giovedì 6 gennaio 2022

Paolo e Francesca

 
 
 
 
Inferno, 5, 76-142
 
Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi
 
I’ cominciai: "Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri". 
 
leggeri: questo aggettivo, oltre al senso proprio che è riferito al peso (cfr. Purg. XII 12), acquista anche il significato di «agile», «spedito» (I 32; XXI 33) fino a quello di «veloce» (Purg. XXIV 69). Esso qui indica che i due spiriti appaiono travolti e trascinati dal vento infernale, quasi non avessero peso. Alcuni antichi videro in questo una connotazione di maggior pena («erano più veloci, perché erano più tirati dal vento, cioè avevano maggior pena»: Landino, Vellutello). Noi diremmo piuttosto che ciò significa in modo evidente la singolare fatalità di quella passione (come non vi resistettero e si abbandonarono in vita, così ora si abbandonano al vento), ma il modo di rappresentarla è ancora una volta delicato – più avanti essi saranno paragonati a colombe – mantenendo quella connotazione di gentilezza che nessun lettore potrà mai togliere alla storia di Francesca.

Comincia qui la seconda parte del canto (anche nel numero dei versi il canto è esattamente diviso in due, con questa terzina di sutura), che è il suo vero cuore e ragion d'essere: la storia di Francesca. Ma la prima ha, come vedemmo, la funzione di intonare e preparare, come per avvicinamento, nei suoi temi fondamentali, la grande vicenda umana, tragica e pietosa, che qui ha inizio. Dante non fa a caso, come corona e sfondo a Francesca, i più grandi nomi – Didone, Elena – dell'umana poesia. Anche l'ignota Francesca sarà destinata a far parte, non ultima, di quella fila.

Quali colombe dal disio chiamate                                                                                                                          con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;
84

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettüoso grido.
87
 
"O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso

noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
90
 
Quali colombe...: la similitudine, che interviene prima che i due spiriti si muovano e parlino, così da connotarne in anticipo l'aspetto e il movimento, risente – non a caso – della dolcezza virgiliana della sua origine («qualis spelunca subito commota columba, / cui domus et dulce latebroso in pumice nidi, / fertur in arva volans... mox aere lapsa quieto / radit iter liquidum celeris neque commovet alas»: Aen. V 213-7): ma spogliata di molti particolari e accresciuta di due parole essenziali – disio, voler – che danno un carattere umano a quel volo (Parodi), essa solleva il tono, nella bellezza del suo perfetto giro ritmico e figurativo, preludendo al momento centrale del canto. Della dolcezza e gentilezza – qui presenti anche nell'andamento melodico del ritmo – di cui Dante circonda fin da principio Francesca, già abbiamo detto; qui compare potente nel verso quel disio (istinto amoroso nelle colombe, passione nell'uomo) che avvolto di dolcezza è poi la prima origine di tanto dolore e rovina (cfr. vv. 113-4). Esso risponde pur in questa soave figura – al talento del verso definitorio iniziale (v. 39), tragicamente anteposto alla ragione umana.
animal: essere vivente, animato (cfr. II 2; Purg. XXIX 138; Par. XIX 85).
grazioso e benigno: cortese e benevolo («grazia [è] dolce e cortesemente parlare»: Conv. IV, xxv 1); che tale appari dalle tue parole verso di noi. Sono le prime parole di Francesca; il primo verso che pronuncia è pervaso di gentilezza, diffusa da queste due parole che ella rivolge a Dante.
noi: tutte le anime di quella schiera, morti uccisi o suicidi.
che tignemmo: che col nostro sangue tingemmo il mondo di rosso; l'immagine porta con sé il termine proprio dell'arte tintoria («tinger lana in sanguigno»), termine che d'altra parte richiama il sangue versato in quelle morti: stretto circolo della fantasia e del linguaggio, proprio dei momenti più intensi di quest'arte. Qui già prende voce in Francesca l'amaro rimpianto per quella sua morte che le è sembrato insanguinasse il mondo intero, e s'intona sul suo vero registro quella storia che apparve così piena di dolcezza.
 
