sabato 22 ottobre 2022

Che cosa è stato l'antifascismo

 

Due sono state le novità importanti che hanno accompagnato l'ascesa di Giorgia Meloni al potere. Una è stata la caduta finale del primato berlusconiano a destra. Basterebbe una sequenza fotografica a illustrare il fenomeno. Berlusconi che esce dal palazzo del Quirinale dopo che la delegazione della maggioranza è stata ricevuta dal Presidente della Repubblica e fa il suo ingresso nel cortile. Fisicamente, è l'ombra di se stesso, non si regge in piedi da solo, viene sorretto da Salvini, mentre tenta di appoggiare una mano sulla spalla di Giorgia Meloni, che subito si sottrae alla manovra. L'altra novità è rappresentata dalla caduta temporanea del paradigma antifascista che sembrava ancora dotato di una certa forza alla vigilia delle elezioni. Già al tempo di Fini gli eredi della Repubblica sociale, l'antico MSI diventato Alleanza Nazionale, avevano assunto l'antifascismo tra i loro valori di riferimento. Con Giorgia Meloni possiamo dire che, se l'antifascismo viene meno, neppure il fascismo si porta più tanto bene. Niente di grave: l'adesione alla democrazia resta per ora un elemento costitutivo dello spirito repubblicano nel paese. Succede quello che è successo con il richiamo al trinomio Liberté Egalité Fraternité in Francia. Per i giovani immigrati delle banlieues era diventato uno slogan di facciata, mentre per la destra era ormai privo di una efficacia pratica, vista la spaccatura ormai intervenuta su questo tra le forze politiche. Gli ideali che non si rinnovano tendono a diventare bandiere storiche senza un rapporto vitale con i sentimenti delle masse. Altra cosa è la lezione storica contenuta nella vecchia formula «Il re è morto, viva il re!». L'antifascismo è pronto a rinascere dalla sue ceneri, come dimostra il discorso della signora Liliana Segre al Senato. Deve solo trovare una nuova linfa nel rinnovo dei contenuti, dei riferimenti ideali e delle politiche.

Memoria pubblica dell’antifascismo 

Nicola Gallerano, Le verità della storia, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 89-93   

