lunedì 22 giugno 2015

Rebecca al pozzo: il momento dell'investitura divina

Non so se un commentatore biblico ha mai pensato a ‪ Cenerentola per questa scena. Eppure la sostanza è quella. La scelta è caduta su di lei e lei ne è consapevole. Poteva allontanare la mano del destino dal suo capo. Non lo ha fatto. Che poi sia per sempre o per un momento, dopo mai più nulla sarà come prima. Nella fiaba il principe fa tutto da solo, qui ci si mettono in tre, il messo, il padreterno e l'angelo. (g.c.)

Genesi 24

 

1 Abramo era ormai vecchio, avanti negli anni, e il Signore lo aveva benedetto in ogni cosa. 2 Allora Abramo disse al suo servo, il più anziano della sua casa, che aveva potere su tutti i suoi beni: «Metti la mano sotto la mia coscia 3 e ti farò giurare per il Signore, Dio del cielo e Dio della terra, che non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, in mezzo ai quali abito, 4 ma che andrai al mio paese, nella mia patria, a scegliere una moglie per mio figlio Isacco». 5 Gli disse il servo: «Se la donna non mi vuol seguire in questo paese, dovrò forse ricondurre tuo figlio al paese da cui tu sei uscito?». 6 Gli rispose Abramo: «Guardati dal ricondurre là mio figlio! 7 Il Signore, Dio del cielo e Dio della terra, che mi ha tolto dalla casa di mio padre e dal mio paese natio, che mi ha parlato e mi ha giurato: Alla tua discendenza darò questo paese, egli stesso manderà il suo angelo davanti a te, perché tu possa prendere di là una moglie per il mio figlio. 8 Se la donna non vorrà seguirti, allora sarai libero dal giuramento a me fatto; ma non devi ricondurre là il mio figlio».
9 Allora il servo mise la mano sotto la coscia di Abramo, suo padrone, e gli prestò giuramento riguardo a questa cosa. 10 Il servo prese dieci cammelli del suo padrone e, portando ogni sorta di cose preziose del suo padrone, si mise in viaggio e andò nel Paese dei due fiumi, alla città di Nacor. 11 Fece inginocchiare i cammelli fuori della città, presso il pozzo d'acqua, nell'ora della sera, quando le donne escono ad attingere. 12 E disse: «Signore, Dio del mio padrone Abramo, concedimi un felice incontro quest'oggi e usa benevolenza verso il mio padrone Abramo! 13 Ecco, io sto presso la fonte dell'acqua, mentre le fanciulle della città escono per attingere acqua. 14 Ebbene, la ragazza alla quale dirò: Abbassa l'anfora e lasciami bere, e che risponderà: Bevi, anche ai tuoi cammelli darò da bere, sia quella che tu hai destinata al tuo servo Isacco; da questo riconoscerò che tu hai usato benevolenza al mio padrone». 15 Non aveva ancora finito di parlare, quand'ecco Rebecca, che era nata a Betuèl figlio di Milca, moglie di Nacor, fratello di Abramo, usciva con l'anfora sulla spalla. 16 La giovinetta era molto bella d'aspetto, era vergine, nessun uomo le si era unito. Essa scese alla sorgente, riempì l'anfora e risalì. 17 Il servo allora le corse incontro e disse: «Fammi bere un po' d'acqua dalla tua anfora». 18 Rispose: «Bevi, mio signore». In fretta calò l'anfora sul braccio e lo fece bere. 19 Come ebbe finito di dargli da bere, disse: «Anche per i tuoi cammelli ne attingerò, finché finiranno di bere». 20 In fretta vuotò l'anfora nell'abbeveratoio, corse di nuovo ad attingere al pozzo e attinse per tutti i cammelli di lui. 21 Intanto quell'uomo la contemplava in silenzio, in attesa di sapere se il Signore avesse o no concesso buon esito al suo viaggio. 22 Quando i cammelli ebbero finito di bere, quell'uomo prese un pendente d'oro del peso di mezzo siclo e glielo pose alle narici e le pose sulle braccia due braccialetti del peso di dieci sicli d'oro. 23 E disse: «Di chi sei figlia? Dimmelo. C'è posto per noi in casa di tuo padre, per passarvi la notte?». 24 Gli rispose: «Io sono figlia di Betuèl, il figlio che Milca partorì a Nacor». 25 E soggiunse: «C'è paglia e foraggio in quantità da noi e anche posto per passare la notte».