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’ hai pietà del nostro mal perverso.
93
 
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace. 96

ci tace: qui tace; l'uso di ci enclitico e proclitico come avverbio di luogo è comune nel poema. Che il vento taccia in quel luogo (ma non altrove) per un certo tempo, per permettere il colloquio, rientra nella norma – se così può dirsi – delle eccezioni fatte per Dante durante il suo viaggio; ed è naturale che Francesca lo noti come fatto non comune. Altri intende ci come dativo di vantaggio (tace per noi), basandosi sul richiamo virgiliano: «et nunc omne tibi stratum silet aequor» (Ecl. IX 57). Meno forte la pur autorevole lezione si tace (più agevole e bella all'orecchio di noi moderni, e sostenuta da Gmelin, Pagliaro e Sapegno), sia perché lectio facilior, sia perché quella bufera, è stato detto in modo categorico, mai non resta.

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui. 99 
 
Siede...: è situata; la terra, la città di Ravenna, che nel Medioevo sorgeva ancora vicino al mare. Quasi sempre, nella Commedia, le anime indicano per prima cosa la loro patria d'origine, quasi essa le caratterizzi in modo eminente, come punto di riferimento sulla terra (così già Virgilio: I 68-9). Qui comincia la storia, condotta per brevi tratti, in solo quattro terzine. Francesca, figlia di Guido il Vecchio da Polenta, signore di Ravenna, sposò nel 1275 Gianciotto Malatesta, signore di Rimini; il matrimonio doveva suggellare la pace tra le due famiglie, a lungo rivali. Ma Francesca s'innamorò di Paolo, fratello del marito, e questi li sorprese e li uccise entrambi. Il fatto, databile tra il 1283 e il 1285 – al tempo quindi della giovinezza di Dante –, ebbe probabilmente larga eco tra i contemporanei, e particolarmente in Firenze, dove Paolo era stato capitano del popolo nel 1282. Non ce n'è rimasta tuttavia alcuna traccia all'infuori del passo dantesco, e da questo sembrano dipendere tutti gli antichi commentatori. Il Boccaccio racconta che Francesca fu ingannata, avendo creduto di dover sposare Paolo, e trovandosi poi sposa dello sciancato Gianciotto («ciotto» vale appunto zoppo, sciancato); ma si tratta evidentemente di una leggenda, prima di tutto perché qui non se ne fa cenno, e poi perché Paolo risulta sposato dal 1269. Si e supposto (Mattalia) che Dante abbia scelto questo esempio in polemica contro i Malatesta, da lui bollati come tiranni e traditori in XXVII 46-8 e XXVIII 76-90. Ma si noti che qui non si fa alcun nome, tranne quello di Francesca, ed è risaputo che Dante non tace i casati e le famiglie quando vuole che siano riconosciuti; anche Paolo e Gianciotto non sono nominati, e nemmeno le due città, come se tutto avvenga soltanto in funzione di colei che parla. Questo velo steso sui nomi ha certamente un suo significato (e cioè che la storia, crediamo, non ha alcun riferimento politico, ma solo all'individuo Francesca – emblematico per tutta l'umanità) e sembra prudente rispettarlo; è del resto difficile poter cogliere il perché di una scelta che è racchiuso, come molti altri nella Commedia, nell'alta fantasia che la compì.

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
102

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona. 105

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense".
Queste parole da lor ci fuor porte. 108 

Caina attende...: Caina è la zona dove sono puniti i traditori dei parenti, nel fondo dell'inferno. È questa quindi una maniera velata per indicare chi fu l'uccisore e anche il modo dell'uccisione (sorpresi forse per inganno o tradimento); tale riserbo e velo è tipico del parlare di Francesca (cfr. i vv. 102 e 138) e si ritroverà in altre figure di giovani donne della Commedia (si vedano le parole di Pia – Purg. V 135-6 – e di Piccarda – Par. III 106), quasi segno della delicatezza femminile, come Dante la intese e la raffigurò.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: "Che pense?".
111
  
Quando rispuosi, cominciai: "Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!". 114

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?". 120

E quella a me: "Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore. 123

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice. 126

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto. 129

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse. 132

Per più fïate: più volte.
li occhi ci sospinse: spinse i nostri occhi, quasi facendoci violenza, a guardare l'uno quelli dell'altro. La forza di questo verbo, come la suggestione dell'altro (scolorocci), sono i due perni fantastici della terzina e di tutta la scena.
 
