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martedì 1 aprile 2025

I giovani che se ne vanno



Chiara Saraceno
Così l'Italia rischia di non avere più futuro
La Stampa, 1 aprile 2025

Ci si preoccupa in modo quasi ossessivo della denatalità, molto meno del continuo drenaggio di giovani che lasciano l’Italia per cercare altrove occasioni di vita e lavoro migliori. Un drenaggio che non solo assottiglia la già ridotta quota di giovani, ma di conseguenza riduce anche ulteriormente il tasso di natalità possibile. A partire e non tornare sono per lo più giovani con un buon livello di istruzione, che, se rimanessero in Italia, prima o poi troverebbero un’occupazione e talvolta la hanno già trovata. Ma che non trovano nel mercato del lavoro italiano condizioni di lavoro, di remunerazione, di riconoscimento, all’altezza delle loro aspettative, che invece vedono più facilmente realizzate altrove. Così come, se donne, vedono più facilmente realizzabile farsi una famiglia, avere figli, senza rinunciare al lavoro. Sono legittimamente choosy, perché possono effettivamente scegliere uscendo dai confini nazionali.

È positivo che i giovani si muovano, facciano esperienze altrove, anche decidano di proseguire la propria vita altrove. Spostarsi, confrontarsi con società organizzate poco o tanto diversamente da quella di partenza, con altre culture, è un grande arricchimento, se non necessario, auspicabile in un mondo globalizzato dove non si può (più) rimanere rinchiusi nel proprio piccolo mondo auto-referenziale. E dove essere nomadi, per dirla con Stefano Allievi nel suo ultimo bel libro Diversità e convivenza (Laterza), è diventata una condizione umana diffusa non solo perché è fortemente aumentata la mobilità e con essa le migrazioni, ma perché il mondo, l’altrove, entrano continuamente nella vostra vita quotidiana, nelle persone che incontriamo, le immagini che vediamo, le notizie che riceviamo, gli strumenti che utilizziamo.

Il problema è che l’Italia sta diventando per una parte dei suoi giovani un posto in cui non si vuole vivere, in cui non vale la pena di investire il proprio futuro. Tantomeno attrae giovani molto qualificati di altri paesi, rispetto ai quali il saldo è ampiamente negativo. È un paese in cui venire in vacanza, o passare un anno di studio, non in cui fermarsi per farci la propria vita. Per altro, anche per una buona parte dei migranti che arrivano da paesi poveri o in guerra, o sotto una dittatura, l’Italia è pensata come un luogo di passaggio, una porta di entrata per un altrove più desiderabile, anche se poi sono costretti a rimanere qui. Una percezione certo non favorita dalla retorica anti-migranti e dalle lungaggini per ottenere il permesso di soggiorno, per non parlare della cittadinanza.

Senza seri investimenti nel creare situazioni più favorevoli ai giovani da parte non solo del governo, ma degli amministratori locali e delle imprese, il fenomeno del drenaggio dei giovani, specie dei più istruiti, non potrà che accentuarsi. Del resto, un’indagine Istat recente ha rilevato che già tra gli adolescenti il 34% da grande vorrebbe vivere, lavorare, farsi una famiglia all’estero, una percentuale che supera il 38% tra gli stranieri.


venerdì 13 settembre 2024

Draghi profeta per caso


 La diagnosi da lui avanzata mentre l’Europa scivola nel deserto economico è ampiamente condivisa dagli esperti. Cosa fare al riguardo è la parte difficile. (politico.eu)

Roberto CiccarelliMomento Draghi: l’Europa si salva con le armi e i capitali, il manifesto, 10 settembre 2024

Armi, microchip, intelligenza artificiale e «energia green» per salvare i diritti sociali senza però rimediare ai danni di 40 anni di neoliberalismo. Avvolto in un’aura sacrale Mario Draghi ieri è tornato a indossare i panni del profeta.