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Personaggio del libro biblico della Genesi. Figlia di Betuel e sorella di Labano, Rebecca è la sposa destinata ad Isacco: bella e vergine appartiene alla stessa famiglia di Isacco. Subito si distingue perché, scesa sul far della sera ad attingere l’acqua al pozzo, sollecitamente offre da bere al servo di Abramo, ch’è stato inviato a cercare una moglie per Isacco (Gen 24), un tratto che la tradizione giudaica successiva enfatizzerà (cfr. Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche I, 246). È questo il gesto rivelatore, attraverso il quale Rebecca verrà riconosciuta come la moglie prescelta (Gen 24,14).
La storia di Rebecca si snoda, dunque, a partire da questo incontro iniziale, che è decisivo per il successivo sviluppo della vicenda. Non è un caso allora che il racconto genesiaco dedichi ad esso persino più spazio che allo stesso incontro con Isacco, scandito com’è dall’atteggiamento solerte della donna che si affretta a procurare l’acqua anche per i cammelli e a offrire ospitalità, e dalla solennità con cui il servo la ricambia donandole preziosi monili (Gen 24,22). Il personaggio, poi, si arricchisce di ulteriori connotazioni, alcune in comune con altre figure femminili della Bibbia. Esposta per la sua bellezza ai pericoli che aveva corso Sara (Gen 26,1-11; cfr. Gen 12,20) e, come questa, sterile (Gen 25,21), Rebecca diverrà, infine, madre di due gemelli tra loro in competizione: Esaù e Giacobbe. Complice del secondo, Rebecca dimostrerà una certa spregiudicatezza nel favorire Giacobbe fino a consigliargli di ingannare il padre facendosi credere Esaù, per strappargli la benedizione prima della morte (Gen. 27,6-17). Rebecca, dunque, oltreché bella e generosa, non è sprovvista di una certa astuzia e giuoca un ruolo decisivo nell’assecondare i destini del futuro Israele.

Letteratura europea Utet

Gb Tiepolo

domenica 21 giugno 2015

La rete come labirinto

Emanuele Trevi
L'ossessione del labirinto
Corriere della Sera La Lettura, 21 giugno 2015




Si potrebbe definire la rete come un labirinto malato, e in ogni modo privo di una delle sue funzioni fondamentali, quell'inversione di marcia che consente di raggiungere l'uscita. Perché, come tutti sappiamo, la rete nonè un organo, e cresce semplicemente per addizione, nodo dopo nodo e connessione dopo connessione. Tutta intenta a estendersi e a replicare a se stessa, non ha previsto nessuna via d'uscita, nessun punto di svolta. Può venire assimilata al labirinto solo in via approssimativa e superficiale, perché volenti o nolenti ci si perde nella sua complessità. Ma la pianta di qualunque labirinto, dalle spirali cinesi a Franco Maria Ricci, vi rivelerà la volontà di produrre una forma, che è sempre qualcosa di limitato, dotato di confini che si oppongono a tutto il resto.
La forza della rete, al contrario consiste proprio nella sua mancanza di forma e di confini, che la rendono particolarmente atta allo scopo che persegue, che è quello di sostituirsi al mondo, relegandolo al ruolo di un semplice supporto materiale, di un gigantesco e obsoleto hardware. E di fronte a questa potenza. [...] la "resa" sembra l'unica possibilità. Perché l'esperienza spirituale sottesa ad ogni labirinto comportava la possibilità di un'esperienza di trasformazione totale, di seconda nascita. Dove c'era l'iniziazione oggi c'è il suo contrario, l'informazione. E non sta scritto da nessuna parte, dopo tutto, che tutto questo sia destinato a impoverire la vita degli uomini. Anche perché tutto quello che accade nel mondo, in senso collettivo, ha certamente la sua verità, ma non necessariamente coincide con quello che accade nei singoli individui. I singoli individui sono sempre più lenti o più veloci dell'umanità alla quale appartengono. Ed è proprio lì che il labirinto ha trovato il suo rifugio [...]. 
 


