Alan Friedman, L'onda giovane dei democratici, La Stampa, 11 novembre 2022
Le elezioni di Midterm che si sono appena
tenute negli Stati Uniti hanno un grande significato, sia per gli
americani che per il mondo. In senso positivo. Un numero importante di
"Negazionisti del voto" (i seguaci di Trump che proclamano ancora che il
loro leader abbia vinto le elezioni del 2020) sono stati sconfitti alle
urne. La famigerata "onda rossa" non è arrivata, la vittoria a valanga
dei repubblicani non si è vista. Non ci si aspetta neanche che il
prossimo Congresso limiti gli aiuti all'Ucraina. Lo sviluppo più
plausibile per il momento è che il Senato rimarrà diviso a metà tra i
due partiti, 50 e 50: il fatto che i Repubblicani non abbiano riportato
un risultato migliore è sorprendente. Tutti si attendevano uno tsunami, e
invece i democratici sono riusciti a difendersi. Il controllo del
Senato dipende sui risultati di Arizona, Nevada, Wisconsin e soprattutto
dal risultato di uno speciale ballottaggio per il seggio della Georgia,
che si terrà il sei dicembre.
Passando
alla Camera dei Rappresentanti, dove la Speaker Nancy Pelosi presiedeva
una maggioranza democratica di 220 seggi su 435, a quanto pare il
partito dell'asinello perderà giusto una manciata di seggi. I
repubblicani otterranno la maggioranza, si, ma sarà così risicata da
limitare la capacità di azione del successore di Pelosi, che non avrà un
forte mandato e non potrà attuare molte delle minacce lanciate contro
Biden. Kevin McCarthy, papabile Speaker repubblicano, ha per esempio
suggerito di rivedere l'aiuto militare che viene fornito all'Ucraina. Ma
è improbabile che, con una maggioranza parlamentare esigua, sarà
davvero in grado di azzoppare l'attuale politica pro Ucraina di Biden.
In effetti, la notizia forse più sorprendente è il numero – davvero
molto basso – di seggi che i Democratici hanno perso alla Camera. Tutti i
sondaggi prevedevano che i repubblicani avrebbero conquistato molte
decine di nuovi seggi. Cosa che semplicemente non è successa. Anzi,
queste elezioni di midterm potrebbero rappresentare il risultato più
positivo per il partito di un presidente in carica da decenni.
Per
avere un quadro di insieme: nelle ultime elezioni di Midterm, quelle
del 2018, il partito repubblicano del presidente Trump ha perso 40 seggi
alla Camera in favore dei democratici. Nel 2010 i democratici del
presidente Barack Obama persero 63 seggi. Nel 2006, i repubblicani del
presidente George W. Bush persero 30 seggi. Nel 2022 Joe Biden ne avrà
persi tra cinque e dieci: si può pure dire che ne esca rafforzato. I
risultati delle elezioni dimostrano in realtà che gli americani non
l'hanno ripudiato. Dimostrano anche che molte donne sono così arrabbiate
dalle decisioni della Corte Suprema contro l'aborto che sono andate a
votare per i democratici. Dimostrano anche che il sostegno più robusto
ai democratici è venuto dai giovani, dai ventenni e trentenni d'America.
Com'è ovvio, i risultati sono anche lo specchio di una nazione che è
profondamente divisa. I democratici hanno perso la Camera, ma questo non
significa necessariamente che Joe Biden sia condannato a diventare
un'anatra zoppa. I repubblicani cercheranno senza dubbio di rendergli la
vita difficile non appena prenderanno il controllo della Camera, a
gennaio. Cancelleranno la Commissione che cercava di far luce
sull'insurrezione del sei gennaio, e al contrario faranno partire nuove
indagini su Hunter Biden e sull'era Covid. Minacceranno di bloccare il
processo di bilancio, di mettere pressione alla Casa Bianca. Potrebbero
persino arrivare a richiedere l'impeachment per Biden. Tutto
prevedibile.
Ma diciamo le cose come
stanno: i repubblicani sono feriti, le elezioni di mid term sono andate
male per loro, la marea che aspettavano non è montata, e alcuni dei
candidati più estremisti scelti da Trump sono stati sconfitti. L'ex
presidente stesso, che si trova adesso davanti alla concreta prospettiva
di dover affrontare uno o più processi, è un leone ferito, arrabbiato e
frustrato perché i suoi non hanno saputo far di meglio. Per i
repubblicani è giunto il momento di guardarsi dentro, di cercare la
propria anima, di decidere che partito vogliono essere. Trumpiano o
post-trumpiano?
Ed è qui che entra in
scena Ron De Santis. Il governatore della Florida è un
quarantaquattrenne sveglio, uno che ha studiato a Yale. Lo chiamano il
"Trump degli intelligenti", una versione di Trump più brillante, e
perciò potenzialmente ancora più pericoloso. Ci sa fare. È carismatico.
Ma Ron de Santis è sempre stato un estremista. Da tutta la vita. Un
populista di estrema destra, così omofobo da far passare la legge "Non
dire gay", e ha iniziato a licenziare migliaia di insegnanti, punibili
se solo si azzardavano a pronunciare quella parola in classe. De Santis è
un fondamentalista anti-aborto, un demagogo anti-immigrati. Sì, è tutte
queste cose. Eppure ha un forte impatto su un partito repubblicano che
si chiede se non sia finalmente arriva ta l'ora di girare pagina e
lasciarsi alle spalle Donald Trump.
Dopo
le elezioni di mid-term De Santis è adesso lo sfidante naturale di
Trump per la nomination repubblicana del 2024. E questo lo mette contro
The Donald, che al contrario esce indebolito dal responso delle urne.
Possiamo quindi aspettarci nell'immediato futuro una Guerra dei
Populisti, un duello tra De Santis e l'uomo da Mar-a-Lago. —
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