PRESENTANDO il rapporto sul «Futuro della competitività» chiesto dalla presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ieri Draghi ha detto che l’Europa «corre un rischio esistenziale». È il vaso di coccio nella guerra industriale e commerciale tra Stati Uniti e Cina. Per evitare di mettere fine al «modello sociale europeo», o meglio di ciò che ne resta sotto altre spoglie, l’Unione europea deve ripensarsi radicalmente e varare uno strumento finanziario di «debito comune» da 800 miliardi di euro all’anno. Insomma, un Next Generation Eu (chiamato in Italia «Piano nazionale di ripresa e resilienza – Pnrr») moltiplicato per otto. Ogni anno.

UNA MONTAGNA DI SOLDI che dovrebbero finanziare principalmente l’industria dei missili e dei carri armati, della tecnologia digitale, delle infrastrutture. L’obiettivo è partecipare a uno speciale campionato, quello della guerra dei capitali, in cui formare «campioni europei» che, forse in un giorno non precisabile, potranno competere con gli oligopoli statunitensi e i cinesi. La pace, i diritti, la politica si fanno con le armi in pugno.

IL PROGETTO è stato ufficializzato due giorni prima dalla composizione della nuova Commissione Europea. A dire di Von Der Leyen, che ieri ha affiancato Draghi in uno show annunciato, l’ambizioso testo è già «sul tavolo del Consiglio» dove siedono i governi degli Stati membri. I commissari designati all’esecutivo europeo dovranno impegnarsi ad applicare le 170 proposte riassunte, in maniera legnosa, in 62 pagine. Anche se non porta benissimo, visti gli esiti che ha prodotto in Italia, il rapporto è stato ribattezzato «Agenda Draghi» dall’entusiasta Partito democratico in giù. Critici invece l’Alleanza Verdi Sinistra e Cinque Stelle.

CON UN’EUROPA politicamente a pezzi, dilaniata dallo scontro tra il mercantilismo e il nazionalismo, è remota la possibilità di realizzare interamente il piano Marshall intestato a Draghi, più che doppio in termini di investimenti rispetto al Prodotto Interno Lordo: 5% annuo contro l’1-2% degli anni Quaranta del XX secolo). Del resto, tentativi non così ambiziosi, ma comunque significativi quanto quello di Draghi, sono stati già fatti nella storia dell’Unione Europea. Nel 2019 ci provò Jean-Claude Juncker. Passò quasi del tutto inosservato. Altra pasta d’uomo si direbbe. Poco aduso alle magie linguistiche, e all’autorevolezza, di Draghi. Ma le difficoltà restano, sono tante. Al punto che Draghi potrebbe mantenere il suo status di profeta inascoltato mentre l’Europa nei prossimi cinque anni andrà in tutt’altra direzione rispetto a quella da lui auspicata.

L’EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO è un funambolo del realismo capitalista. Lui è pragmatico. Per questo non ha indicato una tabella di marcia, ha messo solo in fila raccomandazioni. È consapevole che può fare irritare i governi importanti. Ad esempio il ministro tedesco delle finanze Christian Lindner che non intende sentire parlare di debito comune europeo.

VON DER LEYEN, nelle acque agitate che si intravvedono, potrebbe presto trovarsi in difficoltà. Starà a lei trovare i compromessi per realizzare la visione di Draghi. Ieri non ha voluto rovinare la magia del momento: «Saranno necessari fondi comuni per alcuni progetti europei comuni. Il compito è ora definire questo progetto – ha detto – Poi definiremo se li finanzieremo con nuovi contributi nazionali o con nuove risorse proprie».