sabato 20 giugno 2015

Charleston, Ventimiglia: gente fuori posto

Alessandro Portelli
Charleston, South Carolina
il manifesto, 20 giugno 2015



Prima di ini­ziare il mas­sa­cro, Dylann Roof ha detto ai fedeli neri della Ema­nuel Afri­can Metho­dist Epi­sco­pal Church di Char­le­ston, South Caro­lina: «stu­prate le nostre donne e vi state impa­dro­nendo dell’America». Sono due para­noie diverse — la ses­sua­lità e il potere — con­no­tate da epo­che diverse ma infine con­nesse da un sot­to­fondo di senso. La figura del nero vio­len­ta­tore affonda radici pro­fonde nella sto­ria, e que­sto le dà oggi un curioso sapore ana­cro­ni­stico. È vero che non è mai del tutto scom­parsa dall’immaginario ame­ri­cano (e nean­che dal nostro): la cam­pa­gna elet­to­rale che portò all’elezione di Bush padre nel 1988 fu tutta imper­niata sulla figura di Wil­lie Hor­ton, un afroa­me­ri­cano che, in libera uscita dal car­cere, aveva vio­len­tato una donna bianca. Tut­ta­via, rin­via soprat­tutto agli anni dei lin­ciaggi di massa, fra la guerra civile e gli anni ’30, ed è stata rela­ti­va­mente meno pre­sente in epoca più recente. Il fatto che Roof l’abbia rie­su­mata rivela da quali paure ata­vi­che è stato mosso, in quali pro­fon­dità oscure è andato a pescare. L’idea che i neri stiano impa­dro­nen­dosi dell’America invece è stret­ta­mente legata alla con­tem­po­ra­neità. La pre­si­denza Obama, lungi dal segnare il supe­ra­mento delle ten­sioni raz­ziali, ha finito per acu­tiz­zarle, gene­rando la con­vin­zione che i neri stiano pren­dendo il potere e si pre­pa­rino a ridurre i bian­chi a cit­ta­dini di seconda classe. Inten­zio­nale o meno, anche l’ondata di assas­si­nii di neri da parte della poli­zia fa parte di que­sto qua­dro para­noico. La visione del mondo dei «supre­ma­ti­sti» bian­chi non ammette vie di mezzo coe­si­stenze, sfu­ma­ture: se non domi­niamo noi, domi­ne­ranno loro. Per que­sto, ogni volta che il potere bianco viene sia pure mini­ma­mente intac­cato, è per­ce­pito come l’inizio di un capo­vol­gi­mento apo­ca­lit­tico. E poche migliaia di pro­fu­ghi rap­pre­sen­tano un’«invasione» agli occhi di un Europa bianca paranoica. Quello che tiene insieme que­ste due para­noie sto­ri­ca­mente diverse è l’ossessione della purezza. L’atavica para­noia dello stu­pro si col­lega al ter­rore della misce­ge­na­tion, la «mesco­lanza» che con­ta­mina la purezza del «san­gue» della stirpe domi­nante. Nell’ideologia raz­ziale ame­ri­cana, basta avere un sedi­ce­simo di «san­gue» nero per essere con­si­de­rati cento per cento neri. La moderna osses­sione per la «con­qui­sta» o l’«invasione» nera è anch’essa fon­data su un ana­logo ter­rore della con­ta­mi­na­zione : basta che i neri otten­gano un fram­mento di potere per­ché l’intera sfera del potere sia per­ce­pita come spor­cata e impura. Se è vero che lo sporco è «mate­ria fuori posto», ebbene, niente è più fuori posto di Trey­vor Mar­tin in un quar­tiere per bian­chi o di un nero alla Casa Bianca. I puri devono cor­rere ai ripari. Per que­sti motivi mi sem­bra mal posta la domanda se il ter­ro­ri­sta Dylann Roof sia un iso­lato o fac­cia parte di un’organizzazione. Anche se avesse agito tutto da solo, comun­que non è un iso­lato, per­ché è espres­sione di una pato­lo­gia dif­fusa e atti­va­mente col­ti­vata da media e poli­tici di destra. Non è comun­que iso­lato il suo gesto. Forse ce ne siamo già scor­dati, nel suc­ce­dersi inces­sante di tra­ge­die di cro­naca, ma nel 2012 un altro ter­ro­ri­sta bianco è entrato un tem­pio Sikh nel Wiscon­sin e ha ammaz­zato sei per­sone: odiava gli arabi e i musul­mani, che i Sikh non fos­sero né l’uno né l’altro era irri­le­vante. Erano comun­que gente fuori posto nell’America bianca e cri­stiana, come sono fuori posto tutti i migranti, accam­pati sugli sco­gli di Ven­ti­mi­glia o attorno alle sta­zioni di Roma o di Milano (e la nostrana osses­sione della purezza si è inven­tata pure l’emergenza scabbia). Non è un gesto iso­lato non solo per­ché, come in tanti hanno ricor­dato, echeg­gia la strage di Bir­min­gham, Ala­bama, le quat­tro bam­bine uccise in chiesa da una bomba ter­ro­ri­sta bianca nel 1963, ma anche per­ché – e anche que­sto fati­chiamo a ricor­dar­celo – a metà anni ’90 l’America fu segnata da un’ondata di incendi dolosi di chiese nere. E c’è da doman­darsi che rela­zione esi­sta fra l’ossessione dello sporco e l’aggressione ripe­tuta al sacro. Char­le­ston, dove è suc­cessa que­sta strage, è un posto un po’ spe­ciale. Al tempo della schia­vitù, il South Caro­lina era l’unico stato in cui i neri fos­sero mag­gio­ranza. Fu qui che nel 1821 l’ex schiavo Den­mark Vesey e un gruppo di suoi com­pa­gni orga­niz­za­rono il più impor­tante ten­ta­tivo di rivolta della sto­ria della schia­vitù – impor­tante non tanto per quello che fecero (furono sco­perti e uccisi prima di poter agire) quanto per quello che pen­sa­vano. Orien­tata verso il Sud, verso i Caraibi, Char­le­ston era «con­ta­mi­nata» dalle idee rivo­lu­zio­na­rie e di libe­ra­zione che arri­va­vano dall’appena com­piuta rivo­lu­zione di Haiti. Den­mark Vesey era stato in con­tatto con i mari­nai hai­tiani, cono­sceva il pen­siero della rivo­lu­zione fran­cese. Nella raf­fi­nata rea­zio­na­ria Char­le­ston, gli schiavi e gli ex schiavi erano i por­ta­tori delle idee di moder­nità e di libertà. Oggi, sta ai loro discen­denti sal­vare un senso di uma­nità di cui sem­pre più, ogni giorno, per­diamo le tracce. 

