venerdì 23 marzo 2018
Palla al centro
E' divertente leggere le vicende politiche in corso usando gli strumenti analitici elaborati in base all'esperienza della prima Repubblica. Con la sua mossa di ieri, Berlusconi si è posto al centro del sistema tripolare, ponendo ai margini i Cinquestelle. Il Pd torna in gioco, perché detiene i voti necessari per l'accesso del centrodestra a Palazzo Chigi. Il Pd consegue una rendita di posizione. Ha meno voti dei Cinquestelle, ma si trova a essere l'alleato ideale del partito intorno al quale ruota il sistema politico nella sua forma del momento. Siamo al pluralismo centripeto secondo Farneti (1978):
l’idea di fondo del pluralismo centripeto è che il centro sociale e politico è alimentato, nella sua qualità di punto di riferimento costante di ogni maggioranza governativa, dall’eterogeneità, dalle contraddizioni e dalle tensioni dei due poli del sistema dei partiti, della destra e della sinistra (Il sistema dei partiti, p. 229).
I due poli diventavano i due forni nel linguaggio di Andreotti. Cosa è cambiato da ieri? Sono cambiati i ruoli all'interno dello schema. Fino a ieri Di Maio pensava di avere lui i due forni a disposizione per poter governare il paese. Ieri si è scoperto che il partito capace di occupare una posizione centrale è Forza Italia. Berlusconi e non Di Maio può disporre dei due forni. E Berlusconi ha fatto in modo che i Cinquestelle venissero a trovarsi in una posizione di minoranza solitaria.
Adesso i due poli non sono più rappresentabili come destra e sinistra. C'è un polo di destra annesso al centro: la Lega alleata di Forza Italia nella coalizione che ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti. Al posto della sinistra esterna rispetto all'area di governo vera e propria, al posto del Pci dunque, troviamo ora i Cinquestelle, un partito antiestablishment.
Che cosa dovrebbe fare il Pd a questo punto? Può presentarsi come la minoranza dinamica che punta a diventare essa stessa il centro del sistema al posto di Forza Italia. Possiamo chiamare "Craxi" questa ipotesi. Chiameremo "De Martino" l'altra ipotesi: la minoranza annessa al Centro può diventare portatrice, in parte e con vari mutamenti, delle istanze rappresentate dal partito escluso (nella prima Repubblica il Pci, adesso i Cinquestelle). Il Pd renziano non può in nessun modo sperare di togliere consensi ai Cinquestelle, anche per questo la via craxiana sembra sbarrata. Un Pd diversamente concepito e rappresentato da un leader avveduto può invece diventare l'elemento capace di sbloccare il sistema, ridando spazio al futuro. Non è molto facile realizzare un obiettivo simile. In passato il partito di Bersani, senza nuove elezioni, è diventato in poco tempo il partito di Renzi. In teoria il miracolo si potrebbe ripetere. Al momento non si vede l'eroe capace di rovesciare il gioco a vantaggio di una prospettiva aperta al futuro. Chi vivrà vedrà.
http://www.lastampa.it/2018/03/23/cultura/opinioni/editoriali/silvio-mette-in-trappola-i-due-vincitori-D12vYIik5jSide3eyeEXxM/pagina.html
https://palomarblog.wordpress.com/2018/03/24/passaggio-al-futuro/
domenica 11 marzo 2018
Sulle orme di Dostojevskij
Anna Momigliano, La letteratura naturale di Elif Batuman, Studio, 11 marzo 2018
Negli ultimi mesi mi sono accorta di avere sviluppato una discreta ossessione per alcune scrittrici che rispondono allo stesso identikit: quarantenne nordamericana che scrive sul New Yorker e che dà il meglio di sé nella nonfiction, e più precisamente in quel genere giornalistico-letterario che i più chiamano “personal essay” e che il New Yorker ha ribattezzato, con non poco snobismo, “personal history”. Ariel Levy, Kathryn Schulz ed Elif Batuman. Le tre autrici sono accomunate anche da un approccio che combina, con grazia e lucidità, il rigore analitico alla compassione, permettendo loro di muoversi con invidiabile naturalezza tra il generale e il particolare.
