William A. Galston, Il destino segnato di Bibi Netanyhau, La Stampa, 12 ottobre 2023
Il 22 settembre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato in modo fiducioso davanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Gli scettici avevano torto, ha detto, Israele ha firmato gli Accordi di Abramo con Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco senza un trattato di pace con i palestinesi. Gli Accordi prefigurano «l'alba di una nuova era di pace» in Medio Oriente, che raggiungerà il suo punto più alto con un'intesa tra Israele e Arabia Saudita. Quando si arriverà a ciò – Netanyahu ha detto «quando», non «se» – «i palestinesi saranno più propensi ad abbandonare il loro sogno di cancellare Israele e, una buona volta, imboccheranno la strada di una pace vera e propria con esso». Quindici giorni dopo, Hamas ha perpetrato un attacco terroristico a sorpresa che ha portato alla morte di almeno mille israeliani, perlopiù civili, e al ferimento di altri 3400. I sauditi avrebbero potuto reagire denunciando in modo esplicito gli omicidi commessi da un'organizzazione che, per la sua stessa ideologia, si colloca tra le file dei nemici dell'Arabia Saudita. Al contrario, il ministro degli Esteri del regno saudita ha rilasciato una dichiarazione nella quale sottolinea di aver «ripetutamente lanciato moniti sui pericoli legati a una situazione esplosiva, derivante dall'occupazione continua, dall'esautorazione dei diritti legittimi del popolo palestinese e dal ripetersi di sistematiche provocazioni contro i suoi luoghi santi». Il messaggio saudita a Netanyahu è dunque: non pensare neanche lontanamente che, lungo la strada verso la normalizzazione dei nostri rapporti, siamo liberi di mettere in secondo piano la questione palestinese.
A
prescindere da quello che ciò può voler dire per i palestinesi in
Cisgiordania, però, Hamas è un'altra faccenda. Non può esserci pace tra
Israele e Hamas perché, fin dall'inizio e tuttora, quest'ultima ha
giurato di spazzare via Israele. Non dovete credermi sulla parola.
Leggete i suoi "General Principles and Policies" pubblicati
dall'organizzazione nel 2007. Nel documento c'è scritto che la Palestina
si estende «dal fiume Giordano a est fino al Mediterraneo a ovest». È
una unità territoriale integra, vale a dire indivisibile. Inoltre, è
anche «una terra santa» nel cuore della comunità araba e islamica e gode
di uno «status speciale». Hamas dice che il progetto sionista – che è
«razzista, aggressivo, coloniale, ed espansionista» – è completamente
illegittimo, come lo sono anche la Dichiarazione Balfour, il Mandato
britannico della Palestina e la Risoluzione delle Nazioni Unite per la
spartizione della Palestina. L'istituzione di Israele è «del tutto
illegittima». Il documento prosegue affermando che Hamas crede che
«nessuna parte del territorio palestinese debba essere violata o
concessa e che non debba esserci riconoscimento alcuno della legittimità
dell'entità sionista».
Hamas
sostiene che il suo dissenso è nei confronti dei sionisti, non degli
ebrei e della loro religione. Il suo statuto fondativo, reso noto nel
1988, smentisce però questa affermazione. L'Articolo 7 di questo
documento riporta le parole del Profeta Maometto: «L'Ultimo Giorno non
verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i
musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno
dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: "O
musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e
uccidilo"». Come ci si comporta con un nemico implacabile che ha
giurato di annientarti politicamente e fisicamente? Israele ha fatto
affidamento a lungo sulla deterrenza e sulla difesa. Entrambe hanno
fallito. Adesso Israele deve affrontare una situazione nuova. La sua
reazione iniziale è consistita in lanci massicci di missili e nel blocco
totale di Gaza. Il ministro israeliano della Difesa Yoav Gallant ha
annunciato che «non ci saranno elettricità, cibo, carburante. Sarà un
isolamento totale».
Questo non è che
l'inizio. Credo che Netanyahu abbia deciso di procedere a un'invasione
vera e propria della Striscia di Gaza e che, in queste circostanze,
qualsiasi leader israeliano farebbe la stessa cosa. Lunedì, durante un
briefing, il generale israeliano in pensione Noam Tibon, illustre e
stimato esperto di antiterrorismo, acceso sostenitore della Soluzione
Due Stati, ha detto: «Dobbiamo spingere la guerra dentro Gaza più a
fondo possibile». Ha sostenuto che «Hamas deve pagarla» e che a Israele
non resta altra scelta se non trionfare con una «vittoria decisiva». Ha
ammesso che l'invasione sarà feroce e orribile e che potrebbe portare
all'esecuzione degli ostaggi catturati da Hamas, ma ha anche lasciato
intendere che queste spaventose conseguenze non dovrebbero intralciare
l'operazione.
Non è questo il momento
delle recriminazioni, ma le recriminazioni ci saranno. Al termine
dell'operazione a Gaza, verosimilmente ci sarà una commissione
d'inchiesta, come ci fu dopo la Guerra dello Yom Kippur cinquanta anni
fa. Adesso è prematuro supporre che cosa riveleranno le indagini, ma
stando a quello che è stato riferito – e che il governo ha smentito
immediatamente –, Israele ha ignorato ripetuti avvertimenti provenienti
dall'Egitto. Aharon Ze'evi Farkash, ex capo dell'intelligence
dell'Israel Defence Forces (Idf), accusa il governo di aver dirottato in
operazioni in Cisgiordania i soldati addetti alla difesa delle
cittadine israeliane vicine alla Striscia di Gaza. Indubbiamente, da
parte dell'intelligence c'è stato un fallimento colossale, e la reazione
dell'Idf all'invasione è stata spaventosamente lenta.
Le
guerre cambiano le nazioni. Per tutta la sua carriera, Netanyahu si è
tratteggiato come il leader più adatto a garantire la sicurezza di
Israele. Gli eventi degli ultimi giorni hanno invalidato questa sua
affermazione. Suppongo che la sua carriera politica finirà subito dopo
la guerra, aprendo così la strada a cambiamenti radicali nella politica
di Israele. —
Traduzione di Anna Bissanti
© 2023, The Wall Street Journal
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