 


venerdì 19 giugno 2015

Carlo Rovelli, la bellezza e il mistero del mondo



Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente: il Requiem di Mozart, l'Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear... Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo anche l'aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi. 



 



 


























La natura è la nostra casa e nella natura siamo a casa. Questo mondo strano, variopinto e stupefacente che esploriamo, dove lo spazio si sgrana, il tempo non esiste e le cose possono non essere in nessun luogo, non è qualcosa che ci allontana da noi: è solo ciò che la nostra naturale curiosità ci mostra della nostra casa. Della trama di cui siamo fatti noi stessi. Noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo.
Lucrezio lo dice con parole meravigliose:

... siamo tutti nati dal seme celeste;
tutti abbiamo lo stesso padre,
da cui la terra, la madre che ci alimenta,
riceve limpide gocce di pioggia,
e quindi produce il luminoso frumento,
e gli alberi rigogliosi,
e la razza umana, e le stirpi delle fiere,
offrendo i cibi con cui tutti nutrono i corpi,
per condurre una vita dolce
e generare la prole...
(II, 991-997)

Per natura amiamo e siamo onesti. E per natura vogliamo sapere di più. E continuiamo ad imparare. La nostra conoscenza del mondo continua a crescere. Ci sono frontiere, dove stiamo imparando e brucia il nostro desiderio di sapere. Sono nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nel fato dei buchi neri, e nel funzionamento del nostro stesso pensiero.
Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l'oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato.


