salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle. salimmo in alto, lui per primo e io dietro, fino a quando vidi gli astri del cielo attraverso un'apertura circolare. E di lì uscimmo per rivedere le stelle. Purgatorio, 33, 142-145 Io ritornai da la santissima onda rifatto sì come piante novelle rinovellate di novella fronda, puro e disposto a salire a le stelle.
Io mi allontanai dal fiume sacro del tutto rinnovato, come le piante giovani che rifioriscono e si coprono di nuove fronde, purificato e pronto per salire alle stelle (in Paradiso).
Paradiso, 33, 142-145 A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa, l'amor che move il sole e l'altre stelle. Alla mia alta immaginazione qui mancarono le forze; ma ormai l'amore divino, che muove il Sole e le altre stelle, volgeva il mio desiderio e la mia volontà, come una ruota che è mossa in modo uniforme e regolare (Dio aveva appagato ogni mio intimo desiderio).
Carlo Ossola, Firmamento poetico col cielo cesellato, Il Sole 24ore, 11 agosto 2024 Ad astra
La cultura dell’uomo nei lunghi secoli dell’era cristiana aveva questo fondamento: «Vocavitque Deus firmamentum Caelum.» (Genesi,I, 8). È la creazione del primo giorno, che stabilisce ciò che più non muterà: «Nelle Sacre Scritture il cielo è chiamato firmamentum in quanto firmatum ossia reso stabile da leggi razionali e immutabili (ratis legibus fixisque)». Così Isidoro di Siviglia nelle sue Etymologiae (XIII, IV, 1); ma nello stesso capitoletto precedeva un’etimologia raffinata, colma d’arte, che è bene qui ricordare: «Il cielo è stato così chiamato perché reca impresse le luci delle stelle, quasi figure a rilievo come un vaso caelatum, ossia cesellato; si definisce infatti caelatum un vaso che brilla per le figure che si stagliano sulla sua superficie».
Dante ha voluto anch’egli modellare il suo caelatum, suggellando ognuna delle cantiche con i signa luminosi delle stelle: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» ( Inf., XXXIV, 139); «puro e disposto a salire a le stelle» ( Purg., XXXIII, 145); «l’amor che move il sole e l’altre stelle» ( Par., XXXIII, 145). Se poi si volesse considerare che nelle raffigurazioni topografiche della Commedia, l’Inferno appare come un cratere greco e la montagna del Purgatorio con sopra i cieli come un’immensa coppa, con lo stelo (la montagna) che culmina a larga corolla, non sarebbe indebito pensare al poema come a uno smisurato caelatum, così descritto nel Paradiso: «O dolce stella, quali e quante gemme / mi dimostraro che nostra giustizia / effetto sia del ciel che tu ingemme!» ( XVIII, 115-117).
Del resto la formula «caelum caelatum» risale già a sant’Ambrogio che nel suo Hexaemeron (II 3, 3-4) ci ricorda che il cielo è cesellato di stelle «perché porta infisse le luci delle stelle come un lavoro di cesello, allo stesso modo che diciamo cesellato l’argento risplendente di figurazioni lavorate a sbalzo». Dante che aveva già fasciato tutte le cornici del Purgatorio con exempla di virtù lavorate a bassorilievo nel marmo candido, si prodiga a cesellare i suoi cieli di beati, incastonati sì che non si possono trar fuori: «Ne la corte del cielo, ond’ io rivegno, / si trovan molte gioie care e belle / tanto che non si posson trar del regno» (Par., X, 70-72); non mi sembra indebito qui accedere proprio al significato più letterale del caelum caelatum, non solo nel senso – suggerito dai commentatori – che le pietre preziose non si possono esportare (qui su terra) dal loro regno, il cielo; ma proprio nel fatto che non si possono togliere dal loro ordine e eterna impronta, come mirabilmente conferma Folchetto da Marsiglia poco prima: «Folco mi disse quella gente a cui / fu noto il nome mio; e questo cielo / di me s’imprenta com’io fe’ di lui» (Par., IX, 94-96).
La Commedia è stato l’ultimo poema di questo infinito cesello del vero, calice di gemme abbacinanti, divino mosaico di tessere di ieratica fissità, tanto che lo sguardo del pellegrino è costretto a stringersi a questo immutabile acuminato mistero: «Ficca mo l’occhio per entro l’abisso / de l’etterno consiglio, quanto puoi / al mio parlar distrettamente fisso» (Par., VII, 94-96). Così s’affisano i Serafini e Cherubini, molto più astretti alla loro eterna verità: « Io sentiva osannar di coro in coro / al punto fisso che li tiene a li ubi, / e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro» (Par., XXVIII, 94-96).
La stessa preghiera alla Vergine, elevata al sommo del Paradiso da san Bernardo, è prima di tutto contemplazione di quell’immutabile fissità dell’ordine divino: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio» (Par., XXXIII, 1-3). Quello è il Paradiso, mirabile cesello di forme abbaglianti: «e d’ogne parte si mettien ne’ fiori, / quasi rubin che oro circunscrive» (Par., XXX, 65-66), i beati cioè «s’introducevano, nel calice dei fiori, come rubini incastonati nell’oro» (Isidoro del Lungo).
Poema di fulgore e di bizantina gloria, come Dante stesso si compiace di testimoniare: «vid’ io più di mille angeli festanti, / ciascun distinto di fulgore e d’arte» (Par., XXXI, 130-132). La Commedia s’inciela e s’inzaffira: «onde si coronava il bel zaffiro / del quale il ciel più chiaro s’inzaffira» (Par., XXIII, 101-102) nel più memorabile coelum coelatum che mai ci sia stato offerto.
In quella fissità ambiremmo forse trovare il nostro piccolo «balasso» per rannicchiarci nel sempre…; ma venne la scienza gregoriana del tempo, l’ansia funebre di Góngora che vide tutto ridursi «en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada» (Sonetto X), e «l’elenco mesto delle afflizioni riaperte» registrato da Shakespeare. Le sue stelle contemplano l’«inconstant stay» della nostra vicenda mondana, «mentre con Rovina gareggia devastatore il Tempo». Così, silenziosi, impercepiti, i suoi astri tracciano il cielo, chiosando destini «in secret influence comment»: «E la scena immensa del mondo non offre che comparse / su cui in segreti influssi, stelle proseguono commento» (Sonetto XV, nella traduzione di Giuseppe Ungaretti).
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