UN ALTRO PUNTO POLITICO rilevante del rapporto Draghi è la riforma del voto all’unanimità senza ricorrere a impegnative revisioni dei trattati europei. Ciò potrebbe portare a un’Europa delle «cooperazioni rafforzate». Draghi suggerisce di adottare un «nuovo quadro di coordinamento della competitività». Se l’Ue è bloccata dai veti incrociati, allora bisogna creare una «coalizione di volenterosi». L’ex banchiere si è reso conto di avere citato il tragico Bush figlio. E ha precisato: l’hanno fatto in un «altro contesto». La possibilità di creare una simile «coalizione» è da verificare nell’attuale congiuntura. Con Marine Le Pen che etero-dirige il governo macronista in Francia e con l’Afd che sta con il fiato sul collo del pallido Olaf Scholz. La creazione di un debito comune presuppone una maggiore concentrazione politica ed economica. Difficile come prospettiva.

DRAGHI HA DATO UNA FORMA politica a un’altra trasformazione osservata negli anni della guerra russa in Ucraina e dell’allineamento dell’Ue alla Nato. La sua idea è di cambiare il paradigma della politica estera continentale in una «politica della sicurezza economica». In un mondo in cui la guerra si fa sia con le armi che con il protezionismo economico la politica estera deve coordinare quella industriale, la concorrenza e il commercio.

LO SCOPO È RAGGIUNGERE una «capacità industriale di difesa indipendente». Questo significa che invece di «produrre dodici diversi tipi di carri armati» bisogna produrne uno solo «come negli Stati Uniti». La raccomandazione di Draghi è modificare le norme sulla concorrenza. Ciò allude all’esenzione degli investimenti in armi dai calcoli del «patto di stabilità». Richiesta avanzata dal governo italiano nell’interesse delle industrie della guerra.

IL DOCUMENTO RESTITUISCE la cifra autoritaria e tecnocratica della politica. A tale proposito è interessante rileggere oggi una lettera inviata a Draghi e Von Der Leyen l’otto maggio scorso. È stato firmato da organizzazioni della «società civile» che hanno denunciato la «mancanza di trasparenza» e il «rischio di cattura da parte del big business». «La filosofia complessiva di Draghi – si legge – permetterà alla concentrazione del mercato di aumentare ulteriormente in Europa, danneggiando i consumatori, i lavoratori e le piccole imprese europee e minando di fatto la nostra competitività». «Porterà a una situazione in cui i grandi cosiddetti “Campioni d’Europa” vengono sovvenzionati in modo improduttivo con denaro pubblico, mentre importanti obiettivi sociali, economici e ambientali vengono sacrificati a vantaggio degli azionisti di queste imprese dominanti».

SU QUESTA «FILOSOFIA» è stato costruito il Next Generation Eu e il Pnrr in Italia al quale si pensa più per il metodo di finanziamento che per il coinvolgimento delle cittadinanze, che non c’è stato. Se uno Stato sociale ci dev’essere, esso sarà la conseguenza di una «crescita» del mercato dei capitali e della capacità di produrre microchip, pale eoliche e cannoni.

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Thomas Piketty, "Il rapporto Draghi ha l'immenso merito di stravolgere il dogma dell'austerità di bilancio", Le Monde, 14 settembre 2024

Diciamolo subito: il  rapporto sulla competitività e il futuro dell'Europa  presentato da Mario Draghi alla Commissione Europea va nella giusta direzione.

Per l’ex presidente della Banca centrale europea (BCE), in futuro l’Unione europea (UE) dovrà effettuare 800 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi all’anno – l’equivalente del 5% del suo prodotto interno lordo (PIL) –, ovvero circa tre volte il Piano Marshall (tra l’1% e il 2% del Pil in investimenti annuali nel dopoguerra).

Il continente tornerà così al livello di investimenti degli anni ’60 e ’70. Per raggiungere questo obiettivo, il rapporto propone di ricorrere all’indebitamento europeo, come è stato fatto con il piano di ripresa da 750 miliardi di euro adottato nel 2020 per far fronte al Covid-19. Solo che ora si tratta di raccogliere ogni anno tali somme per investire in modo sostenibile nel futuro (in particolare nella ricerca e nelle nuove tecnologie), e non di finanziare una risposta eccezionale alla pandemia. Se l’UE si dimostrerà incapace di effettuare questi investimenti, il continente entrerà in una “lenta agonia” di fronte agli Stati Uniti e alla Cina, avverte il rapporto.

