Bruno Simili
Più poveri
Il Mulino, 3 febbraio 2014
Sono trascorsi esattamente dieci anni da quando, all’inizio del 2004, pubblicammo sul numero 412 del “Mulino” un blocco di articoli che, significativamente, intitolammo “ceti medi e crisi nera”. Colpisce rileggere i titoli dei pezzi che componevano quella sezione monografica: “Quasi poveri e vulnerabili”, “Prezzi, redditi e impoverimento delle famiglie”, “Le mani vuote. Una società con più costi e meno sussidi”, “Il lavoro nascosto e i conti che non tornano”. In quelle pagine si evidenziava come i contratti sociali delle democrazie del secondo dopoguerra, orientati a migliorare le condizioni di vita e le possibilità di consumo alla ricerca di una distribuzione più equa dello sviluppo economico, fossero entrati in crisi. E come a risentirne fossero, soprattutto, le fasce di cittadinanza né troppo povere, né troppo ricche; ma sempre più vulnerabili. Quell’insieme di popolazione che nella seconda metà del secolo scorso ha visto crescere i propri consumi e le proprie possibilità di accumulazione patrimoniale.
Del resto, ci si era accorti già da tempo che il modello di stratificazione sociale che tendeva a restringere le differenze sociali e ad ampliare sensibilmente le categorie situate nel mezzo della scala sociale non reggeva più. Da allora, fette sempre più consistenti della popolazione italiana si sono trovate a dovere affrontare la insanabile contraddizione tra i costi da sostenere in tempi di crisi economica e un livello di qualità della vita considerato, a torto, irrinunciabile.
Dal quel numero del “Mulino” di dieci anni fa si sono rincorse interpretazioni che hanno addossato l’intero fardello delle responsabilità di volta in volta a questa o quella parte politica, all’euro, all’Europa, alla crisi internazionale. E sono state via via riformulate vecchie ricette politiche, in larga parte di stampo populista, volte a catturare il consenso di chi, anno dopo anno, percepiva il progressivo peggioramento della propria condizione sociale. Poi è arrivata la Grande Crisi, quella che hanno visto tutti, e ha reso ancora più impervie le strade su cui corre la vita di chi appartiene, o è convinto di appartenere, al ceto medio. Anche in questo caso è importante ragionare della percezione che ciascuno ha delle proprie condizioni di vita. Ci vengono utili i risultati di uno studio condotto da Demos, cui rimandiamo per i dettagli. Qui ci preme richiamare quanto Ilvo Diamanti sottolinea proprio oggi: vale a dire il progressivo e rapido peggioramento percepito da chi otto anni fa si sentiva “classe media” e oggi è invece convinto di avere sceso un gradino nella scala sociale. Una percezione, tra l’altro, che non vede forti differenze tra Nord e Sud, a dispetto dei dati che in molti altri ambiti indicano un Paese profondamente diviso in due.
Mentre la crisi economica dava le prime avvisaglie e poi esplodeva, che cosa è stato fatto dalla nostra classe dirigente che oggi si trova intrappolata nel circolo vizioso di un modello fallimentare? Quali responsabilità rispetto alle ridottissime previsioni di crescita per il 2014 deve accollarsi in proprio la classe imprenditoriale che oggi strepita e si lamenta? A chi, sul fronte del pubblico, vanno ascritte le responsabilità della nomina di Mastrapasqua a capo dell’Inps, l’ente che da solo assorbe un terzo dell’intera spesa pubblica italiana? E, infine, quali proposte politiche di stampo realmente riformatore sono arrivate al corpo elettorale in questi ultimi dieci anni?
Poniamo queste poche, semplici domande e leggiamo i dati della ricerca Demos. Una classe dirigente inadeguata, indisponibile a far crescere le generazioni più giovani e a lasciare loro il posto, imprenditori spesso non disposti a investire quando l’andamento dei conti e i profitti lo avrebbe consentito, una classe politica ancora oggi troppo spesso succube di logiche clientelari spiegano in buona parte la vera grande crisi italiana, quella del lavoro, il blocco di interi pezzi del cosiddetto sistema Paese, l’irrisolta questione della rappresentanza e la crisi della sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei politici. E sono alla base di quella che è forse da considerarsi la conseguenza più grave dell’impoverimento di una larga parte del Paese: la sensazione di non essere politicamente più rappresentati da nessuna forza politica. Si tratta di un vero e proprio vulnus democratico, che non potrà risolversi a breve. Ma che, al tempo stesso e al di là delle giuste e ovvie critiche, non ci permette di limitarci a guardare alle bagarre parlamentari a 5 Stelle con occhio critico e scandalizzato ma ci obbliga a domandarci per quanto ancora ai grafici declinanti di questa Italia bloccata e impoverita potranno avere come conseguenza il brontolio e l’autodenuncia delle proprie crescenti, difficoltà. E se e quando, invece, sfoceranno in protesta e ribellione.