Elif Batuman, la più giovane, è nata a New York nel 1977 da una famiglia turca colta e benestante, musulmani laici e kemalisti: la madre aveva studiato al liceo americano di Ankara; il padre, di origini più modeste, è cresciuto nell’Anatolia meridionale. Elif, il cui nome, racconta, deriva dalla pronuncia turca della prima lettera dell’alfabeto arabo, la alif, cresce nel New Jersey, studia linguistica e letteratura russa a Harvard e Stanford. Il suo primo libro parla di un’impacciata ragazza turco-americana e della sua fascinazione per la letteratura russa. Il suo secondo libro parla, beh, di un’impacciata ragazza turco-americana e della sua fascinazione per la letteratura russa.
I Posseduti, pubblicato nel 2010 da Farrar, Straus and Giroux e portato in Italia da Einaudi nella traduzione di Eva Kampmann nel 2012, è stato descritto come una collezione di saggi e come un testo a metà strada tra il memoir e una lettera d’amore. Il titolo è un omaggio a Dostoevskij (The Possessed è uno dei nomi inglesi dei Demoni). È un memoir, perché il filo conduttore è il dottorato in letteratura russa che Batuman ha conseguito pur senza aspirare alla carriera accademica. L’alternativa sarebbe stata accettare una residency letteraria in una ex segheria del New England, così la ragazza sceglie il PhD, con la stessa forza della disperazione con cui Bridget Jones sceglieva la vodka e Chaka Khan. L’autrice paragona la sua esperienza a quella di Hans Castorp nella Montagna incantata di Thomas Mann e, miracolosamente, riesce a farlo senza sembrare pomposa: come lui ha passato sette anni in un sanatorio senza avere la tubercolosi, così io ho passato «sette anni in un sobborgo californiano a studiare la forma del romanzo russo» prima per caso, poi per amore. È una collezione di saggi perché si compone di sette testi separati, alcuni dei quali già pubblicati su Harper’s, n+1 e New Yorker.
Il secondo libro è un romanzo, però gli elementi autobiografici sono tali da renderlo quasi un prequel del primo. The Idiot, e anche qui c’è l’omaggio a Dostoevskij, pubblicato da Penguin a marzo e non ancora tradotto in italiano, racconta di una studentessa di Harvard, ossessionata dal linguaggio, dai particolari, dalla letteratura russa e, non ultimo, dalla ricerca di un senso. Il tipo di ragazza che ci resta male perché il dizionario che le ha regalato la banca non include il lemma “ratatouille” e che ragiona ad alta voce: «Che cos’è “Cenerentola”, se non un’allegoria dell’infelicità fondamentale di quando vai a comperarti un paio di scarpe?». Come l’autrice stessa nei Posseduti, anche la protagonista di The Idiot spazia dalla realtà all’impressione della realtà, e dall’impressione della realtà a quello che essa evoca.
È la stessa dote che Batuman sfoggia nei suoi pezzi giornalistici. Nella storia di copertina del New Yorker dedicata alla sua esperienza in Turchia e al velo islamico, parte dalla vicenda dei suoi genitori, per raccontare l’ascesa di Erdogan e poi analizzare come sono trattate le donne, sollevando domande su quanto siamo disposti a sacrificare la nostra libertà per essere accettati, citando Houellebecq: riesce a farlo, cosa non da poco, senza l’ombra di un volo pindarico. Si potrebbe osservare, forse a ragione, che non c’è nulla di così speciale nel coniugare teoria ed esperienza, che è anzi un campo di scrittura fin troppo affollato (specie rispetto a quando Chris Kraus inaugurò con I Love Dick «un nuovo genere, qualcosa a metà strada tra critica culturale e fiction», come decretò il critico Sylvère Lotringer, suo ex). Batuman, è vero, non fa nulla di nuovo. Però lo fa tremendamente bene. Del suo secondo libro, la Los Angeles Review of Books ha scritto: «Ha impilato una bella collezione di non-eventi, eppure il risultato è incendiario». Raccogliere frammenti di memoria episodica e provare a trasformarli in memoria narrativa, soffermandosi più sul processo che sul risultato. È la stessa cosa che si legge nei Posseduti: «Gli eventi e i luoghi si succedono come le voci sulla lista della spesa. Possono esserci esperienze interessanti e commoventi, ma un fatto è certo: non prenderanno spontaneamente la forma di un libro meraviglioso».
