venerdì 28 ottobre 2022

I numeri di Giorgia Meloni

Scriveva giorni fa Marco Damilano che al centrodestra manca un radicale progetto di cambiamento. Può essere, se si guarda invece ai singoli partiti della coalizione, forse i progetti non mancano. Manca, se mai, un programma comune. Ma è questo che occorre per vincere le elezioni? A vedere quello che è accaduto il 25 settembre non sono state le singole liste a determinare il risultato ma il profilo dei contendenti e la credibilità dell'offerta politica. È su questo terreno che Giorgia Meloni si è imposta all'attenzione.

Concita De Gregorio, Nascita di una leader. Giorgia l'equilibrista tra alleati "mostruosi, la Repubblica, 26 ottobre 2022


Una grandissima comunicatrice, un’equilibrista, una dissimulatrice: certo. Una che cambia pelle secondo necessità: sicuro. Una politica, insomma. La sua campagna elettorale è stata la migliore di tutte, difatti ha vinto. Draghi l’ha capito bene. Non è questo che conta? Non è saper comunicare, la politica? Quando Meloni dice «sono pronta a fare quello che va fatto a costo di non essere compresa» parla per la prima volta da secoli di clima e non di meteo: dei prossimi dieci anni e non dei futuri dieci giorni. Poi. Voglio discutere di scafisti e di flussi, di merito e di opportunità, di tasse e di diritti. Di cannabis e di mercati criminali, di cosa sia una famiglia e di chi lo decida. Di corpo, di lavoro, di felicità e di abissi. Sarei contenta di discuterne lealmente, senza che ci siano dietro interessi torbidi, convenienze personali, questioni di soldi e di potere. Sarei contenta, «dentro l’Europa», che chiunque possa sovvertire i pronostici. Non credo che nessuno voglia «disturbare chi vuole fare». Lo auguro ai miei figli e anche a chi di figli non ne ha e non ne vuole, dal profondo del cuore. Giochiamocela, questa partita. Speriamo che sia leale, sincera. Una pastiglia per la tosse sempre in tasca, e anche con la febbre – come siamo abituati a fare, direi soprattutto abituate a fare: andiamo a dire la nostra. Andiamo a lavorare.

martedì 25 ottobre 2022

A noi! Fratelli d'Italia sulle orme del Pd

 

 

 Marco Damilano, Meloni premier chiude il trentennio senza politica, Domani, 24 ottobre 2022

Negli ultimi anni l'Italia ha oscillato tra il commissariamento tecnocratico e il populismo, due esperienze che hanno fallito nel tentativo di restituire all'Italia un sistema politico stabile e coerente.
La prima parte dell'ultima legislatura, il governo Cinque stelle-Lega presieduto da Giuseppe Conte, ha rappresentato il punto più alto dell'antipolitica e l'inizio della sua fine. Oggi il movimento 5 stelle, guidato da Conte, è l'opposto del soggetto virtuale delle origini, rappresenta gli interesssi più corposi e materiali dell'elettorato: il sud del reddito di cittadinanza, il ceto medio impaurito dall'impoverimento. Si propone come un sindacato dei cittadini, in difesa dei diritti acquisiti.
La seconda parte è stata caratterizzata dall'unità nazionale di Mario Draghi. Ma ancora una volta la tregua offerta dal governo presieduto dall' ex banchiere centrale non è servita al sistema dei partiti per ricostruire la loro tavola dei valori e la loro presenza nella società. Eppure, trent'anni dopo il 1992, questo serve, partiti in grado di offrire una nuova mediazione, sulla base di valori e interessi. La pandemia, la guerra in Ucraina, l'emergenza energia, la recessione in arrivo, ripropongono l'esigenza per la politica di avere un corpo, cioè l'ossatura fisica di una nuova rappresentanza. La destra, da sempre, conosce bene il proprio elettorato e sa come rappresentarlo e tutelarlo. Il Pd, in crisi di identità, ha una composizione sociale in via di erosione, che è la base del suo declino elettorale.
Giorgia Meloni è in questo punto di incrocio. Incarna una identità politica e culturale di sicura matrice nazional-reazionaria. È una professionista della politica, e della politica di partito, non ha fatto altro nella vita. In più è romana, profondamente romana, da sempre a contatto quotidiano con ik palazzi della politica.  La sua non è dunque la vittoria dell'antipolitica modello Movimento 5 stelle.
Le biografie dei nuovi ministri stanno lì a dimostrarlo: in molti di loro hanno percorso tutte le stagioni, dal 1992-1993 in poi, sono in gran parte leghisti, berlusconiani, post fascisti ormai invecchiati. Per questo non ha ragion d'essere il senso di esclusione storico del post-fascismo italiano che Meloni porta con sé, la carica di rivincita, di riscossa e di vittimismo (nella narrazione meloniana il mondo è popolato dalla sinistra che vuole cancellare le radici, le tradizioni) che arriva arriva nonostanta tanti anni di sdoganamento e di partecipazione alla distribuzione delle poltrone di governo e di sottogoverno.
Più che nel 1922, esercizio sterile, tra le cause che hanno portato la sinistra alla sconfitta, le sue radici vanno cercate nel 1992, quando è cominciata la storia dell'ultimo trentennio, in cui si è svolta tutta l'attività politica di Giorgia Meloni, che coincide con la sua vita.
la sua sfida, per chiudere davvero il cerchio, è costruire un partito nazionale che non sia alimentato da una piccola asfittica comunità di iniziati uniti dal culto del capo, declinato al femminile, vistosamente eccitati per il successo (che non appartiene a loro) e gelosi della loro antica amicizia con la premier, pronti a farle un cordone sanitario attorno contro chi prova a salire sul carro senza militanza pregressa. Una sfida che si gioca nel governo, dalla poltrona centrale della sala del Consiglio dei ministri di Palazzo Chigi dove Meloni si è seduta ieri mattina, dopo aver congedato Draghi.
Il centrodestra torna nei ministeri senza un radicale progetto di cambiamento, dalle prime battute il governo sembra destinato all'ordinaria amministrazione, a<lla gestione dell'esistente, ovvero del potere, vuole distribuire più che governare, lo stesso virus che ha soffocato il Pd. Per chi vuole costruire un'alternativa, per la sistra, la missione è inversa: non si va al governo senza una battaglia culturale e un corpo a corpo nella società. Lasciare alle spalle il trentennio senza politica. Chiudere il cerchio.