Carlo Rovelli
Sette brevi lezioni di fisica
Adelphi, Milano 2014, pp. 14-15 e 84-85. 



mercoledì 17 giugno 2015

Emmanuel Lévinas, L'entusiasmo, il Desiderio, l'infinito, ossia il rapporto con l'Altro

Emmanuel Lévinas
Totalità e infinito
Jaca Book, Milano 1990




L'essere posseduti da un dio - l'entusiasmo - non è l'irrazio­nale, ma la fine del pensiero solitario (che più avanti chiameremo « eco­nomico ») o interiore, inizio di una vera esperienza del nuovo e del nou­meno — già Desiderio.
... L'infinito nel finito, il più nel meno che si attua attraverso l'idea dell'Infinito, si produce come Desiderio. Non come un Desiderio che è appagato dal possesso del Desiderabile, ma come il Desiderio dell'Infinito che è suscitato dal Desiderabile inve­ce di esserne soddisfatto. Desiderio perfettamente disinteressato - bontà. Ma il Desiderio e la bontà presuppongono concretamente una relazione nella quale il Desiderabile ferma la « negatività » dell'Io che si esplica nel Medesimo, il potere, l'influenza. Il che si produce positivamente nel possesso di un mondo di cui posso fare dono ad Altri, cioè come una presenza di fronte ad un volto. Infatti la presenza di fronte ad un volto, il mio orientamento verso Altri può perdere l'avidità dello sguardo solo mutandosi in generosità, incapace di andare incontro all'altro a mani vuote. Questa relazione al di sopra delle cose ormai possibilmente co­muni, cioè suscettibili di essere dette - è la relazione del discorso. Ora, noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l'Altro, che supera l'idea dell'Altro in me. Questo modo non consiste nell'assumere, di fronte al mio sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qua­lità che formano un'immagine. Il volto d'Altri distrugge ad ogni istante, e oltrepassa l'immagine plastica che mi lascia, l'idea a mia misura e a mi­sura del suo ideatum - l'idea adeguata. 
Tra una filosofia della trascendenza che situa altrove la vera vita cui l'uomo avrebbe accesso, sfuggendo da questo mondo, negli istanti privi­legiati dell'elevazione liturgica e mistica o nella morte - e una filosofia dell'immanenza secondo la quale ci si può impadronire veramente dell'essere solo quando ogni «altro» (causa di guerra), inglobato dal Me­desimo, svanisce al termine della storia, noi ci proponiamo di descrivere, nello svolgersi dell'esistenza terrena, di quella che noi chiamiamo esi­stenza economica, una relazione con l'Altro che non porta ad una tota­lità divina od umana, una relazione che non è una totalizzazione della storia, ma l'idea dell'infinito. Questa relazione è proprio la metafisica. La storia non sarebbe il piano privilegiato nel quale si manifesta l'essere liberato dal particolarismo dei punti di vista di cui la riflessione porte­rebbe ancora la tara. Se pretende di integrare me e l'altro in uno spirito impersonale, questa pretesa integrazione è crudeltà ed ingiustizia, cioè ignora Altri. La storia, rapporto tra uomini, ignora una posizione dell'Io verso l'Altro nella quale l'Altro resti trascendente rispetto a me. Se non sono già per conto mio esterno alla storia, trovo in altri un punto, ri­spetto alla storia, assoluto; non confondendomi con altri, ma parlandoci. La storia è attraversata da rotture della storia nelle quali è pronunciato un giudizio su di essa. Quando un uomo va veramente incontro ad Al­tri, è strappato dalla storia.

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Noumeno

Nella filosofia di Platone, il noumeno rappresenta una specie intelligibile o idea e indica tutto ciò che non può essere percepito nel mondo tangibile, ma a cui si può arrivare solo tramite il ragionamento. E' la stessa presenza umana come volto ad essere per Lévinas noumeno.