sabato 10 marzo 2018
Filosofia e ricerca del senso
Non è che la filosofia trascini il mondo e possa rovesciare il mondo - non dico nemmeno "ahimè!": il mondo è governato da forze molto più dure, e spesso molto meno ragionevoli, della filosofia. La filosofia deve capire perché certe cose avvengono, aiutarci a comprendere e soprattutto a resistere a quella che potrebbe sembrare una "prepotenza delle cose". La filosofia ci può aiutare ma non ci può salvare. Sarebbe infatti pretendere troppo; nemmeno le religioni oggi credono veramente che simili miracoli avvengano. La filosofia rappresenta una "forza debole" nel senso che dovrebbe essere quella forza che agisce di più, ma invece, ahimè, è quella che socialmente incontra le maggiori resistenze. Finché non si sgombreranno certi interessi troppo potenti, finché soprattutto la vita resterà per milioni e miliardi di persone insicura, ragionare come si fosse in un circolo di amici o di filosofi che non hanno preoccupazioni sarà un lusso per pochi. Ma non è detto che questo lusso per pochi non possa servire come anticipazione di una vita possibile per molti.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/10/16/terry-eagleton.html
giovedì 8 marzo 2018
Un voto di speranza e di trasformazione
Giulio Sapelli
https://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2018/03/05/repubblica-post-ideologica
mercoledì 7 marzo 2018
L'hybris, tracotanza e caduta
Quanto a Renzi, il politologo Paolo Pombeni al gr3 stamattina ha fatto notare come il personaggio non abbia perso il gusto per le battaglie estreme. Non è che la cosa tra l'altro gli abbia portato molta fortuna in passato - ha aggiunto.
Vedi alla voce hybris o narcisismo. Niente manuali di strategia.
Alberto Massazza
Il concetto di Hybris è centrale nella mitologia, nell’epica e nella tragedia greca. Con esso si definisce in primo luogo la tracotanza degli uomini (ma anche dei semidei), il volersi assimilare agli Dei, suscitando la loro vendetta. Ma nella natura stessa dell’uomo, sospesa tra il divino e l’animalità, l’Hybris assume un’ambivalenza: da una parte, appunto, la tentazione di paragonarsi agli Dei, l’ambizione senza freni; dall’altra, il costante baratro della regressione alla bestialità, in cui si sprofonda quando ci si fa inghiottire dal vortice delle passioni. Icaro sintetizza questa ambivalenza: la tracotanza nel voler superare i limiti imposti dagli Dei, attraverso un’ibridazione animale (l’uomo uccello). Prometeo paga la sua Hybris per generosità e senso di giustizia: egli vuole liberare gli uomini dall’animalità e fa loro dono del fuoco, fino allora di esclusiva pertinenza degli Dei. Il suo supplizio appare umanamente ingiusto, ma la sua Hybris viene così duramente punita perché essa, innalzando gli uomini sopra lo stato animale, li ha posti in condizione di commettere a loro volta il peccato di Hybris. In Edipo, l’Hybris, rappresentata dall’eccessiva fiducia nell’infallibilità del proprio metodo d’indagine, è accompagnata da una doppia caduta nella bestialità, sia pure inconscia e nonostante il re tebano avesse fatto di tutto per eludere la fatale premonizione: il parricidio e l’incesto.
Shakespeare è sicuramente l’autore della cristianità che ha più profondamente reinterpretato il concetto di Hybris. Basta prendere ad esempio quattro opere della maturità: Amleto, Macbeth, Re Lear e La tempesta. L’esposizione più lineare del concetto appare nel Macbeth, nel protagonista giocato dalla sua ambizione, fino all’illusione di poter piegare anche il soprannaturale ad essa; le streghe e la Lady, personificazioni della sua ambizione, alla fine si rivelano come mezzi messi in atto dal divino per punire la sua Hybris; il soprannaturale che pareva legittimare la sua ambizione viene spazzato dall’imprevedibile logica della natura (il non nato di donna e la foresta che cammina, inedita ibridazione uomo-pianta). In Amleto, l’Hybris è più sofisticata: il Principe danese, come Prometeo, è mosso da una volontà di giustizia; il suo peccato è credere di poter essere lui a rimettere il mondo in sesto. La sua Hybris, questo suo voler sperimentare su sé stesso d’essere oltre i limiti umani, anticipa quelle di due archetipi del contemporaneo come Achab e Raskolnikov. La bestialità, il fratricidio (senza contare che Amleto considera il rapporto tra Claudio e Gertrude un incesto), viene annunciato dallo spettro e smascherato dal teatro.