lunedì 24 ottobre 2022

La grande sfida

 
 

 
Condorcet

 
 
Al di là del metodo, va sottolineato che per Dahrendorf la concezione delle chances di vita assurge a teoria/filosofia della storia. Nel suo famoso saggio “La libertà che cambia” egli scrive: “Le chances di vita sono le impronte dell’esistenza umana nella società: definiscono fino a che punto gli individui possono svilupparsi (…). La particolare combinazione di opzioni e legami, di possibilità di scelta e di vincoli di cui sono costituite le chances di vita è ciò che ci consente di valutare il senso della storia. Ciò che è decisivo naturalmente non è questa combinazione, ma il fatto che possano esistere chances di vita nuove in senso stretto (…). Se questo genere di considerazioni significa qualcosa, la conseguenza almeno è che si rende possibile un senso della storia. Esso consisterebbe proprio nel creare più chances di vita per più uomini” .
 
 
Giovanni Orsina, La destra orgogliosa e la scoperta dei valori, La Stampa, 22 ottobre 2002
 
La composizione del governo Meloni rende ancor più evidente un dato di fatto che, del resto, è sempre stato sotto ai nostri occhi: alle elezioni ha vinto la destra. Non una destra «estrema» entro i cui confini si aggirerebbero, con sguardo torvo e viso arcigno, «ultra»-cattolici a braccetto con «iper»-conservatori, come troppo spesso si dice in Italia e all'estero con l'intento piuttosto evidente di delegittimare una parte politica appiccicandole addosso un'etichetta iperbolica. Ma nemmeno un centrodestra liberale o al più, com'era Forza Italia nella sua stagione d'oro, liberal-populista. No: una destra solidamente e orgogliosamente tale, popolata di conservatori laici e cattolici. Siamo di fronte a una svolta radicale? Di per sé la nascita di un governo in Italia, Paese di statura media, non è in grado di generare una mutazione storica d'importanza primaria. Può tutt'al più essere la spia di un cambiamento di clima.
E, questo sì, mi pare che il governo Meloni lo sia, che sia la conseguenza della rivolta, visibile su scala planetaria, di settori in genere non maggioritari ma assai consistenti dell'opinione pubblica contro l'accoppiata globalizzazione-individualismo e il suo impatto devastante su identità e legami sociali.
Le prime a essere sfidate da questa rivolta e dalle sue conseguenze sono la cultura e la politica progressiste. Le quali per la verità, almeno finora, non si sono dimostrate granché all'altezza della sfida. Il progressismo ha reagito al montare dell'onda conservatrice facendo forza su una concezione – appunto – progressista della storia: la storia avrebbe una logica e una direzione e, una volta superate certe soglie, indietro non si può più tornare. Da qui l'accusa che vien mossa ai conservatori di essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo, reduci di un'epoca ormai remota e conclusa, «medievali» addirittura.
L'errore è nel manico: la concezione progressista della storia non regge più, e la rivolta contro la coppia globalizzazione-individualismo nasce proprio dalla sua crisi. È perché non credono più che la storia abbia una logica e una direzione, insomma, perché sono spaesati e angosciati dal futuro, che gli elettori votano a destra. E con l'idea di progresso in pezzi, allora, tocca ai progressisti essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo. Sono loro a esser chiamati ad abbandonare ogni pigrizia, ad affrontare seriamente le obiezioni dei propri avversari, a ripensare e ricostruire le proprie ragioni.
Su scala globale, la rivolta dalla quale scaturisce il gabinetto Meloni presenta poi una seconda sfida, più seria ancora della prima: poiché la coppia globalizzazione-individualismo è figlia della democrazia liberale, il suo rifiuto rischia fatalmente di prendere una torsione autoritaria. Tanto quanto appare inequivocabilmente orientato a destra, d'altra parte, allo stesso modo il nuovo governo, nella sua composizione, dimostra anche grande rispetto per la cornice europea e atlantica entro la quale si muove l'Italia. E, di conseguenza, per i valori democratici e liberali che sorreggono quella cornice. Basta dare un'occhiata alle caselle ministeriali fondamentali: Interno, Esteri, Economia, Difesa, Giustizia.
