Colin Crouch
intervistato per l'Unità da Giuliano Battiston
2 novembre 2013
NEL SUO ULTIMO LIBRO, MAKING CAPITALISM FIT FOR SOCIETY, APPENA USCITO
IN INGLESE PER POLITY PRESS E NON ANCORA TRADOTTO in italiano, il
sociologo inglese Colin Crouch, professore emerito all’Università di
Warwick, sottolinea con insistenza il bisogno che la socialdemocrazia
diventi «assertiva», che si faccia più audace, che esca dalla postura
difensiva degli ultimi anni, perché il suo compito rappresentare quanti
nel sistema capitalistico hanno meno potere è un «compito permanente,
oggi più attuale che mai».
Per farlo, sostiene l’autore di
Postdemocrazia e de Il potere dei giganti (entrambi pubblicati da Laterza), la socialdemocrazia dovrebbe adottare un «doppio passo»,
riconoscendo la continuità con la sua tradizione storica ma allo stesso
tempo rinnovandosi, così da rispondere alle esigenze e alle
caratteristiche della società attuale, postindustriale. Stamane Colin
Crouch parteciperà alla quinta edizione del Salone dell’editoria sociale
per parlare de «La società dei diseguali. Welfare, politica ed economia
dentro la grande crisi». Abbiamo approfittato della sua presenza a Roma
per porgli alcune domande.
Professor Crouch, partiamo proprio dalla più difficile: che volto dovrebbe avere il nuovo progetto socialdemocratico?
«Sono
tre le strade da seguire: in primo luogo, riconoscere sia i vantaggi
del mercato, sia i suoi limiti. Accettarne apertamente i vantaggi rende
più convincente la nostra insistenza sui seri problemi che provoca. La
definizione di tali problemi è il secondo aspetto: l’ingresso del
mercato in ogni ambito della nostra vita provoca delle vittime,
danneggia degli interessi, che non possono essere né protetti né
ricompensati dal mercato stesso. Per questo, servono interventi sia
dello stato sia di altri soggetti. Il compito specifico della
socialdemocrazia contemporanea è quello di distinguere tra questi
interessi, individuando quelli che vanno sostenuti non tutti lo sono e
unificando quelli che possono rendere la società più equa (come i
problemi dell’ambiente e della precarietà sul mercato del lavoro).
Infine, dobbiamo comprendere la natura dei nuovi ceti sociali
dell’economia post-industriale, che ancora non hanno trovato un’autonoma
espressione politica. Il blairismo della cosiddetta “Terza via” aveva
ragione a pensare che il centrosinistra non potesse più essere
espressione della classe operaia industriale, ma aveva torto nel
dimenticare il radicamento in questi ceti sociali, la cui caratteristica
è l’essere costituiti prevalentemente da donne. Questo vuol dire che,
così come nella società industriale gli interessi di tutti venivano
definiti secondo una prospettiva maschile, nel nuovo progetto della
socialdemocrazia postindustriale tali interessi vanno definiti secondo
una prospettiva femminile».
Uno dei problemi della socialdemocrazia
rimane però la difficoltà a comprendere chi rappresentare e come farlo.
Per evitare l’irrilevanza o l’ulteriore, progressivo ridimensionamento
della propria base sociale, ai partiti di sinistra e ai sindacati lei
suggerisce un rinnovamento nella forma organizzativa (meno
centralizzata) e nell’identità politica (meno monolitica e ortodossa).
Come rinnovarsi senza perdersi?
«Si tratta di una sfida difficile. Le
nuove generazioni non accettano più i vecchi modelli organizzativi (un
problema che riguarda anche le aziende). Cercano e inventano nuovi
modelli, meno formali. Il movimento socialdemocratico si è sviluppato
nel periodo del capitalismo e della politica delle grandi burocrazie, ma
di fronte ai cambiamenti della società sarebbe uno sbaglio se
mantenesse quelle caratteristiche. Inoltre, ai suoi esordi il movimento
operaio si è sviluppato in una società dominata da forze antagoniste, di
natura aristocratica, borghese, ecclesiale. E in molti Paesi ha cercato
di costruire un vero e proprio mondo a sé, una diversa cultura. Si
trattava di una risposta difensiva, di una reazione a una situazione
ostile. Oggi una strategia isolazionistica sarebbe quasi impossibile,
oltre che inutile. Le idee del welfare state, dei diritti universali, di
un certo livello di uguaglianza della cittadinanza, sono molto diffuse
nelle istituzioni, nei tribunali, nelle scuole, nelle università. In un
certo senso sono i neoliberisti a dover contrastare queste idee
dominanti, oggi. È un’occasione da non perdere. La perderemmo se il
movimento socialdemocratico si richiudesse in se stesso».
Nei suoi
libri «Il potere dei giganti» e «Making Capitalism Fit for Society», lei
stesso però riconosce il grande paradosso del nostro tempo: il
neoliberismo è all’origine della crisi, dell’insicurezza sociale ed
economica di molti lavoratori, ma rimane l’ideologia politica dominante,
mentre i socialdemocratici restano sulla difensiva. Perché?
«Il
problema principale è il potere. L’attuale capitale globale può
esercitare una potenza tremenda, in termini economici e politici. Come
può essere contestata una simile concentrazione di potere da una forza
politica che rappresenta la gente “normale”, senza grandi risorse e
senza un’idea chiara della propria identità politica? In ogni caso,
benché potente in termini economici e politici, il neoliberismo non è
altrettanto forte quanto a consenso nei sentimenti popolari. I partiti
politici più o meno “puramente” neoliberali sono minoritari come in
Germania il Freie Democratische Partei, che dopo le ultime elezioni ha
perso i suoi seggi nel Bundestag. Per questo il neoliberismo ha sempre
bisogno di alleanze, sia con la democrazia cristiana sia con forze
particolari come il Tea Party negli Stati Uniti».
Nonostante le forti
critiche che rivolge alle politiche di austerità, lei continua ad
attribuire all’Unione europea «il compito principale di costruire
alternative praticabili al neoliberismo dentro una cornice
capitalistica». Cosa possiamo realisticamente aspettarci dall’Unione
europea? E come risponde a chi, anche a sinistra, è tentato dal ritorno
al nazionalismo economico e al protezionismo, come risposta alla crisi?
«Affrontare
i problemi di natura globale con un ritorno alle politiche nazionali
sarebbe un progetto alla Don Chisciotte, oltre che un ritorno a un
passato irrecuperabile. Uno dei problemi dei nostri giorni è che abbiamo
forze economiche globali e democrazie nazionali. Si tratta di una lotta
impossibile. In un contesto globale, i singoli stati europei perfino la
Germania sono soggetti più piccoli e deboli dei grandi attori del
futuro: gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, gli altri Paesi Brics. Tra
questi, nessun Paese vanta politiche sociali come quelle europee, le
quali, benché minacciate, continuano a offrire sistemi di welfare-state
avanzati e sindacati protagonisti della vita pubblica. Senza delle
istituzioni europee forti e democratiche tutto questo andrà perso. So
bene che l’attuale Unione europea è nemica dei miei valori politici e
sociali, ma dobbiamo provare a cambiarla. Non vedo alternative. Di
certo, non è un’alternativa né il nazionalismo economico né il
protezionismo, che rimane una politica di destra, se non fascista, che
protegge solo i grandi imprenditori. A farne le spese sono la
maggioranza del popolo e le piccole imprese».
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