Michele Smargiassi
Caterina e le donne. Storia della ragazza che nel Settecento viveva come un uomo
la Repubblica, 1 febbraio 2014
a proposito di Marzio Barbagli, Storia di Caterina, Il Mulino, Bologna 2014, pagg. 243
A dispetto dei suoi ingenui sedici anni di figlia d’un falegname delle
borgate romane, Caterina sapeva bene quel che voleva: amare le donne
come lei. Ebbe anche il coraggio di farlo, e del come farlo: vestendosi
da uomo, cambiandosi nome in Giovanni. Le mancava solo una parola, la
parola per dirlo, la parola per dirsi: gay, lesbica, omosessuale. Ma
quelle parole, a metà del Settecento, nessuno le aveva ancora inventate,
e Caterina-Giovanni morì così, a ventiquattr’anni, dopo otto di
travestimenti, senza il conforto di un’identità, forse proprio perché
non lo aveva mai avuto. Un uomo cercò di trovare per lei quelle parole, e
ci andò molto vicino: un medico, un laico coraggioso, che se ne fregò
dei pregiudizi e delle teorie “scientifiche” della sua epoca, ed ebbe
pietà, forse anche simpatia, per quella giovane donna che non volle
piegare la testa.
La Storia di Caterina (Il Mulino, pagg. 243, euro
16) che ci narra un analista attento e molto esperto della famiglia
contemporanea, Marzio Barbagli, ha la forma di una classica case history
della sociologia: prendi una vicenda individuale, ben documentata, e ne
fai il centro focale di un affresco, in questo caso sulla
considerazione sociale, morale e culturale dell’amore fra donne negli
ultimi tre secoli. Ma nella storia che Barbagli ha scovato e scavato
dagli archivi, quei due personaggi prendono di potenza la scena, non si
fanno ridurre a simboli o esempi, e senza smettere di essere un saggio
scientifico, ecco che il libro diventa il romanzo poetico di un incontro
fra due esseri umani in contrasto col loro tempo, un incontro mancato
in vita, ma realizzato nel pensiero.
Fu forse per il rimorso di non
essere accorso subito al suo capezzale che Giovanni Bianchi,
cattedratico illustre dell’Università di Siena, s’incuriosì della sorte
di quel povero corpo di uomo, tale Giovanni Bordoni, maggiordomo,
spirato il 16 giugno del 1743 sui pagliericci dell’ospedale di Santa
Maria della Scala a Siena, che una volta spogliato dai becchini aveva
rivelato, sorpresa, di essere il corpo d’una giovane donna. Qualche
indagine svelò la sua storia: donna era nata, Caterina Vizzani, ma
appena adolescente non lo volle più rimanere, fu quando s’innamorò della
compagna di cucito Margherita, e dovette fuggire e travestirsi per
scampare alle ire del padre di lei. Diventò così Giovanni, e si trovò un
lavoro da cameriere, eccellente ed espertissimo cameriere, di cui gli
aristocratici padroni furono sempre più che soddisfatti, tanto da
perdonargli l’unico difetto, quel suo vizio di «donnajuolo »
impenitente. Ma una delle dongiovannesche sue avventure, il rapimento
della nipote del parroco di Montepulciano, alla fine gli (o le) fu
fatale: fuga, inseguimento e un letale colpo di archibugio.
Una
svelta benedizione, la vergogna seppellita assieme al corpo avrebbero
potuto far finire tutto qui, e oggi nulla sapremmo di Caterina. Ma il
professor Bianchi non s’accontentò. Dentro di lui lo scienziato
proto-illuminista non riuscì a non cercare una risposta alla domanda:
perché? Perché una donna ama le donne? Indagò. Si fece sociologo e
antropologo ante-litteram. Esaminò il corpo. Lesse libri. Ebbe il
coraggio di scartare una per una le risposte correnti della scienza e
della morale del suo tempo.
Perché questo è assodato: che ci fossero
donne che amavano vestirsi da uomo, per mille ragioni non solo sessuali,
da Giovanna d’Arco a Moll Flanders, lo si sapeva da secoli. E anche che
esistessero donne che amano le donne. Lo sapevano l’artista e il
letterato, lo sapeva il moralista ecclesiastico, lo sapeva lo
scienziato. Ma sul perché, le risposte erano diverse. Sostanzialmente
due: l’errore della natura, la depravazione dell’animo.
L’ermafroditismo, o comunque l’abnorme dimensione del clitoride,
ritenuta produttrice (ma anche conseguenza) di famelici desideri
proibiti nelle famigerate “tribadi”, mostruose nel corpo e prostitute
per vocazione. Oppure la satanica e colpevole deformazione
dell’immaginario e del desiderio (benché ritenuta, perfino
dall’Inquisizione, inferiore per gravità alla sodomia maschile).
Ma
Bianchi ebbe l’onestà di riconoscere che Caterina non era vittima né
dell’«anatomia indiscreta» né della volontaria perversione, che il suo
corpo era “normale”, che era cresciuta in un ambiente moralmente sano.
Semplicemente: amava le donne, le aveva sempre amate, e amava solo loro.
Caterina, riconobbe il professore tracciando una precoce, confusa ma
modernissima distinzione fra sesso, genere e orientamento, apparteneva a
un genere di esseri umani, di cui la poetessa Saffo fu la prima a osare
quel che oggi chiameremmo un coming out.
E il libro che alla fine
scrisse a suo rischio, sotto falso nome e «alla macchia», ma che suscitò
interesse in tutta Europa, fu forse proibito per questa laica, inedita,
pioniera. Caterina Vizzani «s’infingeva uomo», ma non voleva essere
uomo. Spirando, chiese di essere seppellita in abiti femminili e
ghirlande, da «pulcella» ancor vergine qual era. A chi le voleva bene
aveva svelato il suo segreto. I genitori, dettaglio commovente, lo
accettarono, e quando poterono la protessero e la aiutarono. Per
l’univocità e il coraggio della sua scelta Caterina, osserva Barbagli
senza riuscire a nascondere un sorriso di simpatia, somiglia in molti
tratti alle lesbiche moderne, magari a quelle degli anni Cinquanta,
quando adottare abbigliamento e atteggiamento mascolini erano la
condizione di un mimino di accettabilità sociale. Ma non aveva parole
per riconoscersi. Non conosciamo i suoi pensieri: probabilmente, come la
Fiordispina dell’Ariosto innamorata della guerriera Bradamante, si
sentiva unica al mondo: «Sola son io / che patisco da te sì duro
scempio». Non lo era: ma dovevano passare almeno due secoli prima che le
sue consorelle, con gran fatica, conquistassero il diritto di dare un
nome alla libertà del loro amore.
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