In questa doppia cifra, mi pare, risiede l'aspetto più interessante dell'esperimento di Giorgia Meloni. C'è lo sforzo insistito, esplicito e orgoglioso di restare fedele alla propria storia e ai propri princìpi, e perciò di non abbandonare un saldo ancoraggio a destra. Ma c'è pure lo sforzo parallelo di fare in modo che quella storia e quei princìpi non si contrappongano frontalmente allo status quo, non rischino di esserne respinti in una sorta di ghetto, ma al contrario entrino in dialogo con esso, guadagnino legittimità e forza fino a poterlo modificare gradualmente dall'interno.
L'operazione resta tutt'altro che agevole, soprattutto nelle attuali, complicatissime circostanze storiche. La squadra di governo sarà adeguata a un compito così impegnativo? Non è male, ma forse si poteva far di meglio. Meloni sembra aver scontato due limiti, nel comporla. Il primo ha a che fare col rapporto fra tecnici e politici. In questo gabinetto prevalgono largamente i politici, com'è giusto che sia: un governo è un organismo politico, qualche tecnico può starci ma, in tempi ordinari, dev'essere un'eccezione. Per ragioni storiche, tuttavia, a destra i politici di «rango ministeriale» non abbondano. Il bacino da cui attingere ministri politici, insomma, era un po' a corto di acqua.
Il secondo limite di Meloni è figlio della sua riluttanza ad allargare lo sguardo al di fuori degli ambienti che ha frequentato, nei quali è cresciuta e di cui si fida - riluttanza che già si è manifestata con le liste elettorali, e che la composizione del governo rende ancora più evidente. La prudenza della presidente del Consiglio è comprensibile, certo. Anche in questo caso, però, si tratta di trovare il giusto equilibrio fra due esigenze contrapposte: allargare il gruppo dirigente da un lato, preservarne i rapporti di fiducia interni dall'altro. Per il momento, la seconda esigenza ha preso il sopravvento sulla prima. Aprire un piccolo partito identitario al vasto mondo evitando che si diluisca: questa, in definitiva, è la grande sfida di Meloni, sul terreno ideologico così come nella scelta delle persone.

 

sabato 22 ottobre 2022

Che cosa è stato l'antifascismo

 

Due sono state le novità importanti che hanno accompagnato l'ascesa di Giorgia Meloni al potere. Una è stata la caduta finale del primato berlusconiano a destra. Basterebbe una sequenza fotografica a illustrare il fenomeno. Berlusconi che esce dal palazzo del Quirinale dopo che la delegazione della maggioranza è stata ricevuta dal Presidente della Repubblica e fa il suo ingresso nel cortile. Fisicamente, è l'ombra di se stesso, non si regge in piedi da solo, viene sorretto da Salvini, mentre tenta di appoggiare una mano sulla spalla di Giorgia Meloni, che subito si sottrae alla manovra. L'altra novità è rappresentata dalla caduta temporanea del paradigma antifascista che sembrava ancora dotato di una certa forza alla vigilia delle elezioni. Già al tempo di Fini gli eredi della Repubblica sociale, l'antico MSI diventato Alleanza Nazionale, avevano assunto l'antifascismo tra i loro valori di riferimento. Con Giorgia Meloni possiamo dire che, se l'antifascismo viene meno, neppure il fascismo si porta più tanto bene. Niente di grave: l'adesione alla democrazia resta per ora un elemento costitutivo dello spirito repubblicano nel paese. Succede quello che è successo con il richiamo al trinomio Liberté Egalité Fraternité in Francia. Per i giovani immigrati delle banlieues era diventato uno slogan di facciata, mentre per la destra era ormai privo di una efficacia pratica, vista la spaccatura ormai intervenuta su questo tra le forze politiche. Gli ideali che non si rinnovano tendono a diventare bandiere storiche senza un rapporto vitale con i sentimenti delle masse. Altra cosa è la lezione storica contenuta nella vecchia formula «Il re è morto, viva il re!». L'antifascismo è pronto a rinascere dalla sue ceneri, come dimostra il discorso della signora Liliana Segre al Senato. Deve solo trovare una nuova linfa nel rinnovo dei contenuti, dei riferimenti ideali e delle politiche.

