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martedì 26 agosto 2025

L' asse Vaticano-Farnesina


Giacomo Galeazzi 
Dalle guerre all'accoglienza, l'asse Vaticano-Farnesina

La Stampa, 26 agosto 2025

CITTÀ DEL VATICANO. Dall’acclamazione del Meeting alla benedizione di Leone XIV. La “due giorni” ecclesiale di Antonio Tajani è iniziata domenica con l’apertura di credito ciellina a Rimini ed è culminata ieri con «un’intensa e costruttiva» ora di udienza papale su pace, migranti e cristiani perseguitati. In Curia evidenziano «la comune visione sul ruolo geopolitico che l’Ue deve recuperare, la disponibilità ad agevolare negoziati a Roma sull’Ucraina, un approccio pragmatico e non ideologico alle questioni più complesse». Inclusa la pressione congiunta per fermare Vladimir Putin.

«Ho avuto un colloquio telefonico coi colleghi di Usa, Regno Unito, Francia, Germania, Finlandia e Ucraina» ha scritto sui social Tajani in tarda serata. «All'indomani della Giornata dell'indipendenza ucraina e della riunione G7 abbiamo discusso su come proseguire il lavoro avviato con il vertice di Washington» ha aggiunto spiegando di aver «aggiornato i partner» a proposito del colloquio avuto in mattinata col Santo Padre «con cui abbiamo trattato anche delle prospettive per una pace giusta e duratura in Ucraina». Nel ribadire la centralità del rapporto transatlantico, il ministro ha confermato la volontà di contribuire a negoziati efficaci e ha sottolineato l'importanza di garantire misure di sicurezza solide e credibili per l'Ucraina, incluso il rafforzamento delle Forze Armate e della sua industria della difesa.

Per Gian Franco Svidercoschi, ex vice direttore dell’Osservatore Romano «già durante la guerra fredda l’asse con l’Italia era un fattore prezioso per la diplomazia pontificia. Il paese di cui il Papa è primate diviene, in caso di urgenze geopolitiche, veicolo naturale per l’azione pacificatrice della Santa Sede. Tajani è una buona carta da giocare e ha il merito nei sacri palazzi di riequilibrare il governo rispetto ai proclami anti-immigrazione di Matteo Salvini e ai cedimenti stile Orban verso Mosca». Prosegue: «In Vaticano la forma è contenuto, i toni e i gesti anche minori hanno un valore che segna il profilo di un leader, come la scelta di fare da padrino di battesimo nel ricongiungimento familiare tra una mamma sfuggita alla tratta in Africa e la sua bambina». Tajani ha portato in dono al Papa un’edizione della Rerum Novarum ripubblicato nell’anno di nascita di Prevost e un arazzo di Sant’Ambrogio. I buoni uffici del segretario di Stato Pietro Parolin e del presidente della Cei Matteo Zuppi hanno accreditato l’ex presidente del Parlamento Ue nell’interlocuzione anche su temi eticamente sensibili quali la legge in discussione sul fine vita e nella moral suasion per mitigare gli opposti eccessi woke e sovranisti su migrazioni, gender e crisi educativa.

Al loro terzo incontro (il primo vis-à-vis dopo quelli assieme a Giorgia Meloni e Sergio Mattarella) Leone XIV e il ministro degli Esteri hanno consolidato un rapporto particolare, favorito dalle iniziative condivise nei primi cento giorni di pontificato. E cioè i ponti sanitari tra Roma e il Patriarcato latino per Gaza, i protocolli a favore dell’infanzia disagiata con l’ospedale Bambin Gesù, gli interventi umanitari Farnesina-Comunità Giovanni XXIII nelle zone di guerra, la cooperazione per il Giubileo.

