Claudio Vercelli
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ANCORA PAROLE DIFFICILI: LA FOIBA MEDIORIENTALE, OVVERO DIRE COSE DURE POICHE’ STANNO VIVENDO UNA CONDIZIONE DURISSIMA - La tempesta è già arrivata ma presto si trasformerà in un uragano di lunga durata. Il conflitto arabo-israelo-palestinese è giunto ad una svolta, dopo più di vent’anni di apparente status quo, nel mentre invece - carsicamente - le cose in sé mutavano. Nell'indifferenza collettiva. Nulla, quindi, sarà più come prima. Ne sono certo. Nei territori palestinesi così come, e soprattutto, in Israele. Si tratta, forse, dello smottamento traumatico che veniva già da tempo vaticinato da certuni. Anche se non necessariamente nei concreti termini in cui si sta invece rivelando. Ci vorrà comunque tempo per capire in che direzione volgono questi mutamenti. Gli strateghi da bar e da social stanno sentenziando a ripetizione. Io, per il momento, me ne astengo, vedendo solo la prevedibile confusione che deriva dai lunghi periodi di transizione. Un po’, per fare un altrimenti assai improprio parallelo, come nel caso dell’8 settembre del 1943 in Italia. (Altri hanno parlato dell’ 11 settembre 2001 oppure di Pearl Harbour; perché, a questo punto, non anche l’11 settembre 1973, in Cile?) Poiché da italiano, mi rivolgo essenzialmente ai miei connazionali. A dominare, tra coloro che si sentono chiamati in causa (ancora una volta pochi) sono soprattutto sconcerto, angoscia e spiazzamento. Ad essi, non a caso, seguiranno risposte del tutto inedite. Vedremo, al riguardo, quali, con l'opportuno lasso di tempo. Poiché sul piano palestinese, al netto di qualsiasi pindarica analisi “geopolitica” sugli interessi, e le pretese, di altri attori dello scenario regionale (primo tra tutti l’Iran), rimane il fatto che la presa di Hamas – che si è ulteriormente radicalizzata, plausibilmente anche per rispondere alla spinte centrifughe di componenti alternative, sempre più manifeste nei suoi territori – volge alla frantumazione di ciò che residua dell’oramai agonizzante potere di Fatah, dell’Olp e dell’Anp, per quindi vampirizzarne le “mortali spoglie”. (Anche se è mia impressione che quanto stia avvenendo potrebbe determinare soprattutto il definitivo declino dalla causa palestinese; si tratta - tuttavia - di una considerazione da lasciare in sospeso, ossia tra parentesi, per poi eventualmente riprenderla e argomentarla in momenti diversi da quelli che stiamo adesso vivendo.) Hamas, e i suoi accoliti, sono rigorosamente concentrati su un’unica ipotesi: cancellare Israele, in quanto non solo “Stato abusivo” ma intollerabile offesa verso Dar-al Islam. È l’impuro che si è sovrapposto alla “purezza” del verbo islamista. Cosa in sé diversa dalle molteplici identità musulmane, che il fondamentalismo nega. Si tratta quindi di Jihad contro gli «ebrei». È questa la sua mission storica e lo ha ribadito, senza tanti giri di parole e gesti, in questi ultimi giorni. Non è questione di mera e gratuita cattiveria: semmai si tratta di un’opzione politica meditata nel tempo. L’essere terroristi non implica in comportarsi da deficienti, tanto per capirci. Hamas, in fondo, dopo la morte dei comunismi e delle tante vie secolarizzate all’emancipazione nazionale, ha coperto un vuoto che si era andato creando tra i palestinesi. Lo ha fatto, si intende, a modo suo. Sul versante israeliano, quando l’ennesima emergenza – in sé tuttavia molto diversa da quelle precedenti, trattandosi di una vera e propria “catastrofe” nazionale poiché ha colpito civili del tutto indifesi – si sarà conclusa, plausibilmente con un di più di ludibrio da parte della comunità internazionale (posto che operare da terra, oltre che da aria, a Gaza Strip, implica inevitabilmente il colpire i civili), [il pubblico] chiederà invece ragione di quanto è successo alle sue classi dirigenti. Otterrà risposte tanto prevedibili quanto parziali. Non ho difficoltà a ritenere che, a quel punto, finita l’esigenza di un Burgfrieden, di un’union sacrée tra anime opposte, nel nome del fondamentale principio di autodifesa (cosa il cui significato in Italia non si capisce in alcun modo), non solo ritorneranno i profondi dissensi che Hamas ha contribuito ad anestetizzare temporaneamente ma anche un prevedibile surplus di contrapposizioni, altrimenti solo momentaneamente lasciate a macerare. Riduco il concetto di fondo ai minimi termini: si chiederà a Benjamin Netanyahu - che come king maker della politica israeliana, ossia asso pigliatutto, ben presto rischierà di divenirne anche l’agnello sacrificale, a fronte dell’entropia di una parte delle istituzioni israeliane - quale sia stata la ratio politica di quanto sta (ancora) succedendo, a partire dalle vittime israeliane, per arrivare anche a quelle della controparte. Non basterà al premier la sua comprovata capacità mediatoria e coalittiva. Poiché se “nulla sarà più come prima”, ciò allora riguarderà anche l’animo profondo degli israeliani. Già in