Memoria pubblica dell’antifascismo 

Nicola Gallerano, Le verità della storia, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 89-93   

A differenza del caso francese, dove la Quarta Repubblica poteva contare su radici più lontane e
sedimentate, e di quello tedesco, dove l’antifascismo dei vertici politici costituiva poco più del
riconoscimento della sconfitta subita, in Italia l’antifascismo è stato [...] il fondamento stesso della
Carta costituzionale e lo strumento ideologico di legittimazione reciproca tra le forze politiche che
in quella tradizione si riconoscevano. [...in questo senso] l’antifascismo è stato in Italia una
importante componente ideologica della opposizione politica e sociale, un fattore di identità e un
potenziale di mobilitazione, che hanno agito con continuità fino alla metà degli anni Settanta,
basandosi su e al tempo stesso irrobustendo le sue radici di massa. [...]
In altre parole, l’antifascismo è stato, in fasi diverse della storia del dopoguerra, ora al potere, ora
all’opposizione: non è stato puramente e semplicemente l’ideologia dei vincitori, come sostengono i
suoi detrattori, ma non è stato neppure il fondamento indiscusso dell’identità nazionale, il tramite,
nel bene e nel male, di una costruzione di “cittadinanza”.
Una periodizzazione del suo diverso ruolo e della sua diversa fortuna è stata proposta qualche anno
fa [...] e può qui essere riconfermata. In sintesi, dopo il ’48 e per tutti gli anni Cinquanta, dominati
dalla contrapposizione ideologica e politica tra comunismo e anticomunismo, si assiste a una più o
meno tacita emarginazione dell’antifascismo da parte delle coalizioni di governo.
Gli anni Sessanta – che si aprono con i fatti del luglio – sono gli anni della ripresa di massa
dell’antifascismo e insieme della sua nuova legittimazione istituzionale.
Gli anni che vanno dal 1968 alla metà degli anni Settanta conoscono infine il massimo sviluppo
dell’iniziativa che si richiama all’antifascismo ma anche i primi segnali di logoramento.
Si apre allora una fase di crisi dell’antifascismo [...].
Antonio Baldassarre ha spiegato come negli anni della solidarietà nazionale, nel 1976-1979, il
paradigma antifascista abbia esaurito la sua funzione di strumento di legittimazione dei partiti
dell’arco costituzionale, estendendola al Pci.
Negli stessi anni, anche l’antifascismo come ideologia dell’opposizione sociale subisce duri colpi.
Non solo per la sconfitta del movimento del 1968 che in quegli anni si consuma. Ma perché il
richiamo all’antifascismo suonò allora paradossalmente ambiguo: esso venne surrettiziamente
richiamato dal terrorismo “rosso” come proprio antecedente storico e insieme evocato dai partiti
dell’arco costituzionale come fondamento dell’unità nazionale contro l’emergenza.
L’effetto che ne uscì è difficile da sottovalutare, perché il terrorismo rosso colpiva il radicato
convincimento, confermato fino allora da tutta la storia post-bellica, che l’eversione avesse un
segno esclusivo di destra; e perché la nuova situazione aveva l’effetto di deprimere forme
collaudate di attivizzazione e presenza sociale che nel nome dell’antifascismo si erano coagulate.
Sia pure con un decennio di ritardo [rispetto agli altri stati europei], negli anni Ottanta, anche in
Italia dunque si fanno evidenti i processi di diaspora della tradizione antifascista e resistenziale [...].
Negli anni ’80, inoltre, inizia ad avere spazio e corso l’identificazione dell’antifascismo quale
supporto ideologico del sistema dei partiti e della I repubblica, mentre viene sviluppato il tema della
contrapposizione tra antifascismo, inquinato dalla presenza nel suo seno del totalitarismo
comunista, e democrazia. D’altra parte l’antifascismo non costituisce più l’asse privilegiato della
strategia del Pci, alle prese con un difficile e ambiguo tentativo di ridefinire la sua cultura e la sua
collocazione nel sistema politico.
Questo processo è stato certamente segnato da palesi strumentalizzazioni e da vere e proprie offese
alla verità storica. A parte le compiacenti e consolatorie immagini del fascismo che l’universo dei
media è venuto massicciamente esibendo, è persino mortificante o stucchevole dover ribadire che nel nostro paese l’antifascismo è stato storicamente lo strumento di passaggio alla democrazia moderna: un sistema di regole ma anche un terreno per allargare i confini della trasformazione possibile verso l’uguaglianza e la giustizia sociale; e che l’antifascismo, rifiutando il fascismo, rifiutava l’aggressione esterna e la repressione istituzionalizzata interna. Ma non va neppure passato sotto silenzio che nel corso degli stessi anni Ottanta questo processo ha avuto anche effetti liberatori: rivelando la pluralità e non omogeneità delle componenti dell'antifascismo, eliminando l'equivoco di una sua strumentale utilizzazione da parte del Pci, aprendo la strada a una riflessione più consapevole e matura, e talvolta anche più radicale, sul fascismo. Penso ai risultati di ricerche sulla memoria della deportazione in Germania e alla messa in discussione del luogo comune dell'«italiano brava gente» e dunque agli effetti non superficiali della ideologia e della propaganda del regime. Penso alla ricerca esemplare di Claudio Pavone, e alla sua capacità di rivisitare senza pregiudizi e insieme senza rovesciare i termini del giudizio storico e politico un pezzo di storia lacerante e intricatissimo sul piano delle scelte morali ed esistenziali.
La comparazione sviluppata nella prospettiva della fine del dopoguerra ha messo dunque in luce
percorsi differenziati ma anche alcuni trend comuni. In particolare ha mostrato una tendenza al
logoramento della tradizione antifascista: un processo che si è sviluppato con aspetti e tempi diversi
nei tre paesi [Francia Germania, Italia].
Esistono d'altra parte elementi comuni ai tre casi su cui vale la pena di svolgere una riflessione
conclusiva. Abbiamo ricordato il paradosso di una fine del dopoguerra che al tempo stesso conosce
l'ossessione della memoria del fascismo. Da questo punto di vista, il dopoguerra non è finito. Non è
finito perché le ferite della memoria e la loro riattivazione non sono esaurite. Nel caso francese, è
stata la memoria ebraica, a grande distanza degli eventi, negli anni Settanta, a riaprire il contenzioso
del razzismo e della sua attualità. Nel caso tedesco, è il dibattito sul passato nazista a fornire
alimento al conflitto sui contenuti dell'identità collettiva. Anche nel caso italiano, che appare oggi
quello dove l'intreccio tra memoria storica e suo uso politico appare più strumentale e insieme più
superficiale, abbiamo rilevato l'esistenza di importanti controtendenze. Sono d'altra parte gli stessi
nuovi processi storici a provocare antichi mali - il razzismo, la sopraffazione, la diseguaglianza, la
violenza - e ad aprire - imprevedibilmente - la strada a memorie compresse o soffocate.