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
135
 
il disiato riso: la bocca sorridente e desiderata; «la bocca che più dimostra il riso che niuna altra parte del corpo» (Buti).
 
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante". 138
 
Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com'io morisse. 141

E caddi come corpo morto cade.
 .
 Nota critica

A lungo questo brano è stato interpretato seguendo le orme dei lettori romantici che, da Foscolo a De Sanctis, hanno visto nell’episodio un’esaltazione dell’amore-passione: la pietà di Dante diventava ai loro occhi il segno di una comprensione umana, che continuava a manifestarsi in un quadro pur sempre dominato  dall’ordine inflessibile dell’oltretomba. Nel Novecento la critica ha seguito altre strade. Con Pagliaro "l’attenzione per l’analisi linguistica ha portato verso una lettura in chiave metaletteraria dell’episodio. Fondamentale, su questa strada, è stato il saggio di Contini, che ha sviscerato nel discorso di Francesca, attraverso una rete precisa di citazioni, i riferimenti a molteplici fonti, che vanno dal De amore al De amicitia ciceroniano, da Fra Giordano da Pisa a Aimeric de Peguilhan, da Guittone d’Arezzo a Boezio, passando attraverso san Tommaso d’Aquino (che descrive con precisione i meccanismi della concupiscenza). Francesca diventa, in questa prospettiva, non una semplice dilettante, ma un’autentica professionista della letteratura". (Letteratura europea Utet) Non stupisce che una simile linea di pensiero si sia imposta tra gli addetti ai lavori. Il grande pubblico potrebbe essere più sensibile ad altri aspetti ben sottolineati nel commento di A. M. Chiavacci Leonardi. Nessun altro personaggio della vicenda viene nominato a parte Francesca che domina la scena. L'illustratore Gustave Doré ha colto benissimo il punto proiettando in primo piano la candida sagoma di Francesca  e assegnando un ruolo di sostegno alla figura di Paolo. I romantici davano molta importanza all'anafora costituita dall'uso ripetuto della parola "amore". Paolo e Francesca avrebbero agito seguendo l'impulso dell'amore. Un'altra parola che pure ritorna spesso nel brano è "desiderio", in varie forme: "disìo" per due volte e poi disiri, disiato. Nel vocabolario cristiano il desiderio prende il posto della passione, presente nella filosofia greca. Al di là della vernice letteraria, resta il fatto che la pulsione amorosa mantiene tutta la sua importanza nel testo.
E' curioso infine che tra tanti riferimenti non sia richiamato il Vangelo: "Siate candidi come colombe  e astuti come serpenti" (Matteo, 10, 6). Forse Gustave Doré non ci aveva pensato ma la sua immagine di Francesca ben si adatta a una lettura del genere. (Giovanni Carpinelli)

Si veda inoltre sul ruolo del desiderio nel Vangelo e nella parola di Gesù
http://machiave.blogspot.it/2013/01/una-lettura-psicanalitica-dei-vangeli.html

Antonio Enzo Quaglio, Matilde Luberti
Francesca da Rimini,
Enciclopedia dantesca, 1970
 
Dalla dolorosa istoria del Boccaccio alla plastica figura scolpita dal Foscolo, a pretesto di un giuoco strutturale smontabile dai formalisti di oggi, F. sembra dissolversi per lasciar posto a Dante. Ma la morte critica del personaggio è del tutto apparente, è anzi la prova della sua vitalità multiforme, di una ricchezza disponibile a qualunque operazione critica.
 

 

Nessun commento:

Posta un commento