Più poveri
Il Mulino, 3 febbraio 2014
Sono trascorsi esattamente dieci anni da quando, all’inizio del 2004, pubblicammo sul numero 412 del “Mulino” un blocco di articoli che, significativamente, intitolammo “ceti medi e crisi nera”. Colpisce rileggere i titoli dei pezzi che componevano quella sezione monografica: “Quasi poveri e vulnerabili”, “Prezzi, redditi e impoverimento delle famiglie”, “Le mani vuote. Una società con più costi e meno sussidi”, “Il lavoro nascosto e i conti che non tornano”. In quelle pagine si evidenziava come i contratti sociali delle democrazie del secondo dopoguerra, orientati a migliorare le condizioni di vita e le possibilità di consumo alla ricerca di una distribuzione più equa dello sviluppo economico, fossero entrati in crisi. E come a risentirne fossero, soprattutto, le fasce di cittadinanza né troppo povere, né troppo ricche; ma sempre più vulnerabili. Quell’insieme di popolazione che nella seconda metà del secolo scorso ha visto crescere i propri consumi e le proprie possibilità di accumulazione patrimoniale.
Del resto, ci si era accorti già da tempo che il modello di stratificazione sociale che tendeva a restringere le differenze sociali e ad ampliare sensibilmente le categorie situate nel mezzo della scala sociale non reggeva più. Da allora, fette sempre più consistenti della popolazione italiana si sono trovate a dovere affrontare la insanabile contraddizione tra i costi da sostenere in tempi di crisi economica e un livello di qualità della vita considerato, a torto, irrinunciabile.
Dal quel numero del “Mulino” di dieci anni fa si sono rincorse interpretazioni che hanno addossato l’intero fardello delle responsabilità di volta in volta a questa o quella parte politica, all’euro, all’Europa, alla crisi internazionale. E sono state via via riformulate vecchie ricette politiche, in larga parte di stampo populista, volte a catturare il consenso di chi, anno dopo anno, percepiva il progressivo peggioramento della propria condizione sociale. Poi è arrivata la Grande Crisi, quella che hanno visto tutti, e ha reso ancora più impervie le strade su cui corre la vita di chi appartiene, o è convinto di appartenere, al ceto medio. Anche in questo caso è importante ragionare della percezione che ciascuno ha delle proprie condizioni di vita. Ci vengono utili i risultati di uno studio condotto da Demos, cui rimandiamo per i dettagli. Qui ci preme richiamare quanto Ilvo Diamanti sottolinea proprio oggi: vale a dire il progressivo e rapido peggioramento percepito da chi otto anni fa si sentiva “classe media” e oggi è invece convinto di avere sceso un gradino nella scala sociale. Una percezione, tra l’altro, che non vede forti differenze tra Nord e Sud, a dispetto dei dati che in molti altri ambiti indicano un Paese profondamente diviso in due.
Mentre la crisi economica dava le prime avvisaglie e poi esplodeva, che cosa è stato fatto dalla nostra classe dirigente che oggi si trova intrappolata nel circolo vizioso di un modello fallimentare? Quali responsabilità rispetto alle ridottissime previsioni di crescita per il 2014 deve accollarsi in proprio la classe imprenditoriale che oggi strepita e si lamenta? A chi, sul fronte del pubblico, vanno ascritte le responsabilità della nomina di Mastrapasqua a capo dell’Inps, l’ente che da solo assorbe un terzo dell’intera spesa pubblica italiana? E, infine, quali proposte politiche di stampo realmente riformatore sono arrivate al corpo elettorale in questi ultimi dieci anni?
Poniamo queste poche, semplici domande e leggiamo i dati della ricerca Demos. Una classe dirigente inadeguata, indisponibile a far crescere le generazioni più giovani e a lasciare loro il posto, imprenditori spesso non disposti a investire quando l’andamento dei conti e i profitti lo avrebbe consentito, una classe politica ancora oggi troppo spesso succube di logiche clientelari spiegano in buona parte la vera grande crisi italiana, quella del lavoro, il blocco di interi pezzi del cosiddetto sistema Paese, l’irrisolta questione della rappresentanza e la crisi della sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei politici. E sono alla base di quella che è forse da considerarsi la conseguenza più grave dell’impoverimento di una larga parte del Paese: la sensazione di non essere politicamente più rappresentati da nessuna forza politica. Si tratta di un vero e proprio vulnus democratico, che non potrà risolversi a breve. Ma che, al tempo stesso e al di là delle giuste e ovvie critiche, non ci permette di limitarci a guardare alle bagarre parlamentari a 5 Stelle con occhio critico e scandalizzato ma ci obbliga a domandarci per quanto ancora ai grafici declinanti di questa Italia bloccata e impoverita potranno avere come conseguenza il brontolio e l’autodenuncia delle proprie crescenti, difficoltà. E se e quando, invece, sfoceranno in protesta e ribellione.
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