 

 

 

 

 



venerdì 30 settembre 2022

Luca Ricolfi stravede

 
 

 
Partiti al bivio
Il Pd e le due patenti dei 5S
di Luca Ricolfi
Individuare vincitori e vinti è facile. Vincitori: Meloni sopra il 25%, Conte sopra il 15%. Vinti: Letta sotto il 20%, Salvini sotto il 10%. Il resto sono scaramucce.
Ma qual è la cifra di questa tornata elettorale?
È stato notato, giustamente, che le forze politiche per lo più ritenute populiste o sovraniste — FdI, Lega, Cinque Stelle, Italexit, partitini comunisti — hanno totalizzato circa il 55% dei consensi, mentre i partiti più “draghiani” — Pd, Terzo Polo, +Europa, Impegno Civico — hanno raccolto solo il 30%, poco più della metà. Insomma, ha perso l’establishment e hanno vinto i partiti antisistema.
È questa la novità? Non esattamente, era già successo nel 2018, quando la somma di Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia e populisti minori aveva superato il 57%.
Altri osservatori, notando che i tre partiti di centro-destra hanno ottenuto il 43% contro il 36% nel 2018, hanno letto il risultato come uno spostamento a destra dell’elettorato.
Ma è un’illusione prospettica, perché nel 2018 c’erano i Cinque Stelle, e una parte non trascurabile del voto di destra era confluito nel partito di Grillo. Se si tiene conto di questa circostanza, i risultati suggeriscono, semmai, un lieve arretramento del consenso alla destra, che nel 2018 si annidava anche nel consenso ai Cinque Stelle. Un arretramento che si può desumere anche da un’altra circostanza: i sondaggi degli ultimi due anni hanno quasi sempre attributo ai tre partiti di centro-destra qualcosa di più del 43% registrato alle elezioni del 25 settembre.
Insomma, sull’appuntamento elettorale non ha spirato alcun “vento di destra”.
Se il centro-destra ha vinto non è perché il baricentro elettorale si è spostato verso destra, ma perché la destra ha una leader che ha saputo sfruttare la logica della legge elettorale (che premia le alleanze larghe), mentre la sinistra ha un leader che non ha nemmeno provato a sfruttarla, quella logica.
La vera cifra del voto, a mio parere, è un’altra. Prima del 25 settembre 2022 non era mai successo che, a sinistra del Partito Comunista (e dei suoi successori Pds-Ds-Pd), prendesse forma un partito di dimensioni comparabili.
Partiti come Psiup, Manifesto, Democrazia Proletaria, Nuova Sinistra Unita, Rifondazione comunista, PdCI, Sel, Leu, eccetera, sono sempre stati sotto il 9%, il più delle volte sotto il 5%. Certo, c’è stata la Margherita di Rutelli, che ha spesso superato il 10%, ma la concorrenza ai Ds la faceva da destra, non da sinistra. Quanto ai Cinque Stelle, nel 2018 avevano (ampiamente) raggiunto la massa critica necessaria a competere con il Pd, ma non erano ancora percepiti come un partito di sinistra. Perché la mutazione avvenisse, occorrevano Renzi e il suo colpo di mano parlamentare, che d’un tratto — con la formazione del governo giallo-rosso — fornì ai Cinque Stelle entrambe lepatenti di cui avevano bisogno: la patente di partito affidabile e quella di partito affine alla sinistra.
Ecco perché il 25 settembre è una data spartiacque. I Cinque Stelle non solo superano il 15%, avvicinandosi al 19% del Pd, ma lo fanno presentandosi come “la vera sinistra”, non importa qui se legittimamente oppure no.
Come è potuto accadere?
È semplice. Il Pd non è un partito socialdemocratico, che si rivolge ai ceti popolari e ne interpreta i bisogni. Il Pd è il partito dell’establishment e dei “ceti medi riflessivi”, ossessionato da due soli temi: l’accoglienza dei migranti e le battaglie per i diritti civili. Dei diritti sociali gli importa quasi nulla, anche se in campagna elettorale ha dovuto fingere che gliene importasse qualcosa. In breve, è diventato un “partito radicale di massa”, come a suo tempo aveva profetizzato il filosofo Augusto del Noce immaginando il futuro del Pci.
La cosa poteva funzionare, e in parte ha funzionato, finché i problemi della gente non erano drammatici. Ma con le ripetute crisi dell’ultimo quindicennio non poteva funzionare più, qualcosa si sarebbe dovuto cambiare. I dirigenti del Pd non hanno saputo vedere la spaventosa domanda di protezione, economica e sociale, che saliva dal Paese. Per dirla con Bersani, non si sono accorti della «mucca nel corridoio», che ormai bussava alla porta.
I Cinque Stelle invece sì. Per quanto sbagliate e qualunquiste possano essere le loro proposte, molti elettori — non solo al Sud — li hanno visti come la autentica sinistra, che non si occupa solo delle “grandi battaglie di civiltà”, ma anche di problemi più terreni, di cui la sinistrad’antan si faceva carico.
Ora il Pd è a un bivio, su cui il congresso di primavera dovrà pronunciarsi: fare concorrenza ai Cinque Stelle sul loro terreno, riscoprendo la questione sociale, o prendere atto della mutazione che ha cambiato il Dna della sinistra ufficiale. Avviandosi, in questo caso, a diventare in modo esplicito il partito dell’establishment e dei ceti medi istruiti e urbanizzati.