Già Francesco puntava su governanti moderati e di senso pratico per intrecciare relazioni dirette, lasciando poi alla segreteria di Stato l’individuazione di soluzioni tecniche. Prevost prosegue nel solco del predecessore. Il mandato del conclave è dare voce alla Chiesa del silenzio laddove i cattolici sono minoranza e con il leader di Forza Italia è piena la convergenza sulla necessità di non lasciarli soli. Il Papa «migrante, figlio di migranti» ha richiamato l’urgenza di una strategia a livello nazionale ed europeo in grado di soccorrere, accogliere e integrare chi è costretto ad abbandonare la propria terra. Si è trattato di un «dialogo franco e cordiale», concordano alla Farnesina. «Lo smarrimento delle radici cristiane ha portato a un’Europa poco accogliente - dice il segretario generale della Cei, Giuseppe Baturi-. L’Europa è il Mediterraneo. E invece guarda poco al Mediterraneo in termini economici e culturali». Il metodico Prevost parla a Roma perché Bruxelles senta. Così da spingere Mosca a trattare.

sabato 26 aprile 2025

Dove va il capitalismo italiano



Isabelle Chaperon
Il caso Generali o la dubbia endogamia del capitalismo italiano
Le Monde, 26 aprile 2025

Immaginate Martin Bouygues e la famiglia Arnault che tentano un colpo di stato alla AXA con la benedizione dello Stato francese. Ecco cosa è appena successo in Italia. Il magnate dell'edilizia Francesco Gaetano Caltagirone, 82 anni, socio di Delfin (la holding del defunto Leonardo Del Vecchio, il maggiore azionista di Essilor Luxottica) ha cercato di prendere il potere nella compagnia assicurativa Generali giovedì 24 aprile, durante l'assemblea generale. Hanno fallito, come già tre anni fa, ma la questione sembra tutt'altro che chiusa.

Giovedì a Trieste gli investitori istituzionali hanno approvato la lista dei consiglieri presentata da Mediobanca, primo azionista di Generali con il 13% del capitale: ha ottenuto il 52,4% dei voti. I due golpisti (insieme rappresentano il 17% dell'assicuratore) hanno ottenuto il 36,8% dei voti, il che significa che hanno tre consiglieri, contro i dieci di Mediobanca. Philippe Donnet, direttore generale, è stato riconfermato. Potrebbe esplodere, ma non per molto.

In realtà, è aperta una seconda linea del fronte. Il signor Caltagirone e Delfin sostengono l'opa ostile lanciata a gennaio dalla banca Monte dei Paschi di Siena (MPS) su Mediobanca, sapendo che insieme detengono quasi il 15% della società promotrice dell'operazione e il 27,6% del bersaglio. Questa acquisizione ha la benedizione del governo di Giorgia Meloni, che vuole creare un terzo polo bancario oltre ai due colossi UniCredit e Intesa.

Da qui la situazione poco chiara che circonda Banco BPM, la terza banca italiana, che Roma avrebbe voluto avvicinare a MPS, ma che è a sua volta oggetto di un'altra OPA ostile da parte di UniCredit. È probabilmente per questo che le autorità hanno ostacolato questo raid: per ammorbidirle, UniCredit ha acquistato azioni e ha votato a favore dei golpisti all'assemblea generale annuale di Generali.

Insomma, il capitalismo italiano appare più intricato di un piatto di spaghetti. Non sorprende che lo Stato voglia creare un terzo settore bancario o sia preoccupato per una proposta di fusione nella gestione patrimoniale tra Generali e Natixis. Banche e assicurazioni sono settori strategici per il finanziamento dell’economia. Ma l'Italia merita di meglio di questa dubbia endogamia.