Possiamo non essere d’accordo con Mario Draghi su diversi punti essenziali, in particolare sulla composizione precisa dell’investimento in questione, il che non è roba da poco. Resta il fatto che questa relazione ha l’immenso merito di torcere il collo al dogma dell’austerità di bilancio.

Secondo alcuni, in Germania ma anche in Francia, i paesi europei dovrebbero pentirsi dei deficit passati ed entrare in una lunga fase di avanzi primari dei conti pubblici, vale a dire una fase in cui i contribuenti dovrebbero pagare molte più tasse di quelle che pagano. ricevere in spesa, per ripagare urgentemente gli interessi del debito e il capitale.

La manna del risparmio

In realtà, questo dogma dell’austerità si basa su un’assurdità economica. In primo luogo perché negli ultimi vent’anni i tassi di interesse reali (al netto dell’inflazione) sono scesi a livelli storicamente bassi in Europa e negli Stati Uniti: meno dell’1% o del 2%, o talvolta addirittura livelli negativi. Ciò riflette una situazione in cui c’è un’enorme manna di risparmi poco o scarsamente utilizzati in Europa e su scala globale, pronti a confluire nei sistemi finanziari occidentali quasi senza alcun ritorno. In una situazione del genere, spetta alle autorità pubbliche mobilitare queste somme per investirle nella formazione, nella sanità, nella ricerca e nelle nuove tecnologie, nelle grandi infrastrutture energetiche e di trasporto, nella ristrutturazione termica degli edifici, ecc.

Per quanto riguarda il livello del debito pubblico, è effettivamente molto elevato, ma non senza precedenti: è vicino a quello osservato in Francia nel 1789 (circa un anno di reddito nazionale), ed è significativamente inferiore a quelli osservati nel Regno Unito dopo le guerre napoleoniche e nel XIX secolo  (due anni di reddito nazionale) e in tutti i paesi occidentali alla fine delle due guerre mondiali (tra due e tre anni).

Tuttavia, ciò che la storia dimostra è che non è possibile affrontare tali livelli di debito con metodi ordinari: sono necessarie misure eccezionali, come i prelievi sui patrimoni privati ​​più elevati, come quelli applicati con successo in Germania e Giappone nel dopoguerra. Quando i tassi di interesse reali aumenteranno, dovremo fare lo stesso coinvolgendo multimilionari e miliardari. Alcuni diranno che è impossibile, ma in realtà è solo un gioco di scrittura al computer. Lo stesso non vale per il riscaldamento globale o per le sfide legate alla salute pubblica o alla formazione, che non si risolveranno con un tratto di penna.

Approccio esperto di tecnologia

Se ora esaminiamo i dettagli delle proposte del rapporto Draghi, c'è ovviamente molto di cui lamentarsi, ed è tanto meglio. Dal momento in cui accettiamo il principio secondo cui l’Europa deve investire in modo massiccio, è positivo che si esprimano diverse visioni sul tipo di modello di sviluppo e sugli indicatori di benessere che desideriamo attuare.

In questo caso, Draghi si affida a un approccio tecnofilo, commerciale e consumistico abbastanza tradizionale. Sottolinea i grandi sussidi pubblici per gli investimenti privati ​​nella tecnologia digitale, nell’intelligenza artificiale e nell’ambiente. Possiamo però legittimamente pensare che l’Europa debba, al contrario, cogliere l’opportunità di sviluppare altre modalità di governance ed evitare di dare, ancora una volta, pieni poteri ai grandi gruppi capitalisti privati ​​per gestire i nostri dati, le nostre fonti energetiche o le nostre reti di trasporto .