Gianpasquale Santomassimo

Si susseguono le ricette giornalistiche sul "che fare?" del PD.
A parte le amenità del vignettista lecchino, quello che non ha mai fatto ridere nessuno nemmeno per sbaglio, e che propone il "modello Scandicci", qualunque cosa sia, e la permanenza di Letta segretario perché ha il merito di aver rifiutato Conte e il "populismo", emergono proposte più impegnative.
Oggi c'è un editoriale a tutta prima pagina del direttore di Domani, Stefano Feltri, dal titolo esplicito: "Chiudere il PD per salvare la sinistra". Una analisi impietosa su un partito divenuto inutile e ormai dannoso. Non hanno alcun senso le ipotesi di un partito degli amministratori, sostenuto da sindaci e governatori, in primis Bonaccini, e neppure la velleità della pallida sinistra interna di rilanciare un possibile partito socialdemocratico, ormai fuori tempo massimo e non più credibile. Viene demolita anche l'ipotesi Schlein e il personaggio stesso, inconsistente e opportunista.
Però il finale è rivelatore di molte cose che un po' si intuivano: il PD deve scomparire per far posto alle "energie dell'ambientalismo e agli attivisti delle questioni di genere".
Ecco, questo è sicuramente un partito che verrà incontro alle aspirazioni delle classi popolari, che non chiedono di meglio.

giovedì 29 settembre 2022

Le ragioni della sconfitta


 
 
Concita De Gregorio, Le province rosse che hanno punito la nomenklatura, La Stampa, 28 settembre 2022
 