https://www.lemonde.fr/economie/article/2025/04/25/le-cas-generali-ou-l-endogamie-du-capitalisme-italien_6599983_3234.html

giovedì 8 marzo 2018

Un voto di speranza e di trasformazione



Giulio Sapelli

Il popolo degli abissi si è messo in marcia, ha reagito ad anni e anni di gioco di specchi e di disincanti. Niente è andato come previsto: come nel libro di Jack London, il popolo degli abissi si è levato, ha preso l'arma del voto come una bandiera e con calma risoluta ha detto basta a quattro mali che hanno disintegrato l'Europa e l'Italia.
Il primo è l'ordoliberismus, ossia l'austerity fondata su bassi salari e distruzione del welfare.
Il secondo è la cosiddetta liberalizzazione del mercato del lavoro, con il neoschiavismo dei contratti a termine e del precariato. E' stata la sinistra blairiana a inventare questo infernale marchingegno con schiere di devoti giuslavoristi in conflitto d'interessi. Pochi giorni fa El Pais pubblicava l'articolo del presidente di Ciudadanos che illustrava la legge di iniziativa parlamentare in cui si abolisce il precariato con una tranquilla enfasi sulla difesa degli interessi della nazione e del tessuto industriale e dei servizi del Paese.
Il terzo male è l'inerzia delle parti sociali, che vedono spogliare questa nazione delle sue risorse e nulla fanno come le borghesie commerciali sudamericane e i sindacati che, pur essendo l'ultima istituzione che tiene, rinunciano alle battaglie sui punti fondamentali. Naturalmente questo implica correre il pericolo del nazionalismo della povera gente e della classe media in discesa con i fantasmi fascisti che ritornano.
Il quarto male è l'immigrazione incontrollata e non gestita con l'intelligenza della sicurezza e del rispetto della persona, non solo dei migranti, ma anche dei poveri e degli anziani che si trascinano una vita di stenti e non ne possono più di forti giovanotti con cellulare e venti euro in saccoccia: gli esempi australiani e tedeschi di accoglienza sono lì, ma noi nulla facciamo.
Si è disgregato lo Stato ed è inevitabile che forze come i 5 Stelle e la Lega di Salvini si presentino come alternative al sistema. Del resto, sono anni che studio e parlo dell'inversione della rappresentanza partitica: i ricchi votano la loro sinistra, ossia Pd, Pisapia, Bonino eccetera, mentre i poveri votano a destra, come sta accadendo in tutto il vecchio mondo neo-industriale.
Non c'è bisogno di scomodare Trump, basta guardare alla Germania e alla Francia. Lì non votano e Macron viene eletto dal 23% degli aventi diritto. In Italia la partecipazione elettorale è alta, ma tutto travolge dei vecchi schemi destra/sinistra. Beninteso, sinistra, destra e centro sono ben presenti nel sociale e nell'universo simbolico del popolo degli abissi, ma quel popolo ha già compreso che le vecchie casacche vestono i morti: "le mort saisit le vif" diceva il filosofo di Treviri.
Bisogna non perdere la speranza che i nuovi universi simbolici siano educati dalle istituzioni e da una rinascita del ruolo degli intellettuali, che ora pasolinianamente al popolo si avvicinino senza più tradirlo. E' un voto di speranza e di trasformazione: non bisogna avere paura, come diceva il formidabile Santo del Novecento.

http://www.ilsussidiario.net/News/Politica/2018/3/7/DOPO-LE-ELEZIONI-Sapelli-non-bisogna-avere-paura-e-un-voto-di-trasformazione/810083/
https://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2018/03/05/repubblica-post-ideologica

mercoledì 1 aprile 2015

Touraine, l'agonia della sinistra

Anais Ginori
Dopo la sconfitta alle regionali parla il sociologo Alain Touraine
“Senza orizzonti né classi sociali la gauche muore”