In Re Lear, l’Hybris si fa frammentaria: il protagonista, per vanagloria, nega l’amore paterno alla figlia Cordelia, l’unica a provare un sincero sentimento filiale; lei stessa, d’altronde, per eccesso di sincerità, compie comunque un’insubordinazione nei confronti del padre, anche se meno grave di quella commessa dalle due sorelle Regana e Gonerilla. La bestialità non è più circoscritta, ma dilaga sulla scena del dramma, rendendola apocalittica; anche i vincoli di sangue, primi baluardi sui quali si regge la civiltà, vengono sepolti dalla Hybris generale. Re Lear non ha contatti col soprannaturale, ma tratta gli elementi naturali come se fossero personificazioni della punizione per la sua Hybris; il suo rapportarsi ad essi, nella celebre scena della tempesta, rappresenterebbe una nuova Hybris, se non fosse un delirio di impotenza palesemente patetico.
Prospero supera la Hybris, in una rinnovata armonia con gli elementi naturali e soprannaturali. La bestialità si fa caricaturale, assumendo le sembianze mostruose di Calibano. Prospero è l’uomo nuovo che ha raggiunto l’equilibrio, capace di sfruttare al meglio le proprie conoscenze, senza oltrepassare i limiti imposti dal divino. Nel rapporto col soprannaturale, si compie la parabola dell’Hybris shakespeariana: da Macbeth che crede di averlo piegato alla sua ambizione e finisce per esserne completamente in balia, ad Amleto che relega il soprannaturale ad indizio per l’accertamento della verità, da comprovare con la messa in scena teatrale; da Re Lear, orfano del soprannaturale che cerca negli elementi naturali il dialogo con la volontà divina, a Prospero che raggiunge l’armonia di tutti gli elementi attraverso la conoscenza e la saggezza.
https://albertomassazza.wordpress.com/2014/09/16/i-greci-shakespeare-e-lhybris-uomo-dio-animalita/
domenica 4 marzo 2018
Dante e le stelle
salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle. salimmo in alto, lui per primo e io dietro, fino a quando vidi gli astri del cielo attraverso un'apertura circolare. E di lì uscimmo per rivedere le stelle. Purgatorio, 33, 142-145 Io ritornai da la santissima onda rifatto sì come piante novelle rinovellate di novella fronda, puro e disposto a salire a le stelle.
Io mi allontanai dal fiume sacro del tutto rinnovato, come le piante giovani che rifioriscono e si coprono di nuove fronde, purificato e pronto per salire alle stelle (in Paradiso).
Paradiso, 33, 142-145 A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa, l'amor che move il sole e l'altre stelle. Alla mia alta immaginazione qui mancarono le forze; ma ormai l'amore divino, che muove il Sole e le altre stelle, volgeva il mio desiderio e la mia volontà, come una ruota che è mossa in modo uniforme e regolare (Dio aveva appagato ogni mio intimo desiderio).
Carlo Ossola, Firmamento poetico col cielo cesellato, Il Sole 24ore, 11 agosto 2024 Ad astra
La cultura dell’uomo nei lunghi secoli dell’era cristiana aveva questo fondamento: «Vocavitque Deus firmamentum Caelum.» (Genesi,I, 8). È la creazione del primo giorno, che stabilisce ciò che più non muterà: «Nelle Sacre Scritture il cielo è chiamato firmamentum in quanto firmatum ossia reso stabile da leggi razionali e immutabili (ratis legibus fixisque)». Così Isidoro di Siviglia nelle sue Etymologiae (XIII, IV, 1); ma nello stesso capitoletto precedeva un’etimologia raffinata, colma d’arte, che è bene qui ricordare: «Il cielo è stato così chiamato perché reca impresse le luci delle stelle, quasi figure a rilievo come un vaso caelatum, ossia cesellato; si definisce infatti caelatum un vaso che brilla per le figure che si stagliano sulla sua superficie».