Il figlio del portuale, il nipote del fattore hanno votato "Giorgia", la chiamano per nome. Il padre, il nonno si sono spaccati la schiena tutta la vita, entrambi in cooperative di lavoratori, in mare e nei campi. Il primo a Livorno, dove il Pci è nato. Il secondo fra Modena e Reggio nell'Emilia, in un borgo dove il 25 aprile è per tradizione una festa più grande e più bella di quella del Patrono. Famiglie comuniste senza bisogno di chiedere perché: è chiaro, perché. È nelle cose, nelle mani, è così. Il nipote del fattore ha 26 anni e si è laureato, è andato a vivere in città, in campagna non ci vuole tornare. Lavoretti saltuari, una stanza in una casa condivisa. «Non ci voglio litigare, con mio nonno, perciò non mi metta in difficoltà. Io lo capisco, lo rispetto. Però non sono sicuro che lui capisca me, d'altra parte non lo pretendo. Ho votato Pd da quando voto.
Ma sempre meno volentieri, l'ultima volta per esempio alle regionali non ci sono andato. Ho pensato: protesto così. Ma non basta. Non andare a votare non basta. Non capiscono. Allora ora vediamo se capiscono. Magari adesso capiscono».
La dorsale appenninica, la famosa linea Maginot da cui la destra non passa, non può passare, ha ceduto. Toscana e Emilia sono diventate la Caporetto del Pd in una sconfitta dalle proporzioni inemendabili, umilianti, e c'è anche questo da dire: è stata una punizione.
Non solo, non sempre ma anche: il voltafaccia delle provincie rosse ha il sapore di un castigo, come quando i genitori dicono ai figli questa volta ti tolgo la playstation, la seconda stai senza telefono, la terza ti mando in collegio. Ecco, questo: te ne vai da casa, e vediamo.
Se ne sono andati da casa, i figli e i nipoti dei Padri Fondatori. Livorno, la città del comunismo anarchico, fatto di menefreghismo e solidarietà, di fratellanza e di vento. Pisa, nelle cui università si è formata la classe dirigente del Pci del Novecento, Mussi e D'Alema che giocavano a biliardino, la scuola di Storia Moderna di Furio Diaz. Grosseto, la Maremma. Prato, l'industria. Massa, Arezzo Lucca. Centomila voti persi a Rimini e Piacenza. Una disfatta a Modena, Ravenna, Rimini, Forlì. Non è più nemmeno una questione di mappe e di numeri, è un crollo simbolico che non si spiega fino in fondo se non si attinge al lessico familiare, appunto: lì dove il Partito era famiglia. Delusione amarissima e rimprovero estremo, offesa della fiducia incondizionata, incredulità, esasperazione, reazione. Non capivano, ora vediamo se capiscono.
Ma cosa. Cosa non hanno capito? Beh, che non sarebbe stato per sempre. Che il consenso si coltiva e si guadagna, non è una dote: non è vero, non è più vero che i "tuoi" elettori sono disposti a votare anche una mucca, se metti in lista una mucca. Con tutto il rispetto per animali e umani: è per non fare esempi che potrebbero offendere qualcuno e risparmiare ingiustamente qualcun altro. Che togliere dalle liste le persone popolari e amate dai concittadini per mandare da fuori un "candidato blindato" che deve essere eletto – per ragioni di potere, di corrente: anche basta, davvero, come dicono i ragazzi. Anche no. Perché così tutte le Giuditta Pini (ecco, ho fatto un esempio) sacrificate in base a un incomprensibile manuale Cencelli restituiscono l'idea che lavorare sul campo non serve, la passione non serve, i risultati sono inutili. L'unica cosa che conta è assicurare un posto a gente che "deve" essere eletta. E deve perché? In nome di cosa? Rinnegare l'identità in favore del compromesso, pur di restare al potere e salvare qualche seggio, ti può riservare la sorpresa amara di farti perdere l'uno e l'altro: l'identità, il potere. La scelta difatti questa volta non era fra perdere bene o vincere male. Era come perdere. Se farlo riconquistando la tua natura, le ragioni dell'appartenenza a una comunità, o perdendone ancora con opache manovre a beneficio di uno zero virgola in più, che poi non è venuto. Non poteva venire, sempre con rispetto parlando, da Di Maio – in Emilia. Bibbiano sulla carta geografica resta dov'era, nella memoria pure. Lo spiega molto bene Achille Occhetto, che molti errori avrà fatto nella vita ma è in quella stagione in cui non c'è più niente da perdere a dire quello che pensi, le cose come ti sembra che stiano. Ha detto, in un'intervista a PolicyMaker che trovate online: la colpa del Pd è stata il governismo, il potere ad ogni costo. Riporto. «La sinistra deve capire che è meglio perdere con le proprie idee che governare con quelle degli altri. Ha dato l'idea di essere disposta a governare anche annacquandole o offuscandole. Che è cosa diversa dal fatto che in politica si fanno anche compromessi. I compromessi nobili sono quelli che uno fa se tiene ferma la propria identità, non se la perde». Due cose, mi appunterei, se mi chiamassi Franceschini o Orlando, o Guerini o financo il prossimo pretendente alla segreteria, Bonaccini. Che certamente, se desiderano, possono deridere Occhetto per la sua vecchiaia triste solitaria y final, ma insomma ascoltare non fa mai male. Primo. Perdere con le proprie idee è meglio che governare con quelle degli altri. È seminare un orto, ché questo ora c'è da fare: non conservare le piante avvizzite o mezzo morte, ma farne crescere di nuove. C'è tempo, usarlo bene. Secondo: i compromessi si fanno, in politica, ma a vincere. A conservare la propria identità. Altrimenti sono cambiali da pagare, e si pagano.
Ora che già si parla, da ieri, del prossimo congresso – per esempio. Sarebbe molto bello che chi ha fatto quattro, sei o sedicimila legislature si accontentasse, per così dire, di dare consigli ai prossimi. Non pretendesse di collocare la famiglia e restare intanto al suo eterno posto, o gli assistenti parlamentari e gli allievi meritevoli usati come stagisti a tempo pieno, dunque da ricompensare. Non è così, non è più così che funziona. I figli e i nipoti dell'Emilia e della Toscana rosse lo hanno detto. Una, due, tre volte. Bisogna cambiare il modo in cui funziona il partito, non è sufficiente cambiare segretario. Non penserete mica, al prossimo congresso, di mettervi tutti in fila, nascosti dietro a una Elly Schlein o al "volto nuovo" del momento, per restare in sella. Come avete fatto in passato, con altri e altre giovani promesse ormai invecchiate, inglobate in questa o quella corrente pur di restare nella scia dei loro consensi così da far perdere anche a loro la credibilità, la freschezza, l'autenticità. Ve lo avevano detto. Si erano astenuti, alle regionali: non erano venuti. Non è stato chiaro. Hanno votato Meloni, allora. Se non basta, restano solo i disegni. Il dileggio, le scritte sui muri. Livorno, per le scritte sui muri, è famosa. —

