Achille Occhetto, L'eclissi della ragione, la Repubblica, 30 ottobre 2023
... Si è venuto così a formare in molte coscienze un nodo di equivoci,
una sovrapposizione di piani che diventa sempre più difficile
sciogliere. Non resta altra via che tagliarlo con la lama della ragione
e della proposta. Sul piano storico, e anche al fine di trovare una
via d’uscita, è del tutto doveroso ricordare, come ha fatto il
Segretario generale dell’Onu, il contesto delle responsabilità che
hanno alimentato la tragedia in corso. Purché si riaffermi sempre con
chiarezza che la responsabilità immediata è di Hamas e non va, per
nessuna ragione, giustificata. Sul terreno della passione e del
cordoglio ci si può immedesimare nell’odio e nelle paure di tutti e
due i popoli. Ciascun atto nefasto può essere vissuto, da ciascuno di
noi, con la “compassione” che è dovuta a tutte le vittime, senza
distinzioni. Quello che è dannoso fare è fomentare, nelle piazze
europee, lo scontro tra diverse “martirologie”. Se vogliamo aiutare
tutti e due i popoli a ritrovare la strada della reciproca comprensione
spetta a noi, che non abbiamo subito le loro sofferenze, mantenere i
nervi a posto, coltivare la lucidità di giudizio, non alimentare faziose
tifoserie, mossi dall’unica vitale preoccupazione di trovare una via
d’uscita. Sto parlando del destino dei popoli e non dei loro dirigenti.
Questo è il vero aiuto che noi europei possiamo e dovremmo dare:
quello di avere il privilegio di potere ragionare al di sopra dei
reciproci odi al fine di scongiurare una generale “eclissi della
ragione” che potrebbe diventare incontrollabile.
Va bene, va benissimo chiedere la cessazione del fuoco o le tregue
umanitarie. A patto però che tali richieste non nascondano la tendenza
a prendersi una pausa nella faticosa ricerca di una soluzione. Va bene
invocare una pace giusta e durevole a patto che ci si muova con
decisione per imporre, senza compromessi commerciali, ai paesi arabi la
rinuncia alla distruzione dell’“entità sionista” e agli israeliani
quella dell’occupazione senza fine. Il nodo fondamentale da spezzare è
il reciproco sostegno tra due fondamentalismi religiosi, quello che
ispira l’ultra destra israeliana e quello dello jihadismo arabo,
immortalato nella fotografia della “triplice alleanza del terrore”
incarnata dai capi di Hamas, della Jihad islamica e degli Hezbollah.
Lo ripeto, è del tutto evidente che i due popoli non potranno mai
convivere sullo stesso territorio se saranno diretti da due opposti
fondamentalismi che si fondano sulla reciproca distruzione.
Quello che si stenta ancora a focalizzare con la dovuta attenzione è
che c’è stata una cesura drammatica nella “questione palestinese”.
Un raccapricciante slittamento dal terreno di un laicismo di natura
nazionale a quello di un progressivo fondamentalismo religioso che
rischia di diventare maggioritario nella stessa Cisgiordania. La
comunità internazionale, con la sua inettitudine, è essa stessa
responsabile di questo slittamento. Si è perso un patrimonio umano e
politico estremamente prezioso. Ho avuto modo di conoscere sul campo
Simon Peres e Yasser Arafat, nel corso del mio primo viaggio in Medio
Oriente da segretario del Pci. Non posso dimenticare la straordinaria
apertura mentale di Peres e le parole dette da Arafat, parole che,
viste oggi, mi paiono premonitrici. Mi ha detto rivolgendosi
all’Europa: «Ho fatto tutto quello che l’Occidente in questi anni mi ha
chiesto. Ora sta a voi rispondere positivamente». L’ho poi rivisto
pochi anni dopo nella Striscia di Gaza, che, ormai in preda al
pessimismo, mi ha sibilato sotto voce: «Se l’Occidente continua a non
darmi una mano nella soluzione della questione palestinese, io non
riuscirò più a governare “intifada” sempre più radicali ». Peres e
Arafat erano due laici, aperti alla comprensione reciproca. Riuscirà
l’Europa a riallacciare le fila di una tela così tragicamente spezzata?
Bisogna comprendere c he occorre lavorare per trovare nuovi
interlocutori capaci di comprendersi. E non lo si può fare mantenendo
distinto il momento della forza da quello che Gramsci chiamava il
momento dell’egemonia intellettuale e morale. È del tutto evidente che
con Hamas si deve trattare per la priorità della liberazione degli
ostaggi, ma non lo si può fare su una prospettiva di pace che,
rispettando le risoluzioni dell’Onu, si fondi sull’esistenza di due
Stati. A questo punto del mio ragionamento mi si risponderà che nel
campo palestinese non esiste un interlocutore credibile. È vero.
Tuttavia in tutte le guerre si è sempre pensato anche a dar vita a
interlocutori credibili. Per questo Israele accanto alla forza dovrebbe
coltivare quella egemonia intellettuale e morale che le permetterebbe
di sconfiggere politicamente e non solo militarmente Hamas. E lo può
fare prendendo decisamente nelle proprie mani la prospettiva dei “due
Stati”. E cercando, in campo palestinese, i possibili interlocutori.
Faccio un solo nome, esclusivamente a titolo di esempio. In una
prigione israeliana sta da vent’anni languendo Marwan Barghouti,
considerato da gran parte del suo popolo un Mandela palestinese, che
nel 2002 ha dichiarato al Washington Post che «la strada sarà tracciata
con chiarezza se i vicini indipendenti e uguali d’Israele e di Palestina
potranno negoziare un avvenire pacifico tessendo stretti legami
economici e culturali». Ricordo bene, per averne sentito parlare nelle
mie visite alla striscia di Gaza, che, a suo tempo, numerosi membri del
parlamento europeo tra i quali Meir Sheetrit avevano caldeggiato il
rilascio di Barghouti come parte di future negoziazioni di pace, e
ricordo anche che Shimon Peres si era espresso a favore del “perdono
presidenziale”.
Liberarlo oggi per creare un nuovo interlocutore credibile per il
popolo palestinese? È solo un esempio. Non intendo certo sovrappormi
alla fervida fantasia dei “Grandi della terra” allorquando si ricordano
che accanto ai muscoli convive “l’esprit de finesse” del cervello
politico e diplomatico.
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