Due sono state le novità importanti che hanno accompagnato l'ascesa di Giorgia Meloni al potere. Una è stata la caduta finale del primato berlusconiano a destra. Basterebbe una sequenza fotografica a illustrare il fenomeno. Berlusconi che esce dal palazzo del Quirinale dopo che la delegazione della maggioranza è stata ricevuta dal Presidente della Repubblica e fa il suo ingresso nel cortile. Fisicamente, è l'ombra di se stesso, non si regge in piedi da solo, viene sorretto da Salvini, mentre tenta di appoggiare una mano sulla spalla di Giorgia Meloni, che subito si sottrae alla manovra. L'altra novità è rappresentata dalla caduta temporanea del paradigma antifascista che sembrava ancora dotato di una certa forza alla vigilia delle elezioni. Già al tempo di Fini gli eredi della Repubblica sociale, l'antico MSI diventato Alleanza Nazionale, avevano assunto l'antifascismo tra i loro valori di riferimento. Con Giorgia Meloni possiamo dire che, se l'antifascismo viene meno, neppure il fascismo si porta più tanto bene. Niente di grave: l'adesione alla democrazia resta per ora un elemento costitutivo dello spirito repubblicano nel paese. Succede quello che è successo con il richiamo al trinomio Liberté Egalité Fraternité in Francia. Per i giovani immigrati delle banlieues era diventato uno slogan di facciata, mentre per la destra era ormai privo di una efficacia pratica, vista la spaccatura ormai intervenuta su questo tra le forze politiche. Gli ideali che non si rinnovano tendono a diventare bandiere storiche senza un rapporto vitale con i sentimenti delle masse. Altra cosa è la lezione storica contenuta nella vecchia formula «Il re è morto, viva il re!». L'antifascismo è pronto a rinascere dalla sue ceneri, come dimostra il discorso della signora Liliana Segre al Senato. Deve solo trovare una nuova linfa nel rinnovo dei contenuti, dei riferimenti ideali e delle politiche.
Memoria pubblica dell’antifascismo
Nicola Gallerano, Le verità della storia, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 89-93
A
differenza del caso francese, dove la Quarta Repubblica poteva
contare su radici più lontane e
sedimentate,
e di quello tedesco, dove l’antifascismo dei vertici politici
costituiva poco più del
riconoscimento
della sconfitta subita, in Italia l’antifascismo è stato [...] il
fondamento stesso della
Carta
costituzionale e lo strumento ideologico di legittimazione reciproca
tra le forze politiche che
in
quella tradizione si riconoscevano. [...in questo senso]
l’antifascismo è stato in Italia una
importante
componente ideologica
della
opposizione politica e sociale, un fattore di identità e
un
potenziale
di mobilitazione, che hanno agito con continuità fino alla metà
degli anni Settanta,
basandosi
su e al tempo stesso irrobustendo le sue radici di massa. [...]
In
altre parole, l’antifascismo è stato, in fasi diverse della storia
del dopoguerra, ora al potere, ora
all’opposizione:
non è stato puramente e semplicemente l’ideologia dei vincitori,
come sostengono i
suoi
detrattori, ma non è stato neppure il fondamento indiscusso
dell’identità nazionale, il tramite,
nel
bene e nel male, di una costruzione di “cittadinanza”.
Una
periodizzazione del suo diverso ruolo e della sua diversa fortuna è
stata proposta qualche anno
fa
[...] e può qui essere riconfermata. In sintesi, dopo il ’48 e per
tutti gli anni Cinquanta, dominati
dalla
contrapposizione ideologica e politica tra comunismo e anticomunismo,
si assiste a una più o
meno
tacita emarginazione dell’antifascismo da parte delle coalizioni di
governo.
Gli
anni Sessanta – che si aprono con i fatti del luglio – sono gli
anni della ripresa di massa
dell’antifascismo
e insieme della sua nuova legittimazione istituzionale.
Gli
anni che vanno dal 1968 alla metà degli anni Settanta conoscono
infine il massimo sviluppo
dell’iniziativa
che si richiama all’antifascismo ma anche i primi segnali di
logoramento.
Si
apre allora una fase di crisi dell’antifascismo [...].
Antonio
Baldassarre ha spiegato come negli anni della solidarietà nazionale,
nel 1976-1979, il
paradigma
antifascista abbia esaurito la sua funzione di strumento di
legittimazione dei partiti
dell’arco
costituzionale, estendendola al Pci.
Negli
stessi anni, anche l’antifascismo come ideologia dell’opposizione
sociale subisce duri colpi.