 

mercoledì 28 settembre 2022

La vergogna indicibile degli sconfitti


Cristiano de Majo, Debora Serracchiani e i giorni dell'abbandono del Pd, Rivista Studio, 27 settembre 2022

L’apparizione di Debora Serracchiani nella notte elettorale è stata come un sogno che hai già fatto. Perché è già successo che Debora Serracchiani fosse la prima a uscire dopo un exit poll o una proiezione nefasta, giusto? O forse no, ma è come se Debora Serracchiani fosse sempre stata lì, ad aspettare Masia che ti dà la notizia ferale e qualcun altro che le dice “non c’è nessuno, vai tu…”. La ritrosia nell’accettare la realtà, l’aggrapparsi ai risultati deludenti degli altri (stupendo quando dice «un risultato della Lega sul quale una riflessione dovrà essere fatta anche a destra»), questo look autunnale, introverso, punitivo, un po’ professoressa di liceo, un po’ lettrice della prima ora di Elena Ferrante (I giorni dell’abbandono), ci dicono del Pd, del suo stato di salute e del suo futuro, molto più di quanto non ci abbia detto la sua campagna elettorale, improntata invece a una specie di vitalità autoimposta, forzata. La difficoltà di “sentire” il Paese reale in questa specie di sottotesto costante che è l’elettore a sbagliare se non vota Pd («è un giorno triste per il Paese»), caratteristica postura del dirigente piddino, trova in Debora Serracchiani un esempio particolarmente riuscito. Quello che fa ancora più impressione è il pensiero che la fama della Serrachiani e la sua successiva carriera politica nascono proprio dalla critica ai gruppi dirigenti del Pd per eccessiva autoreferenzialità.
L’anno è il 2009, il luogo è un Assemblea dei circoli del partito successiva alla nomina di Dario Franceschini come segretario dopo le dimissioni di Veltroni per la sconfitta del 2009 (sconfitta che sembrò pesantissima, ma vengono i brividi a pensare che allora il Pd prese circa 13 milioni di voti, mentre il 25 settembre ne ha raccolti 5). Debora Serracchiani, trentanove anni molto ben portati, faccia pulita, frangetta e codino, giacca scamosciata, un’aria da ragazza anni ‘90, sale sul palco e prende la parola per un intervento che sarà interrotto da moltissimi applausi e commentato dalle facce che sembrano divertite e sbalordite di Dario Franceschini e di Goffredo Bettini, che la ascoltano in prima fila. Sono andato a rivederlo, quel discorso, dopo il faticoso cameo del 25 settembre notte, e devo dire che me lo ricordavo diverso. O forse quello che poi avevo conservato nella memoria era il ruolo che era stato attribuito a Debora Serracchiani, cioè quello di essere un po’ la rappresentante di un Pd giovane e arrembante ferocemente critico verso la casta che lo stava portando a sbattere. Una specie di seguito del famoso «con questi dirigenti non vinceremo mai» di Nanni Moretti (era il 2002, ci pensate?). E invece non proprio. Quello di Debora Serracchiani fu un discorso critico sì, ma in fondo affettuoso, certamente non distruttivo, per niente radicale. Era un discorso che in sostanza invocava unità e compattezza, in cui si invitava ad abbandonare il personalismo dei dirigenti, si criticava e un po’ si invidiava la strategia di Di Pietro, si censurava lo spazio lasciato alla componente di minoranza più cattolica e conservatrice. Ma era anche un discorso in cui si lisciava il pelo al neo segretario Franceschini: «Tu hai un compito difficile perché non sei un volto nuovo, però hai il compito di dare una credibilità a questo partito e ci stai riuscendo alla grande».
Così, subito diventata ex ribelle, Debora Serracchiani fa la sua carriera: europarlamentare “Franceschini candida l’Amelie del Pd”, titolava il Corriere), poi Presidente del Friuli-Venezia Giulia, poi vicepresidente del partito e altro ancora. Tredici anni dopo quella stessa casta, quella di Franceschini, Bettini, è ancora in piedi. Nessuno di loro la notte del 25 settembre appare in video. “Non c’è nessuno, vai tu…” E Debora Serracchiani si ritrova a commentare con difficoltà e senza alcuna autocritica una sconfitta inequivocabile. Una vendetta feroce o forse soltanto un contrappasso. Ma è una parabola che “spiega” il Pd meglio di molte analisi.