Draghi prevede anche investimenti pubblici adeguati, ad esempio nella ricerca e nell’istruzione superiore, ma in un modo troppo elitario e restrittivo. Propone quindi che il Consiglio europeo della ricerca finanzi direttamente le università (e non più solo singoli progetti di ricerca), il che sarebbe un'ottima cosa. Purtroppo il rapporto suggerisce di concentrarsi solo su pochi centri di eccellenza nelle grandi metropoli, il che sarebbe economicamente pericoloso e politicamente inaccettabile. Per quanto riguarda la sanità pubblica e gli ospedali, essi sono quasi del tutto assenti dal rapporto.

In generale, affinché un simile piano di investimenti venga adottato, è essenziale che le aree svantaggiate e le regioni più svantaggiate – tra cui, ad esempio, la Germania – ne traggano beneficio e traggano benefici massicci e visibili. Se Francia, Germania, Italia e Spagna, che riuniscono tre quarti della popolazione e del Pil della zona euro, riusciranno a trovare un compromesso equilibrato e inclusivo sul piano sociale e territoriale, allora sarà possibile andare avanti senza aspettare. all’unanimità e facendo affidamento su uno zoccolo duro di paesi (come prevede il rapporto Draghi). Questo è il dibattito che ora deve iniziare in Europa.


 








domenica 12 aprile 2015

Eatalyanità

 


Gilberto Corbellini
Fenomenologia di Oscar Farinetti
Il Sole 24ore, 12 aprile 2015















Oscar Farinetti, ex mister Unieuro e oggi patron di Eataly, ha quasi preso il posto di Mike Bongiorno nell'immaginario collettivo del Paese. Come prototipo dell'italiano di successo. Per Umberto Eco, autore di un memorabile saggio sulla "fenomenologia" del grande Mike, questi incarnava con le sue memorabili gaffe la mediocrità dell'uomo medio, ed era questa la fonte del suo successo. Farinetti racchiude quel mix di presunzione disinformata, simpatica aggressività da piazzista, vittimismo di fronte alle critiche, furberia e intrallazzi politico-amicali che è la cifra del self made man italiota. Che si fa giustamente e bellamente gli affari suoi, ma vuole allo stesso tempo apparire un modello etico.


Intervistato da un Giovanni Minoli apparentemente perplesso e professionalmente incalzante, di fronte alla domanda se avrebbe preferito guadagnarsi gli 8mila metri di Expo attraverso una gara pubblica piuttosto che per assegnazione diretta come è avvenuto, ha risposto che gli va bene così. Cosa poteve dire? Non è colpa sua se qualcuno gli ha fatto un "regalo".
Ora però egli preferirebbe aver a che fare con le critiche che gli sarebbero mosse da persone morse intimamente da un "rospo", cioè dall'invidia per il suo successo. Che ci sia di mezzo una questione di legalità, nemmeno lo sfiora. Ovvero preferirebbe vivere in un altro Paese. Evidentemente in un paese ancora meno civile di questo. Perché dove la legge fosse davvero uguale per tutti, lui e molti altri non sarebbero riusciti a imporre a una politica incompetente di trasformare l'occasione unica di EXPO2015 in una patetica, nostalgica e tragicamente fallimentare fiera paesana - perché questo è il rischio che si sta correndo - che si propone come antitesi dell'innovazione.
Nel corso dell'intervista è riuscito anche a dire che si usa "troppa scienza e coscienza". Quindi, il suo sogno sarebbe di tornare al medioevo, all'età dell'ignoranza e dell'irrazionalità, o anche più indietro. Forse nelle sue fantasie di onnipotenza ci vede come sudditi da lasciar manipolare ai giullari e ciarlatani che ronzano intorno questuando prebende, cioè ai bravi narratori del vuoto che sembrano dei cloni (altro che biodiversità). Quando mi capita di ascoltare o leggere Farinetti o simili capisco perché, se non cambia rapidamente qualcosa, probabilmente molti altri non vorranno trascorrere qui la loro vita.