la Repubblica, 1 aprile 2015












PARIGI «La sinistra può morire. Come qualsiasi essere vivente, non è eterna». La profezia di Alain Touraine, dall’alto dei suoi quasi novant’anni e dei numerosi saggi sulle società post-industriali, non lascia molta scelta: prepariamoci a scrivere un epitaffio oppure a pubblicare un nuovo certificato di nascita. «La gauche è in agonia, fuori tempo e fuori dal mondo. Non potrà resistere a lungo» spiega il sociologo francese all’indomani dell’ennesima sconfitta del partito socialista al potere.
«La sinistra – spiega Touraine – non riesce a reinventarsi in un’epoca post-sociale, in cui i rapporti di forza non sono più basati, come un secolo fa, sulla produzione. Non ha più una classe sociale di riferimento, alla quale corrispondono valori, ideali, rapporti di forza. Non è più portatrice di un orizzonte, di una speranza».
Già nel 1979 lei pubblicava un saggio dal titolo Mort d’une gauche . Quante sinistre sono morte da allora?
«Nel ventunesimo secolo tutti i partiti politici faticano a riposizionarsi all’interno di un’architettura della società che è crollata. È una situazione simile a quella che si è verificata alla fine dell’Ottocento, quando le formazioni politiche uscite dalla Rivoluzione faticavano a dare una risposta davanti alle nuove realtà industriali dell’epoca. Per il partito socialista la perdita di identità è più forte perché non ha saputo rinnovare la concezione dello Stato. Nonostante tutte le presunte svolte, da François Mitterrand in poi, non c’è stata una ridefinizione di quale debba essere il ruolo dello Stato e dunque della nazione in un mondo globale».
Gli elettori ormai votano più per rabbia che per convinzione?
«C’è una radicalizzazione degli estremi, sia a sinistra che a destra. Il Front de Gauche di Mélenchon non è poi tanto diverso dal Front National di Marine Le Pen. Entrambi sono il sintomo di una rottura del popolo con l’élite politica che sembra impotente. Sono quasi tre anni che François Hollande è al potere e ancora non ho sentito una proposta concreta per rispondere alla crisi. L’unica strategia è aspettare la ripresa. Negli ultimi mesi, ci siamo trovati a discutere di cose grottesche come l’apertura domenicale dei negozi o i privilegi dei notai. Non è così che si creano 500mila posti di lavoro. Hollande ha proposto un patto con le imprese, alle quali ha regalato oltre 40 miliardi di euro in sconti fiscali, ma loro non hanno creato posti di lavoro. Anche gli imprenditori continuano a perdere tempo, probabilmente aspettano che torni al potere la destra, dalla quale si sentono più garantiti».
La gauche al potere ha tradito il suo elettorato?
«Il capitalismo finanziario ha sostituito il capitalismo industriale. È un dato di fatto. Non possiamo chiedere alla sinistra di governare come nel 1936 quando c’era il Front Populaire. Mélenchon è un velleitario, ha una linea del “né né”, né con Hollande né con Sarkozy. Con chi allora? Dietro ai suoi proclami, c’è solo il vuoto. E intanto gli operai votano per il Front National, mentre Mélenchon seduce solo qualche professore. Il partito socialista si è sottoposto, come tutte le forze di governo della nostra epoca, al dogma finanziario e materialista, ma ha un problema in più: deve conciliare un individualismo al plurale, facendo per esempio convivere i diritti economici strettamente personali, con valori e diritti universali, in una visione collettivista che è nel suo Dna».
Hollande ha sbagliato a seguire la dottrina europea dell’austerità?
«Ma di quale austerità parliamo? Il bilancio dello Stato francese è in deficit da trent’anni. Oggi c’è una sola parola che dovrebbe contare: competitività. La sinistra ha rinunciato a fare una vera politica di risanamento. Ha scelto di non scegliere. Tutti i paesi europei attraversano le stesse difficoltà, l’unica differenza è su chi far ricadere il peso della crisi. La Terza Via di Tony Blair è stato un progetto reazionario, ha portato a compimento la deindustrializzazione del paese, sviluppando un’economia solo finanziaria, e riducendo i salari. Gerhard Schröder ha invece puntato sull’industria ma ha creato dei minijob che sono pagati meno del salario minimo francese. In Francia, come in Italia, abbiamo scelto di far pagare il prezzo della crisi alle classi popolari con la disoccupazione. Sono entrambi strategie perdenti».
Quindi ci troviamo in un’impasse?
«Sarò brutale, ma nella situazione attuale l’unico modo di rilanciare l’occupazione è avere un bilancio dello Stato in equilibrio. Oggi non ci sono margini. Lo Stato non può contribuire alla crescita con investimenti pubblici. È costretto a chiedere aiuto al padronato, che ovviamente resta nel vago. Da anni la Francia non progredisce perché non può agire sull’economia prima di aver risanato i conti pubblici. La spesa dello Stato pesa per oltre metà del Pil, abbiamo il record mondiale. Per fortuna c’è l’Europa che ci costringe a mantenere un minimo di realismo».
Il partito socialista è sull’orlo dell’implosione?
«Siamo in un momento cruciale. Mi ha impressionato in negativo il discorso di Manuel Valls dopo la sconfitta. In sostanza ha detto: va tutto male, la disoccupazione non scende, le tasse sono troppe, ma continuiamo così. È un messaggio piuttosto scoraggiante per un francese medio. Forse da parte del premier è una prova di sincerità. Forse è davvero convinto che bisogna solo aspettare che il vento della ripresa soffi anche sulla Francia. Ma tra due mesi ci sarà il congresso del partito socialista e la resa dei conti tra le varie correnti è già cominciata. I dissidenti si preparano a un attacco mortale contro un governo che sembra già esausto, senza nulla da offrire. Hollande e Valls devono vincere l’apatia. Se non ci sarà un vero chiarimento, allora serviremo su un piatto d’argento la vittoria a Nicolas Sarkozy nel 2017».