Si veda inoltre http://mondodomani.org/dialegesthai/jh01.htm
http://desiderioefilosofia.com/2009/11/05/desiderio-dellaltro/dove si parla di Lacan
http://machiave.blogspot.it/2013/01/il-volto-dellaltro-2-levinas.html
















Le mani, le facce e la nostra vergogna 
di Michele Smargiassi
la  Repubblica, 17 giugno 2015

NEI video dello sgombero di Ventimiglia, un ‪#‎migrante‬-migratore fugge i poliziotti in tenuta antisommossa saltellando malamente sugli scogli come un gabbiano esausto, terrorizzato ma incapace di riprendere il volo. Ed è un’immagine che colpisce. Ma le foto, quelle sono destabilizzanti, non somigliano a nulla di ciò che chiamiamo scontro, sgombero, operazione di ordine pubblico.
Bisogna guardare quelle mani profilatticamente guantate (scabbia? uniforme?) piantate sulle facce: ma non fermarsi lì. Bisogna guardare le facce che quelle mani coprono, spingono, spostano. E poi guardare gli occhi sbarrati, stanchi, su quelle facce. Se cerchiamo in quelle facce la minaccia del barbaro predatore, lo sguardo rapace dell’invasore, faremo fatica a trovarli. Non basta. Guardiamo anche le facce dei poliziotti proprietari di quelle mani guantate. Sotto le visiere espressioni incredule, senza i digrignamenti della lotta. Se cerchiamo in quelle facce la ferocia del repressore, lo sguardo compiaciuto dell’aguzzino, faremo fatica a trovarli.
Non basta ancora. Guardiamo l’insieme, questo intreccio di arti e di corpi umani, guardiamo questi gesti spasmodici e annaspanti che possono essere spintoni come abbracci, manate come sostegni, guardiamo questo affrontarsi di tensioni, questo assurdo scontro di forze senza convinzione, questo impatto di volontà che sembrano più incredule che determinate, da entrambe le parti: perché mi stai facendo questo? Perché devo farti questo?
Sì certo, le fotografie non la dicono mai tutta. Sì, certo, anche questa volta non lasciamo che l’impatto emotivo delle immagini sia la risposta. Però almeno sia la domanda; e cerchiamo noi la risposta. La domanda quale può essere, se non: questo paese vuole essere accogliente o escludente? E la risposta quale può essere, se non che la volontà che costringe a scegliere, la volontà sterilizzata e guantata che ordina solo di spostare fermare e respingere, la volontà che adesso chiamiamo ‪#‎Europa‬, e che pretende di parlare a nome nostro, questa volontà ormai ha un nome con la minuscola, e quel nome è vergogna?
 

martedì 16 giugno 2015

Max Weber, La politica come professione






Tre qualità sono soprattutto decisive

Si può dire che tre qualità sono soprattutto decisive per 1’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Passione nel senso di Sachlichkeit: dedizione appassionata a una “causa”, al dio o al demone che la dirige. Non nel senso di quell’atteggiamento interiore che il mio compianto amico Georg Simmel era solito chiamare “agitazione sterile”, propria di un certo tipo di intellettuale soprattutto russo (ma non certo di tutti) e che ora, in questo carnevale che si adorna del nome maestoso di “rivoluzione”, ha un ruolo cosi grande anche presso i nostri intellettuali: un “romanticismo di ciò che è intellettualmente interessante”, costruito nel vuoto, privo di qualsiasi senso oggettivo di responsabilità. E infatti la semplice passione, per quanto autenticamente vissuta, non è ancora sufficiente. Essa non crea l’uomo politico se, in quanto servizio per una “causa”, non fa anche della responsabilità nei confronti per 1’appunto di questa causa la stella polare decisiva dell’agire. Da ciò deriva la necessità - e questa è la qualità psicologica fondamentale dell’uomo politico - della lungimiranza, vale a dire della capacità di far agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento interiore: dunque, la distanza tra le cose e gli uomini. La “mancanza di distanza”, semplicemente in quanto tale, costituisce uno dei peccati mortali di ogni uomo politico ed é una di quelle qualità che, coltivate presso la nuova generazione dei nostri intellettuali, li condannerà all’inettitudine politica. Il problema é infatti proprio questo: come si possono far convivere nella stessa anima un’ardente passione e una fredda lungimiranza? La politica si fa con la testa, non con altre parti del corpo o dell’anima. E tuttavia la dedizione a essa, se non deve essere un frivolo gioco intellettuale ma un agire umanamente autentico, può sorgere ed essere alimentata soltanto dalla passione. Ma quel saldo controllo dell’anima che caratterizza l’uomo politico appassionato e lo distingue dal mero dilettante politico che “si agita in modo sterile” è possibile soltanto attraverso l’abitudine alla distanza, in tutti i sensi della parola. La “forza” di una “personalità” politica significa in primissimo luogo il possesso di tali qualità. 