lunedì 1 settembre 2014

Claudio Magris, L'Italia stanca e depressa

Claudio Magris
L’impresa di resistere alla crisi in un Paese stanco senza più passioni
Corriere della Sera, 1 settembre 2014


Nel Tramonto dell’Occidente — libro che negli anni Venti ebbe un enorme successo per il suo pathos epocale e il suo miscuglio di intuizioni geniali ed enfasi apocalittica zeppa di strafalcioni logici — Spengler annunciava che la civiltà occidentale — per lui sostanzialmente germanica — esaurito il suo slancio faustiano di espansione e di conquista sarebbe presto morta. Il suo ultimo stadio sarebbe stata una sua pallida ed esangue copia collocata vagamente in Oriente, fra la Vistola e l’Amur, presto destinata a spegnersi. Non è il caso di lasciarsi affascinare dai bagliori della decadenza — già la musica e il suono della parola «Occidente» hanno una seduzione di declino — né dai profeti quasi sempre soddisfatti di proclamare sventure e impermaliti, come Giona, quando tali sventure non si avverano.
Se la nostra civiltà occidentale ha certo le sue gravi difficoltà, nelle altre parti del mondo e nelle altre culture non si sta molto bene.
È innegabile tuttavia che la descrizione di quella civiltà spenta e opaca, priva di passioni, che Spengler situa in un’Europa orientale semiasiatica, assomiglia all’atmosfera che, da non molto tempo ma sempre più diffusamente, si è creata nel nostro Paese. La crisi economica sembra provocare non tanto una lotta per la sopravvivenza, quanto una fiacca rassegnazione. Certamente vi sono molti individui che lottano, con le unghie e con i denti, per la loro esistenza e per la dignità della loro esistenza. Sono essi i protagonisti, i combattenti di questa difficile battaglia. Quello che resiste è il più autentico capitalismo legato ancora all’iniziativa individuale, al rapporto diretto tra il lavoro e il profitto, alla piccola attività ed impresa, mentre il grande capitalismo dei tronfi ed inetti signori del mondo, sempre più anonimi e scissi dalla dura realtà del lavoro, è spesso largamente, talvolta criminosamente colpevole della crisi.
Ma la nostra società sembra aver perso, in generale, mordente, slancio, capacità di progetto e di protesta, passione. Ciò che manca, da qualche tempo, è soprattutto la passione politica, che ha contrassegnato — con le sue lotte, i suoi furori, le sue faziosità, i suoi ideali — la vita del Paese dal Dopoguerra (l’antifascismo e i diversi antifascismi, lo scontro tra comunismo e democrazia liberale, la tumultuosa crescita economica che portava con sé tensioni, entusiasmi e progressi sociali) agli anni dei governi Berlusconi, che scatenavano ancora amori e odi. L’ultima fiammata di irruente accensione degli animi è stato il Movimento 5 Stelle, che tuttavia non solo sembra affievolirsi, ma che non pare essere stato, a differenza di altre formazioni pur tendenti all’estremismo, una componente organica del Paese.
L’Italia sembra vivere stanca, depressa ma senza drammi, indifferente alla politica ovvero al proprio destino, giacché la politica è la vita della Polis, della comunità. Un Paese senza. Fra i negozi vuoti spiccano le trattorie e i ristoranti, decisamente più frequentati; la gola è l’ultimo appetito a morire, resiste alla depressione e alla mancanza di senso più del sesso. Speriamo di non essere alle soglie di un abisso, come negli anni Venti; in ogni caso, manca quella frenesia trasgressiva e disperata di vita che c’era in quegli anni sciagurati ma vivi e che risuona nelle canzoni di Brecht o nelle musiche di Cabaret. La nostra esistenza assomiglia piuttosto a quella di un personaggio di Gozzano, Totò Merùmeni: «E vive. Un giorno è nato, un giorno morirà».

mercoledì 23 luglio 2014

Fofi, l'Italia di Arbasino


Alberto Arbasino, Ritratti italiani
Adelphi, 552 pagine, 28 euro
recensione di Goffredo Fofi