domenica 14 dicembre 2014

The Economist, Polizia americana sotto processo




America’s police on trial
The United States needs to overhaul its law-enforcement system
The Economist, 13 dicembre 2014

THE store camera tells a harrowing tale. John Crawford was standing in a Walmart in Ohio holding an air rifle—a toy he had picked off a shelf and was presumably planning to buy. He was pointing it at the floor while talking on his phone and browsing other goods. The children playing near him did not consider him a threat; nor did their mother, who was standing a few feet away. The police, responding to a 911 caller who said that a black man with a gun was threatening people, burst in and shot him dead. The children’s mother died of a heart attack in the ensuing panic. In September a grand jury declined to indict the officers who shot Mr Crawford.
Most people have probably never heard this story, for such tragedies are disturbingly common: America’s police shoot dead more than one person a day (nobody knows the exact number as not all deaths are reported). But two recent cases have sparked nationwide protests. First Michael Brown, a black teenager, was shot dead in murky circumstances in Ferguson, Missouri, just after he robbed a shop, and then Eric Garner, a harmless middle-aged black man guilty only of selling single cigarettes on the streets of New York, was choked to death by a policeman while five cops watched—and this time the event was filmed by a bystander.
So far much of the debate within America has focused on race. That is not unreasonable: the victims were all black, and most of the policemen involved were white. American blacks feel that the criminal-justice system works against them, rather than for them. Some 59% of white Americans have confidence in the police, but only 37% of blacks do. This is poisonous: if any racial group distrusts the enforcers of the law, it erodes the social contract. It also hurts America’s moral standing in the world (not aided by revelations about the CIA’s use of torture). But racial division, rooted as it is in America’s past, is not easily mitigated.
There is, however, another prism through which to examine these grim stories: the use of excessive violence by the state. It, too, has complex origins, but quite a lot of them may be susceptible to reform. In many cases Americans simply do not realise how capricious and violent their law-enforcement system is compared with those of other rich countries. It could be changed in ways that would make America safer, and fairer to both blacks and whites.
Don’t shoot
Bits of America’s criminaStal-justice system are exemplary—New York’s cops pioneered data-driven policing, for instance—but overall the country is an outlier for all the wrong reasons. It jails nearly 1% of its adult population, more than five times the rich-country average. A black American man has, by one estimate, a one in three chance of spending time behind bars. Sentences are harsh. Some American states impose life without parole for persistent but non-violent offenders; no other rich nation does. America’s police are motivated to be rapacious: laws allow them to seize assets they merely suspect are linked to a crime and then spend the proceeds on equipment. And, while other nations have focused on community policing, some American police have become paramilitary, equipping themselves with grenade launchers and armoured cars. The number of raids by heavily armed SWAT teams has risen from 3,000 a year in 1980 to 50,000 today, by one estimate.
Above all, American law enforcement is unusually lethal: even the partial numbers show that the police shot and killed at least 458 people last year. By comparison, those in England and Wales shot and killed no one.
Fewer armoured cars, more body cameras
One reason why so many American police shoot first is that so many American civilians are armed. This year 46 policemen were shot dead; last year 52,000 were assaulted. When a policeman is called out to interrupt a robbery, he knows that one mistake could mean he never makes it to retirement. As this newspaper has often pointed out, guns largely explain why America’s murder rate is several times that of other rich countries. And the vastly disparate rate at which policemen shoot young black men is not simply a matter of prejudice. Roughly 29% of Americans shot by the police are black, but so are about 42% of cop killers whose race is known.
If America did not have 300m guns in circulation, much of this would change. That, sadly, is not going to happen soon. But there are other ways to make the police less violent.
The first is transparency. Every police force should report how many people it kills to the federal government. And if communities want to buy gadgets, they should give their police body cameras. These devices deter bad behaviour on both sides and make investigations easier. Had the officer who shot Mr Brown worn one, everyone would know how it happened.
The second is accountability: it must be easier to sack bad cops. Many of America’s 12,500 local police departments are tiny and internal disciplinary panels may consist of three fellow officers, one of whom is named by the officer under investigation. If an officer is accused of a crime, the decision as to whether to indict him may rest with a local prosecutor who works closely with the local police, attends barbecues with them and depends on the support of the police union if he or she wants to be re-elected. Or it may rest with a local “grand jury” of civilians, who hear only what the prosecutor wants them to hear. To improve accountability, complaints should be heard by independent arbiters, brought in from outside.
The third, and hardest, is reversing the militarisation of the police. Too many see their job as to wage war on criminals; too many poor neighbourhoods see the police as an occupying army. The police need more training and less weaponry: for a start, the Pentagon should stop handing out military kit to neighbourhood cops.
In many ways America remains a model for other countries. Its economic engine has roared back to life. Its values are ones which decent people should want to spread. Yet its criminal-justice system, the backbone of any society, is deeply flawed. Changing it will be hard; but change is overdue.

