 2017

E' questa è la seconda silloge poetica del giovane autore romano Stefano Labbia: il giardino incantato è il luogo ideale dove i versi trascinano il lettore. Un luogo fatto di sfumature vivaci e tinte forti. L'autore non si cura tanto della lezione ermetica e avanguardista del Novecento, preferendo rifarsi forse ai crepuscolari (Corazzini, Gozzano, Govoni, ecc.). C'è un recupero dell’intimismo e della semplicità a fronte del modernismo a tutti i costi. Le esperienze trasfuse nei “Giardini incantati” si snodano fra sentimenti e risentimenti, amarezze e dolcezze, comuni a tutti noi esseri umani, figli dei tempi antichi e moderni. La poesia che ne risulta è, come la vita, “severa e ilare al tempo stesso”.

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