“Meglio di un romanzo”. Scrittore finissimo, Arbasino ci regala una delle sue auto-antologizzazioni più istruttive: una storia d’Italia sregolata, più culturale e “centrale” che eterodossa e più giornalistica che saggistica, che ci conferma nell’ammirazione come nelle riserve per questo imprescindibile scrittore e personaggio. Ci sono tutti, in questi ritratti?
Mancano quelli di chi apparteneva a un mondo diverso da quello frequentato da uno scrittore sempre troppo “in” e “nel vento”, e che alla distanza risultano i rappresentanti di una diversità fortemente etica, studiosi e uomini d’azione che egli avrebbe ben potuto conoscere e ritrarre: da Parri a Olivetti (ma ci sono, molto timorati, gli incontri con Agnelli, Moro, Pertini, Umberto di Savoia), da Mazzolari a Milani (invece c’è Siri), da Salvemini a E. De Martino (ma per fortuna c’è Bobbio), da Morante e Ortese a Sereni e Giudici a Zanzotto e Rosselli. Non c’è, tra i boss, Eugenio Scalfari, che il monumento se lo fa da sé.
L’indice è rivelatore di logiche, curiosità, affinità. Consoliamoci: ci sono i grandi e gli ovvi e grandi marginali della cultura, che l’autore ha tutto il diritto di aver scelto di conoscere. Questi ritratti non bastano a “fare storia”, ma danno il quadro di un’epoca ricca di personaggi memorabili e di artisti, quella del boom e della progressiva italica decadenza.

Internazionale, numero 1060, 18 luglio 2014

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Questo libro di Alberto Arbasino è così straordinariamente bello e ricco che da ogni frase si può ricavare un intero romanzo. Non ci credete? Ecco le prove (a volte, ma di rado, mi sono permesso minimi aggiustamenti).
1) «Il Goffredo che avevo conosciuto a Milano negli anni Cinquanta era un giovanotto di successo…». Titolo: Parise, a noi due.
2) «Un’aura vedovile e scolastica sta avvolgendo la letteratura più originale e più autentica del nostro Novecento…». Titolo: Il lutto si addice alle Lettere.
3) «In un Balenciaga rosso squillante e magari una toque di scimmia, Mimì Pecci si accendeva sigarini e sigarette attraverso la veletta di pizzo…». Titolo: Mimì Marlene.
4) «L’ultima volta che ho visto Pertini, stavo conversando a un ricevimento del Quirinale, quando mi sono sentito due dita improvvisamente nel colletto. Era il Presidente, che andava in giro a controllare i cravattini, e ne aveva già trovato diversi col nodo già confezionato. Li trovava deplorevoli, e li redarguiva parecchio…». Il farfallino di Dinard.
5) «Nei tardi anni Cinquanta abitavo sui tetti di Via Frattina, con una scrivania monumentale senza cassetti (erano serviti a un trasloco di camicie di Franco Zeffirelli)…». Il gatto sul tetto che scotta.
6) «Da ragazzo, Moravia era seccante e antipatico. Raccontava un famoso clinico che quando loro giovanotti andavano a prendere le due sorelle maggiori per qualche thé dansant, e la mamma De Marsanich li accoglieva amabilmente, il giovane autore degli Indifferenti si divertiva a tagliare e cucire le loro maniche e tasche in anticamera…». Albertino disparu.
7) «Nel romanzo Roma, il 24 marzo 1944, Pio XII non è ancora il cadavere male imbalsamato dagli archiatri che esplode durante la veglia notturna a San Pietro, con le guardie svizzere che crollano per la gran puzza sotto il baldacchino del Bernini…». I sotterranei del Vaticano, un horror.
Non c’è una parola di più, una di meno. Solo le parole giuste. Magister.

Antonio D'Orrico
Corriere della Sera, La Lettura, sd