domenica 22 settembre 2013

Suscettibile e evanescente laicità

Una presenza forte e innegabile non passa il tempo a riflettere su se stessa. E neppure si considera troppo facilmente minacciata. Il pensiero laico in Italia è invece in una situazione di evidente difficoltà, da anni. E non perché la Chiesa cattolica stia recuperando terreno. Alla fin fine è l'indifferenza o il calore contenuto sul terreno della fede il vero vincitore della partita nella società civile (*). E di fronte a questa realtà, il pensiero laico per parte sua non offre certo lo spettacolo di una ricchezza lussureggiante.



Antonio Carioti
Laicità secondo Urbinati
Ma è la politica che ha abdicato
Corriere della Sera, la Lettura, 22 settembre 2013

Nel libro a quattro mani Missione impossibile (Il Mulino, pp. 138, euro 14) Marco Marzano scrive che l'avanzata della secolarizzazione ha vanificato il tentativo della gerarchia ecclesiastica di egemonizzare la sfera pubblica italiana. Ma poi Nadia Urbinati denuncia i pericoli che corre la laicità in una "società monoreligiosa" quale sarebbe l'Italia. Si resta sconcertati. Forse perché il nodo non è la "tradizione culturale" cattolica, che era ben più solida al tempo delle leggi su divorzio e aborto, ma l'inconsistenza della politica, oggi pronta ad assecondare le spinte confessionali pur di ricevere la benedizione della Chiesa. Questo è il vuoto che mina non solo la laicità, ma le basi stesse dello Stato.

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... il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un'immagine del cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come muschio stanno attaccati solo esteriormente all'albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come criterio di vita, più per l'educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali. 

