Claudio Cerasa
Ascesa del bamboccio di talento
Il Foglio quotidiano, 14 febbraio 2014
Ciao Enrico. Sono le quindici e quaranta quando Matteo Renzi sale sul
palchetto montato a Roma al terzo piano di largo del Nazareno, scruta
con sguardo insieme severo e infiammato i compagni della direzione,
avvicina veloce la bocca al microfono e dopo due mesi passati a
sfanalare con gli abbaglianti della Smart nello specchietto retrovisore
della Panda di Enrico Letta decide di premere la frizione, di cambiare
marcia, di mettersi in scia, di azionare la freccia e di tentare
finalmente il sorpasso. Il sorpasso, il sorpasso a Enrico, il sorpasso a
quelle fragili intese che il segretario del Pd tenta di rottamare ben
prima del suo arrivo alla guida del partito, coincide con un freddo
documento che alle diciotto e quindici minuti viene approvato dalla
direzione (136 voti favorevoli, 16 astenuti, 2 voti contrari) con un
messaggio chiaro: “La direzione rileva la necessità e l’urgenza di
aprire una fase nuova, con un nuovo esecutivo che abbia la forza
politica per affrontare i problemi del paese con un orizzonte di
legislatura”. Detto, fatto: nel giro di due ore la direzione si stringe
attorno al segretario, accetta di lasciare le proprie impronte digitali
sulla rottamazione del governo, decide di sfiduciare in diretta
streaming il suo presidente del Consiglio e presenta a Enrico Letta (che
in direzione non c’era) un segnale composto da due parole: ciao,
Enrico.
Tre minuti dopo arrivano le cinque righe di comunicato con cui Letta
annuncia le dimissioni – le presenterà formalmente questa mattina al
Quirinale. Dopo di che partirà la giostra: le consultazioni saranno
brevi, entro lunedì Renzi riceverà l’incarico, a metà settimana il
segretario presenterà la squadra (gli unici certi sono Delrio, sarà il
Gianni Letta di Renzi al governo, Boschi, dovrebbe prendere il posto di
Quagliariello alle Riforme, Tito Boeri, che dovrebbe andare al Lavoro,
mentre Lucrezia Reichlin all’Economia è una soluzione che Renzi aveva
già studiato nel settembre del 2012, ai tempi delle primarie con
Bersani) e nel giro di pochi giorni nascerà il governo Leopolda: con
qualche grillino alla Camera e al Senato (non casuale ieri l’arrivo di
Casaleggio a Roma), qualche vendoliano (tendenza Gennaro Migliore) e una
maggioranza a Palazzo Madama che si trova tra i 194 e 198 senatori.
Ecco. Queste le notizie. Ma accanto alle notizie bisogna affiancare una
storia particolare, cioè il percorso che ha portato il sindaco a
rottamare il governo del caro amico Enrico. La prima ragione è legata
all’inerzia, e all’inevitabile percorso della Smart: per un leader che
intende praticare fino in fondo l’espressione “vocazione maggioritaria”,
è ovvio far coincidere il ruolo di segretario con quello di candidato
premier, e i modi che Renzi aveva per farli coincidere erano due: o far
cadere il governo e andare subito alle elezioni oppure, per non restare
ostaggio di questo esecutivo fiacco, prendere il governo e usare poi la
minaccia delle elezioni per farlo trottare. Ma la storia dei continui
colpi di clacson con cui Renzi invita da mesi Letta a togliersi di mezzo
non è frutto di una decisione presa d’istinto, è invece il finale di un
romanzo che il sindaco ha cominciato a scrivere un anno fa.