A differenza del caso francese, dove la Quarta Repubblica poteva contare su radici più lontane e
sedimentate, e di quello tedesco, dove l’antifascismo dei vertici politici costituiva poco più del
riconoscimento della sconfitta subita, in Italia l’antifascismo è stato [...] il fondamento stesso della
Carta costituzionale e lo strumento ideologico di legittimazione reciproca tra le forze politiche che
in quella tradizione si riconoscevano. [...in questo senso] l’antifascismo è stato in Italia una
importante componente ideologica della opposizione politica e sociale, un fattore di identità e un
potenziale di mobilitazione, che hanno agito con continuità fino alla metà degli anni Settanta,
basandosi su e al tempo stesso irrobustendo le sue radici di massa. [...]
In altre parole, l’antifascismo è stato, in fasi diverse della storia del dopoguerra, ora al potere, ora
all’opposizione: non è stato puramente e semplicemente l’ideologia dei vincitori, come sostengono i
suoi detrattori, ma non è stato neppure il fondamento indiscusso dell’identità nazionale, il tramite,
nel bene e nel male, di una costruzione di “cittadinanza”.
Una periodizzazione del suo diverso ruolo e della sua diversa fortuna è stata proposta qualche anno
fa [...] e può qui essere riconfermata. In sintesi, dopo il ’48 e per tutti gli anni Cinquanta, dominati
dalla contrapposizione ideologica e politica tra comunismo e anticomunismo, si assiste a una più o
meno tacita emarginazione dell’antifascismo da parte delle coalizioni di governo.
Gli anni Sessanta – che si aprono con i fatti del luglio – sono gli anni della ripresa di massa
dell’antifascismo e insieme della sua nuova legittimazione istituzionale.
Gli anni che vanno dal 1968 alla metà degli anni Settanta conoscono infine il massimo sviluppo
dell’iniziativa che si richiama all’antifascismo ma anche i primi segnali di logoramento.
Si apre allora una fase di crisi dell’antifascismo [...].
Antonio Baldassarre ha spiegato come negli anni della solidarietà nazionale, nel 1976-1979, il
paradigma antifascista abbia esaurito la sua funzione di strumento di legittimazione dei partiti
dell’arco costituzionale, estendendola al Pci.
Negli stessi anni, anche l’antifascismo come ideologia dell’opposizione sociale subisce duri colpi.
Non solo per la sconfitta del movimento del 1968 che in quegli anni si consuma. Ma perché il
richiamo all’antifascismo suonò allora paradossalmente ambiguo: esso venne surrettiziamente
richiamato dal terrorismo “rosso” come proprio antecedente storico e insieme evocato dai partiti
dell’arco costituzionale come fondamento dell’unità nazionale contro l’emergenza.
L’effetto che ne uscì è difficile da sottovalutare, perché il terrorismo rosso colpiva il radicato
convincimento, confermato fino allora da tutta la storia post-bellica, che l’eversione avesse un
segno esclusivo di destra; e perché la nuova situazione aveva l’effetto di deprimere forme
collaudate di attivizzazione e presenza sociale che nel nome dell’antifascismo si erano coagulate.
Sia pure con un decennio di ritardo [rispetto agli altri stati europei], negli anni Ottanta, anche in
Italia dunque si fanno evidenti i processi di diaspora della tradizione antifascista e resistenziale [...].
Negli anni ’80, inoltre, inizia ad avere spazio e corso l’identificazione dell’antifascismo quale
supporto ideologico del sistema dei partiti e della I repubblica, mentre viene sviluppato il tema della
contrapposizione tra antifascismo, inquinato dalla presenza nel suo seno del totalitarismo
comunista, e democrazia. D’altra parte l’antifascismo non costituisce più l’asse privilegiato della
strategia del Pci, alle prese con un difficile e ambiguo tentativo di ridefinire la sua cultura e la sua
collocazione nel sistema politico.
Questo processo è stato certamente segnato da palesi strumentalizzazioni e da vere e proprie offese
alla verità storica. A parte le compiacenti e consolatorie immagini del fascismo che l’universo dei
media è venuto massicciamente esibendo, è persino mortificante o stucchevole dover ribadire che nel nostro paese l’antifascismo è stato storicamente lo strumento di passaggio alla democrazia moderna: un sistema di regole ma anche un terreno per allargare i confini della trasformazione possibile verso l’uguaglianza e la giustizia sociale; e che l’antifascismo, rifiutando il fascismo, rifiutava l’aggressione esterna e la repressione istituzionalizzata interna. Ma non va neppure passato sotto silenzio che nel corso degli stessi anni Ottanta questo processo ha avuto anche effetti liberatori: rivelando la pluralità e non omogeneità delle componenti dell'antifascismo, eliminando l'equivoco di una sua strumentale utilizzazione da parte del Pci, aprendo la strada a una riflessione più consapevole e matura, e talvolta anche più radicale, sul fascismo. Penso ai risultati di ricerche sulla memoria della deportazione in Germania e alla messa in discussione del luogo comune dell'«italiano brava gente» e dunque agli effetti non superficiali della ideologia e della propaganda del regime. Penso alla ricerca esemplare di Claudio Pavone, e alla sua capacità di rivisitare senza pregiudizi e insieme senza rovesciare i termini del giudizio storico e politico un pezzo di storia lacerante e intricatissimo sul piano delle scelte morali ed esistenziali.
La comparazione sviluppata nella prospettiva della fine del dopoguerra ha messo dunque in luce
percorsi differenziati ma anche alcuni trend comuni. In particolare ha mostrato una tendenza al
logoramento della tradizione antifascista: un processo che si è sviluppato con aspetti e tempi diversi
nei tre paesi [Francia Germania, Italia].
Esistono d'altra parte elementi comuni ai tre casi su cui vale la pena di svolgere una riflessione
conclusiva. Abbiamo ricordato il paradosso di una fine del dopoguerra che al tempo stesso conosce
l'ossessione della memoria del fascismo. Da questo punto di vista, il dopoguerra non è finito. Non è
finito perché le ferite della memoria e la loro riattivazione non sono esaurite. Nel caso francese, è
stata la memoria ebraica, a grande distanza degli eventi, negli anni Settanta, a riaprire il contenzioso
del razzismo e della sua attualità. Nel caso tedesco, è il dibattito sul passato nazista a fornire
alimento al conflitto sui contenuti dell'identità collettiva. Anche nel caso italiano, che appare oggi
quello dove l'intreccio tra memoria storica e suo uso politico appare più strumentale e insieme più
superficiale, abbiamo rilevato l'esistenza di importanti controtendenze. Sono d'altra parte gli stessi
nuovi processi storici a provocare antichi mali - il razzismo, la sopraffazione, la diseguaglianza, la
violenza - e ad aprire - imprevedibilmente - la strada a memorie compresse o soffocate.



 

 

 

 

 



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