Franco Garelli
La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi
La Stampa, Vatican Insider, 2 novembre 2011
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Una politica senza religione di Giovanni De Luna
Politica e religione sconfitte dal mercato
di Simonetta Fiori

la Repubblica, 22 settembre 2013
 

La credibilità d’una classe politica si misura dalla sua capacità di costruire una “religione civile”? Se è vero questo assunto, su cui si regge il nuovo argomentato saggio di Giovanni De Luna, se ne ricava un giudizio sconsolato sul presente. E verosimilmente sul futuro. Mai come negli ultimi decenni la politica italiana ha dato prova di un vuoto colossale di valori e simboli, di principi, regole e memorie, anche “tradizioni inventate”, capaci di toccare le menti e i cuori dei singoli individui. Un deserto che ha contrassegnato non solo la “destra berlusconiana” millantatrice di un illusorio benessere e la “destra di Monti”, appiattita sul “culto dello spread”, ma anche quella «costellazione di feudi assetati di potere» in cui si è risolto il Partito democratico. Né si salva un nuovissimo attore come Grillo, artefice di un albero genealogico affollato di “morti per caso”, subalterno al “paradigma vittimario” della seconda Repubblica fondato sul dolore e sul lutto. Non c’è più “religione” nella politica italiana, dove per “religione” De Luna intende non certo una fede confessionale o una concezione sacralizzata del potere, ma «la costruzione di uno spazio pubblico di appartenenza e di cittadinanza». E una politica che non produce simboli, ammonisce lo storico, «si riduce alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente».
Ma le classi dirigenti italiane sono mai state capaci di costruire una proposta forte di valori civili ed etici? Qui interviene lo sguardo lungo dello studioso che ripercorre una vicenda accidentata fin dalle origini della storia nazionale. Se nell’Italia liberale il progetto di “fare gli italiani” fu compromesso dal trasformismo, sotto il regime di Mussolini le cose andarono anche peggio. E nel lungo dopoguerra i due più grandi partiti, pur svolgendo una preziosa opera di «alfabetizzazione politica di masse spoliticizzate», continuarono a opporre religioni diverse e contrapposte. Anche il rilancio della Costituzione, negli anni Settanta, viene giudicato da De Luna «un’occasione mancata», spazzata via da una smisurata dilatazione dei partiti nello spazio pubblico. Fino alla “mutazione genetica” della stagione successiva, con la trasformazione delle forze politiche «in un ceto poco differenziato sul piano dei valori e molto intraprendente sul piano delle carriere». È qui che comincia quella “politica esangue”, “senz’anima”, destinata a soccombere soprattutto “nelle fasi di discontinuità”, quando le viene richiesto di produrre una nuova tradizione capace di confrontarsi con un panorama radicalmente modificato.
Alla “carestia morale” della politica nell’ultimo ventennio è corrisposta una Chiesa cattolica sempre più ingombrante, celebrata come «unico collante capace di tenere insieme gli italiani». Un progetto egemonico che ha trovato un pericoloso concorrente in una religione non meno pervasiva e potente, che è quella incarnata dal mercato. Alla “religione dei consumi”, che contamina la stessa fede cattolica (il mercimonio intorno a padre Pio) e invade territori di sua appartenenza come la vita e la morte, il sesso o i processi di formazione degli adolescenti,sono dedicati gli ultimi densi capitoli, con efficaci descrizioni di cimiteri trasformati da “luogo di lutto” a “luogo del loisir”.«Incalzati dal mercato», annota De Luna, «laici e cattolici sono oggi come due eterni duellanti, impegnati in uno scontro che prosegue sempre più stancamente: esausti e incapaci di accorgersi che il terreno del duello è cambiato e che stanno per essere sconfitti entrambi».
Vie d’uscita? La ricostruzione di De Luna, non priva di accostamenti inediti, approda a un epilogo malinconico. Esauriti i partiti di massa, nell’era del web e dei nuovi media, l’unica tradizione politica che gli italiani sono stati capaci di conservare è il populismo. Non una grandissima eredità. Sulla quale – conclude lo studioso – urge un leopardiano esame di coscienza.