Non
solo per la sconfitta del movimento del 1968 che in quegli anni si
consuma. Ma perché il
richiamo
all’antifascismo suonò allora paradossalmente ambiguo: esso venne
surrettiziamente
richiamato
dal terrorismo “rosso” come proprio antecedente storico e insieme
evocato dai partiti
dell’arco
costituzionale come fondamento dell’unità nazionale contro
l’emergenza.
L’effetto
che ne uscì è difficile da sottovalutare, perché il terrorismo
rosso colpiva il radicato
convincimento,
confermato fino allora da tutta la storia post-bellica, che
l’eversione avesse un
segno
esclusivo di destra; e perché la nuova situazione aveva l’effetto
di deprimere forme
collaudate
di attivizzazione e presenza sociale che nel nome dell’antifascismo
si erano coagulate.
Sia
pure con un decennio di ritardo [rispetto agli altri stati europei],
negli anni Ottanta, anche in
Italia
dunque si fanno evidenti i processi di diaspora della tradizione
antifascista e resistenziale [...].
Negli
anni ’80, inoltre, inizia ad avere spazio e corso l’identificazione
dell’antifascismo quale
supporto
ideologico del sistema dei partiti e della I repubblica, mentre viene
sviluppato il tema della
contrapposizione
tra antifascismo, inquinato dalla presenza nel suo seno del
totalitarismo
comunista,
e democrazia. D’altra parte l’antifascismo non costituisce più
l’asse privilegiato della
strategia
del Pci, alle prese con un difficile e ambiguo tentativo di
ridefinire la sua cultura e la sua
collocazione
nel sistema politico.
Questo
processo è stato certamente segnato da palesi strumentalizzazioni e
da vere e proprie offese
alla
verità storica. A parte le compiacenti e consolatorie immagini del
fascismo che l’universo dei
media
è venuto massicciamente esibendo, è persino mortificante o
stucchevole dover ribadire che nel
nostro paese l’antifascismo è stato storicamente lo strumento di
passaggio alla democrazia moderna:
un sistema di regole ma anche un terreno per allargare i confini
della trasformazione possibile
verso l’uguaglianza e la giustizia sociale; e che l’antifascismo,
rifiutando il fascismo, rifiutava
l’aggressione esterna e la repressione istituzionalizzata
interna. Ma
non va neppure passato sotto silenzio che nel corso degli stessi anni
Ottanta questo processo ha avuto
anche effetti liberatori: rivelando la pluralità e non omogeneità
delle componenti dell'antifascismo,
eliminando l'equivoco di una sua strumentale utilizzazione da parte
del Pci, aprendo
la strada a una riflessione più consapevole e matura, e talvolta
anche più radicale, sul fascismo.
Penso ai risultati di ricerche sulla memoria della deportazione in
Germania e alla messa in discussione
del luogo comune dell'«italiano brava gente» e dunque agli effetti
non superficiali della ideologia
e della propaganda del regime. Penso alla ricerca esemplare di
Claudio Pavone, e alla sua capacità
di rivisitare senza pregiudizi e insieme senza rovesciare i termini
del giudizio storico e politico
un pezzo di storia lacerante e intricatissimo sul piano delle scelte
morali ed esistenziali.
La
comparazione sviluppata nella prospettiva della fine del dopoguerra
ha messo dunque in luce
percorsi
differenziati ma anche alcuni trend comuni. In particolare ha
mostrato una tendenza al
logoramento
della tradizione antifascista: un processo che si è sviluppato con
aspetti e tempi diversi
nei
tre paesi [Francia Germania, Italia].
Esistono
d'altra parte elementi comuni ai tre casi su cui vale la pena di
svolgere una riflessione
conclusiva.
Abbiamo ricordato il paradosso di una fine del dopoguerra che al
tempo stesso conosce
l'ossessione
della memoria del fascismo. Da questo punto di vista, il dopoguerra
non è finito. Non è
finito
perché le ferite della memoria e la loro riattivazione non sono
esaurite. Nel caso francese, è
stata
la memoria ebraica, a grande distanza degli eventi, negli anni
Settanta, a riaprire il contenzioso
del
razzismo e della sua attualità. Nel caso tedesco, è il dibattito
sul passato nazista a fornire
alimento
al conflitto sui contenuti dell'identità collettiva. Anche nel caso
italiano, che appare oggi
quello
dove l'intreccio tra memoria storica e suo uso politico appare più
strumentale e insieme più
superficiale,
abbiamo rilevato l'esistenza di importanti controtendenze. Sono
d'altra parte gli stessi
nuovi
processi storici a provocare antichi mali - il razzismo, la
sopraffazione, la diseguaglianza, la
violenza
- e ad aprire - imprevedibilmente - la strada a memorie compresse o
soffocate.
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