 

domenica 14 giugno 2015

Una passione triste: l'invidia

Gustavo Micheletti 
 





Durante questo nostro breve riesame critico, vorremmo cercare di comprendere l'origine della particolare forma di soddisfazione che in qualche modo l'invidia deve riuscire a produrre per riscuotere tanto successo da tanto tempo, unitamente al peculiare tipo d'infelicità che porta con sé e in cui spesso si risolve. Poiché le è stata da più parti riconosciuta la peculiarità di essere, a differenza degli altri vizi capitali, un «vizio senza piacere», o una «passione triste», cercheremo qui di appurare specialmente [...] se una simile mancanza di piacere sia effettivamente compatibile con la sua diffusione e con le ragioni del suo successo.
... L'invidia, quindi, che «nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibile», nasce specialmente, secondo Nietzsche, là dove «l'uguaglianza è penetrata ed è durevolmente fondata», e ciò perché «l'invidioso avverte ogni innalzarsi di un altro al di sopra della misura comune e lo vuole riabbassare fino ad essa -- o vuole levarsi fino a lui». D'altra parte, accade anche un fenomeno apparentemente inverso, perché man mano che le differenze sociali aumentano, l'invidia tende ad abbandonare il suo status di sentimento basso e strisciante per diventare -- come scrive Remo Bodei -- «ardita e ostentata». Il risentimento che la caratterizza e la nutre, e che consiste in un misto d'impotenza e di desiderio di vendetta, «è per Nietzsche destinato a crescere, perché le differenze sociali appaiono un'offesa cui non si riesce a porre rimedio. [...] Non tollerando ciò che si eleva al di sopra della mediocrità, la coscienza gregaria considera l' 'essere zero' del singolo una virtù. L'uguaglianza, che presuppone il confronto sospettoso di tutti con tutti, conduce perciò a negare l'esistenza di qualsiasi superiorità gerarchica tra gli individui e ad abbassare i forti e i migliori allo stesso livello dei meschini e degli invidiosi, i quali considerano tutti gli uomini sostanzialmente uguali, senza pensare che -- se la loro materia è la stessa -- la loro consistenza è invece profondamente diversa».
... L'invidia è, anche per Kierkegaard, il sintomo di una mancanza di carattere e tende a livellare tutto per celare tale mancanza, elaborando strategie idonee ad abolire -- come osserva Elena Pulcini -- «ogni pretesa di distinzione ed eccellenza». In questo modo, «essa dà origine a una socialità che si costituisce all'insegna di un'aurea mediocritas nella quale a nessuno deve essere concesso di innalzarsi al di sopra della rassicurante uniformità della massa».
...  La morale del risentimento, «la morale degli schiavi ha bisogno -- scrive Nietzsche -- sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire -- la sua azione è fondamentalmente una reazione. Si ha il contrario nel caso di una maniera aristocratica di valutazione. Questa agisce e cresce spontaneamente, cerca il suo opposto soltanto per dire sì a se stessa con ancora maggior gratitudine e gioia. [...] Mentre l'uomo nobile vive con piena fiducia e schiettezza davanti a se stesso (Ghennaios «nobile di nascita» sottolinea la nuance «schietto» e fors'anche «ingenuo»), l'uomo del ressentiment non è né schietto né ingenuo né onesto e franco con se stesso».
... Sulla scia di Nietzsche, Scheler distingue due tipi fondamentali di uomini: il primo, quello signorile, essendo consapevole del proprio valore, è capace di atti coraggiosi e anche rischiosi, tende ad amare il mondo e la vita e non è incline a confrontarsi con gli altri né a provare invidia nei loro riguardi; il secondo tipo, quello borghese, è invece un essere che tende a svalutarsi, è perennemente impaurito e teme il pericolo, è portato a paragonarsi sempre agli altri, a catalogarli e a interpretarne le azioni in modo da poter giustificare e attenuare la propria invidia nei loro confronti.


«Il piacere triste dell'invidia». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 14 (2012) [inserito il 10 luglio 2012], disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [102 KB], ISSN 1128-5478.