La guerra di una comunità - di popoli interi e segnatamente
di popoli civili - viene fuori sempre da una situazione politica e
viene suscitata soltanto da un motivo politico. E' dunque un atto
politico. Se fosse un atto compiuto in sé, immutato, un'espressione
assoluta di violenza - quale si deve dedurre dal suo mero concetto -
allora dovrebbe prendere il posto della politica, dal primo momento in
cui è suscitata da essa come qualcosa di assolutamente indipendente.
Dovrebbe cacciarla e seguire soltanto le proprie leggi, come una mina
che, una volta innescata, non segue altra direzione e indicazione che
quella che gli è stata predisposta. In effetti si è pensato così ogni
qualvolta che una mancanza di armonia tra politica e conduzione della
guerra ha portato a distinzioni teoriche di questo genere. Ma non è
così, anzi questa rappresentazione è fondamentalmente sbagliata. La
guerra del mondo reale [...] non è l'estremo che libera la sua tensione
in un'unica scarica, ma è l'agire di forze che non si dispiegano
completamente in modo uguale e in egual misura.
Carl von Clausewitz, Della guerra, 1832
Mario Ragionieri
Generalmente si pensa che il modello teorico della guerra sia quello che
Clausewitz chiama guerra assoluta, mentre il modello reale dovrebbe
essere costituito dalla guerra come strumento della politica. Se la
guerra fosse solo strumento della politica la guerra sarebbe limitata e
la violenza bellica sarebbe condizionata dalla importanza degli
obiettivi politici da raggiungere; in questo modo avremmo una
subordinazione totale della guerra alla politica. In pratica però
difficilmente si realizzano le condizioni per cui la guerra è sempre
subordinata alla politica. Nella decisione di iniziare una guerra
entrano in giuoco purtroppo anche altri fattori, spesso irrazionali ed
emotivi, come pure la carenza di informazioni ed errori di valutazione.
Un altro fattore importante che entra in giuoco è quello per cui sia il
capo politico che quello militare sono certi di avere il completo
dominio ed il controllo delle organizzazioni che dipendono da loro e che
sono costituite da esseri umani e non da semplici macchine. Questo
purtroppo comporta che la razionalità di ogni comportamento strategico
può avere solo una limitata razionalità.
Tutto questo impedisce che l'esito della guerra possa essere
predeterminato anche solo in linea di massima e che conseguentemente la
decisione di entrare in guerra si possa basare solo su un razionale e
preciso confronto tra guadagni, rischi e costi. Nel corso di un
conflitto, vuoi per tutta una serie di motivi anche quelli sopra
esposti, succede che sono gli obiettivi militari estremi ad imporsi ai
politici. Caso classico è la teoria di Roosevelt del "victory first" nella Seconda Guerra Mondiale per cui all'escalation della violenza si accompagna quella dei fini.
Dunque in pratica la teoria di Clausewitz della guerra come strumento
della politica costituisce un modello estremo come quello della guerra
assoluta.
Questo modello estremo sarebbe in pratica quello che assumerebbe la
guerra nel caso in cui potesse essere solo un puro strumento della
politica completamente determinabile e controllabile con metodi
razionali. La guerra politica e la guerra assoluta costituiscono i due
limiti entro i quali può spaziare la guerra reale. Ne deriva che la
guerra reale costituisce un qualcosa che si colloca fra i due estremi ; è
una combinazione che può avvenire con varie gradazioni di intensità,
fra violenza armata e l'attività politica, fra la passione e la
razionalità.
Raymond Aron
Paix et guerre entre les nations, première partie, chapitre
I
Clausewitz éprouve devant la guerre poussée à l'extrême une sorte d'horreur sacrée, de fascination, comparable à celle que les catastrophes cosmiques éveillent
dans l'âme. La guerre dans laquelle les adversaires vont jusqu'au
bout de la violence, afin de vaincre la volonté
ennemie qui obstinément résiste, est, aux yeux de Clausewitz, grandiose
et horrible à la fois. Chaque fois que de grands intérêts seront aux prises, la guerre se rapprochera
de sa forme absolue. Philosophe, il ne s'en félicite
ni ne s'en indigne. Théoricien de l'action raisonnable, il rappelle aux chefs de guerre et de paix le principe que tes uns et les autres doivent respecter : le
primat de la politique, la guerre n'étant qu'un instrument au service de buts fixés par la politique, un moment ou un aspect
des relations entre États, chaque État devant obéir à
la politique, c'est-à-dire à l'intelligence des intérêts
durables de la collectivité. Convenons d'appeler stratégie la conduite d'ensemble des opérations militaires, convenons d'appeler diplomatie la conduite du
commerce avec les autres unités politiques. Stratégie et diplomatie seront toutes deux subordonnées à la politique, c'est-à-dire
à la conception que la collectivité ou ceux qui en sont responsables se font de « l'intérêt national ». En temps de paix, la politique se sert des moyens diplomatiques, sans exclure le recours aux armes, au moins à titre de menace. En temps de guerre, la politique ne donne pas congéà la diplomatie, puisque celle-ci conduit les relations avec
les alliés et les neutres et qu’implicitement elle continue d'agir
à l'égard de l'ennemi, soit qu'elle le menace d'écrasement, soit qu'elle lui ouvre une perspective
de paix.
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