Il nastro della corsa di Renzi va riavvolto al 22 aprile 2013,
quando, dopo la rielezione di Napolitano, Renzi capisce che il capo
dello stato cerca un premier che abbia anche le caratteristiche per
mettere al riparo il governo dai tuoni dell’antipolitica grillina. Renzi
si fa avanti, trova consensi all’interno del partito, capisce che di
fronte alla possibilità di andare a Palazzo Chigi il Pd gli avrebbe
detto di sì, e prova a giocare la sua partita. Una partita che Renzi
perde ma che sarà decisiva per convincere il sindaco che per conquistare
il paese bisogna prima conquistare il Pd. Passano i mesi, arriva il
governo Letta, arrivano le prime difficoltà e i primi pasticci e durante
l’estate comincia la marcia del rottamatore: il sindaco decide – lo
annuncerà più avanti – di candidarsi alla segreteria e inizia a
costruire attorno a sé una rete di contatti extra politici che nel corso
dei mesi darà i suoi frutti – e che presto si trasformerà in un’onda
capace di travolgere il governo e far viaggiare Renzi come un surfista
sul cavallone. E così, 13 luglio, Renzi, guidato dall’amico Marco
Carrai, dà il là al suo tour da presidente del Consiglio ombra: arriva
l’incontro con Merkel, arrivano i contatti con i poteri che contano e
arriva la consapevolezza che il suo rapporto con Letta sarebbe stato
identico a quello che aveva avuto nel passato Veltroni con Prodi. E’ il
26 agosto e Renzi racconta a un amico al telefono quello che pochi mesi
dopo sarebbe successo: “Quando sarò segretario con Enrico non potrò
andare d’accordo e credo proprio che sarò costretto a far cadere il
governo”. I mesi passano, Renzi si candida, si prepara a vincere le
primarie, si convince che per togliere di mezzo il governo sarebbe stato
necessario votare con il Porcellum ma poi si arriva al 5 dicembre del
2013 e cambia tutto: la Consulta dichiara il Porcellum incostituzionale e
per la prima volta Renzi confessa a un suo collaboratore a Palazzo
Vecchio che il piano B è quello: se non si riesce a fare la legge
elettorale si rottama Enrico e si va a Palazzo Chigi. Detto, fatto.
Così, nei mesi successivi, Renzi proverà a negarlo, proverà comunque a
ricucire con Letta, a farsi fotografare sorridente con il presidente
del Consiglio (nota: non esiste una sola foto in cui Letta e Renzi si
stringano la mano guardandosi negli occhi) ma tutto precipita quando,
all’improvviso, il governo si infila una fascetta in testa e si trasforma
in un esecutivo kamikaze: arriva la storia degli aumenti degli
insegnanti da restituire, arriva il Salva Roma (qui si incrina il
rapporto tra Letta e Napolitano), arriva la legge di stabilità che
diventata “un marchettificio”, arriva il giro dell’oca dell’Imu, arriva
il caos dei versamenti Tares, arrivano le telefonate della Cancellieri
(dovrebbe essere sostituita da Michele Vietti alla Giustizia), arrivano i
pasticci di Zanonato. E allora Renzi si prepara all’attacco. E dalla
sua – oltre a Napolitano, sedotto lunedì durante la cena al Quirinale –
trova alleati pesanti: Franceschini (che il 2 settembre passa dalla
parte di Renzi pur rimanendo formalmente dalla parte di Letta), Alfano
(che Renzi porta dalla sua parte il 15 gennaio in un albergo romano) e
la maggioranza della minoranza del Pd (da Orfini a Orlando). E proprio
come successo un anno fa, dopo la non vittoria di Bersani, è ancora la
minoranza del Pd (6 febbraio) a chiedere una discontinuità al governo.
La discontinuità ora c’è. Arriva dalla direzione, arriva da un Pd che
paradossalmente non è mai stato così compatto come ieri (anche se non
tutti hanno spinto Renzi a Palazzo Chigi per fare il bene di Renzi,
diciamo). Ovvio: adesso bisognerà fare i conti anche con i Vendola, gli
Alfano, i Lupi e i Quagliariello e occorrerà dimostrare che non è una
contraddizione portare l’Italia dalla Seconda alla Terza Repubblica con i
metodi della Prima. Renzi ieri ha ottenuto la sua vittoria e si è
messo in corsia di sorpasso. La sfida è difficile, non impossibile. Ma
per trasformarsi da rottamatore in costruttore, per diventare l’Angela
Merkel del Pd, e arrivare a guidare il semestre europeo senza farsi
prima rottamare da Grillo, il segretario dovrà ricordarsi di fare una
cosa semplice: da oggi il bamboccione di talento non è più solo un
bamboccione ma è quasi un presidente del Consiglio, e dunque quando
andrà via da Firenze sarà meglio lasciare nell’armadio i pantaloni
corti.
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