Dante ha voluto anch’egli modellare il suo caelatum, suggellando ognuna delle cantiche con i signa luminosi delle stelle: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» ( Inf., XXXIV, 139); «puro e disposto a salire a le stelle» ( Purg., XXXIII, 145); «l’amor che move il sole e l’altre stelle» ( Par., XXXIII, 145). Se poi si volesse considerare che nelle raffigurazioni topografiche della Commedia, l’Inferno appare come un cratere greco e la montagna del Purgatorio con sopra i cieli come un’immensa coppa, con lo stelo (la montagna) che culmina a larga corolla, non sarebbe indebito pensare al poema come a uno smisurato caelatum, così descritto nel Paradiso: «O dolce stella, quali e quante gemme / mi dimostraro che nostra giustizia / effetto sia del ciel che tu ingemme!» ( XVIII, 115-117).
Del resto la formula «caelum caelatum» risale già a sant’Ambrogio che nel suo Hexaemeron (II 3, 3-4) ci ricorda che il cielo è cesellato di stelle «perché porta infisse le luci delle stelle come un lavoro di cesello, allo stesso modo che diciamo cesellato l’argento risplendente di figurazioni lavorate a sbalzo». Dante che aveva già fasciato tutte le cornici del Purgatorio con exempla di virtù lavorate a bassorilievo nel marmo candido, si prodiga a cesellare i suoi cieli di beati, incastonati sì che non si possono trar fuori: «Ne la corte del cielo, ond’ io rivegno, / si trovan molte gioie care e belle / tanto che non si posson trar del regno» (Par., X, 70-72); non mi sembra indebito qui accedere proprio al significato più letterale del caelum caelatum, non solo nel senso – suggerito dai commentatori – che le pietre preziose non si possono esportare (qui su terra) dal loro regno, il cielo; ma proprio nel fatto che non si possono togliere dal loro ordine e eterna impronta, come mirabilmente conferma Folchetto da Marsiglia poco prima: «Folco mi disse quella gente a cui / fu noto il nome mio; e questo cielo / di me s’imprenta com’io fe’ di lui» (Par., IX, 94-96).
La Commedia è stato l’ultimo poema di questo infinito cesello del vero, calice di gemme abbacinanti, divino mosaico di tessere di ieratica fissità, tanto che lo sguardo del pellegrino è costretto a stringersi a questo immutabile acuminato mistero: «Ficca mo l’occhio per entro l’abisso / de l’etterno consiglio, quanto puoi / al mio parlar distrettamente fisso» (Par., VII, 94-96). Così s’affisano i Serafini e Cherubini, molto più astretti alla loro eterna verità: « Io sentiva osannar di coro in coro / al punto fisso che li tiene a li ubi, / e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro» (Par., XXVIII, 94-96).
La stessa preghiera alla Vergine, elevata al sommo del Paradiso da san Bernardo, è prima di tutto contemplazione di quell’immutabile fissità dell’ordine divino: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio» (Par., XXXIII, 1-3). Quello è il Paradiso, mirabile cesello di forme abbaglianti: «e d’ogne parte si mettien ne’ fiori, / quasi rubin che oro circunscrive» (Par., XXX, 65-66), i beati cioè «s’introducevano, nel calice dei fiori, come rubini incastonati nell’oro» (Isidoro del Lungo).
Poema di fulgore e di bizantina gloria, come Dante stesso si compiace di testimoniare: «vid’ io più di mille angeli festanti, / ciascun distinto di fulgore e d’arte» (Par., XXXI, 130-132). La Commedia s’inciela e s’inzaffira: «onde si coronava il bel zaffiro / del quale il ciel più chiaro s’inzaffira» (Par., XXIII, 101-102) nel più memorabile coelum coelatum che mai ci sia stato offerto.
In quella fissità ambiremmo forse trovare il nostro piccolo «balasso» per rannicchiarci nel sempre…; ma venne la scienza gregoriana del tempo, l’ansia funebre di Góngora che vide tutto ridursi «en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada» (Sonetto X), e «l’elenco mesto delle afflizioni riaperte» registrato da Shakespeare. Le sue stelle contemplano l’«inconstant stay» della nostra vicenda mondana, «mentre con Rovina gareggia devastatore il Tempo». Così, silenziosi, impercepiti, i suoi astri tracciano il cielo, chiosando destini «in secret influence comment»: «E la scena immensa del mondo non offre che comparse / su cui in segreti influssi, stelle proseguono commento» (Sonetto XV, nella traduzione di Giuseppe Ungaretti).