parte esasperati e divisi da un governo che ne rappresenta senz'altro alcuni tuttavia a danno di altri. A versare il maggiore tributo di sangue, infatti, è stata la componente secolarizzata, tanto per capirci. Non si tratta di fare una cernita e un conteggio, men che meno adesso, ma di comprendere quali siano i veri soggetti del grande disagio, oltreché della paura. Si tratta quindi di capire che una società pluralista non risponde nel medesimo modo alle identiche sollecitazioni, al netto dell’imprescindibile e indiscutibile richiamo corale a difendersi. La qual cosa è invece ben diversa dal puro nazionalismo identitario. Se così non fosse, altrimenti, ben poco distinguerebbe una democrazia da un movimento teocratico. In Israele il pluralismo funziona, ancorché con tutti i limiti del caso. In sé crescenti. A Gaza, per molti “militanti” l’idea di democrazia è invece solo un pallido inganno “coloniale”. Un mio tale, lungo incipit serve – infine - solo per arrivare ad un dunque, ossia al riscontro che, dinanzi alla tumultuosa evoluzione degli eventi, ci sono sempre e comunque due posizioni, per me altrettanto intollerabili. La prima è quella degli oppositori a prescindere, coloro che sostituiscono alla contraddittoria realtà dei fatti, ancorché spesso nebulosi, l’autoaffermazione identitaria, in genere mascherata sotto il richiamo all’umanitarismo che si finge universale quando, invece, è unilaterale. Qualcosa che concretamente si dà nell’espressione: “la nostra parte è migliore poiché è la più indifesa”. Un lascito, quest’ultimo, del terzomondismo che si è immediatamente diffuso nella coscienza di sé occidentale. Il dispositivo implicato da questa affermazione è, al medesimo tempo, sia di ordine vittimistico (“siamo soverchiati dai più prepotenti, dovete non solo appoggiarci bensì amarci incondizionatamente”) sia di natura egocentrica (“siamo il nocciolo della vera umanità, valiamo in quanto tali, a prescindere da qualsiasi riscontro di merito; come tali, vinceremo!”). Questo atteggiamento, a certe determinate condizioni, costituisce il grado zero della politica. Ovvero, concorre a cancellare dal comune orizzonte la necessità di comprendere appieno che l’esistenza associata non è un rullo inesorabile bensì il ripetersi di discontinuità. Che, come tali, vanno invece costantemente mediate. In un’impressionante declino dell’autonoma capacità critica, il campo di ciò che chiamiamo con il nome di “sinistra”, quanto meno una parte di essa, esaurita la speranza in un futuro migliore, si è invece adagiata su questo identitarismo che – storicamente - è, altrimenti, soprattutto il vero nocciolo delle destre illiberali dal 1789 in poi. (Avviso per i naviganti: la “sinistra”, storicamente, non si è mai richiamata alle sole vittime bensì alla capacità di andare ben oltre un orizzonte vittimimistico, prendendo nelle proprie mani, prometeicamente, il destino.) Ad oggi, si tratta di una sorta di gioco delle specularità, dove, il richiamo belluino, ferino, ferale degli uni corrisponde a quello degli altri. In parole povere: ci sono molti utili idioti che fanno il verso ad Hamas, senza capire che l’islamismo radicale ha, in Europa, come suo omologo, soprattutto il nazionalsocialismo. Non certo, per capirci, la “lotta di Liberazione”. Punto e a capo. La seconda opzione è quella che invece cerca, nel proprio campo, i cosiddetti “traditori”, tali poiché non cadavericamente allineati sulla celebrazione del gruppo di appartenenza, inteso al pari di una sorta di tribù bellicosa che, proprio nel richiamo al più vieto oltranzismo, trova la sua stessa ragione d’essere. Qualcosa del tipo: “non esisto per ciò che penso di me ma per quanto riesco ad identificare come elemento di alterità rispetto alla mia persona e al mio gruppo di identificazione: chiunque si permetta una critica, è allora un intruso, uno straniero, un alieno, un perturbante”. Poiché altrimenti, ovvero se così non fosse, il potere risulterebbe al pari di un “re nudo”. Privo, come tale, di regalità, ossia di legittimazione. Si tratta, nel qual caso, di una disposizione d’animo che vuole fare pulizia politica, prima ancora che etnica, al suo proprio interno. A volere dire che le grandi crisi si risolvono non solo contrapponendosi ai “nemici” ma anche ai “falsi amici”, quelli che si permettono di obiettare qualcosa. L’una e l’altra posizione mascherano il vuoto della politica che alberga un po’ ovunque. Costituiscono solo autoinganni, destinati a cadere rovinosamente, come maschere per un massacro. Dopo che quest’ultimo, si intende, si sia già compiuto. La storia, come diceva qualcuno, potrebbe insegnare molto ma non ci sono allievi disposti ad ascoltarla. Aggiungo da me: oggi, sulla piazza pubblica, ci sono soprattutto imprenditori politici della paura. So dove stare ma, francamente, non so con chi starò, se si parla non di ragioni bensì di persone. Che possono fare la concreta differenza…
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