Diario di un naufragio di Guido Crainz, editore Donzelli, pagg. 255 euro 19,50 In libreria da oggi
la Repubblica, 13 novembre 2013
Nel crollo della prima
Repubblica ci si illuse che le colpe fossero solo di un ceto politico
incapace e corrotto, e che ad esso potesse contrapporsi una virtuosa
società civile: oggi nessuno può avere questa illusione e ci si
interroga semmai su quanto sia profondo e irrimediabile l’inabissarsi di
entrambi. E se sia possibile costruire qualche vascello, anche di
fortuna, per riprendere il mare. Se nel corpo del paese ve ne sia
sufficiente desiderio e forza, prima ancora che la possibilità. [...]
Dalla cronaca prendono inevitabilmente avvio molte riflessioni: alla
storia però, alla nostra storia, fortissimamente rimandano un crollo
così rovinoso del sistema politico e una involuzione così profonda del
paese. E il nesso fra cronaca e storia è centrale: proprio quel nesso
può aiutare a muoversi fra le nebbie, e spesso fra le melme, della
seconda Repubblica. Nebbie e melme che hanno radici negli stessi
processi che portarono al crollo della prima: gli stessi che
presiedettero poi a una transizione illusoria e fallimentare. E
rimandano ancor più all’indietro: rimandano, a dirla in breve, alla
qualità stessa — o meglio, alle contraddizioni e ai guasti — della
modernizzazione italiana, e al rapporto fra istituzioni, sistema
politico e paese. All’evolversi o al degradare di questo rapporto nel
corso dei decenni.
Al centro vi è dunque una seconda Repubblica
fallita e forse mai nata: illuminata però anche da speranze e impegni
civili, ansie di rinnovamento e di trasformazione. Sempre più flebili,
col passare del tempo: perché? Questa domanda è diventata via via
centrale in una riflessione che era nata come tentativo di cogliere i
tratti profondi della stagione berlusconiana, il suo significato, il suo
collocarsi nella più lunga storia della Repubblica. Di comprendere,
anche, le ragioni del suo permanere: le sue radici e al tempo stesso le
deformazioni che ha indotto e induce nel corpo vivo della nostra
società. Il suo rafforzare e al tempo stesso rimodellare processi già
avviati nel corso degli anni Ottanta: con lo sprezzo crescente dei
valori e dei vincoli collettivi, con il primato del “sé” sul bene
pubblico, con l’erosione quotidiana delle norme elementari di legalità e
diritto. Perché però questi processi hanno trovato così deboli
anticorpi? Perché la stagione di Berlusconi, più volte erosa da se
stessa — dalle sue incapacità e dalla miseria del suo illusionismo — ha
potuto protrarsi così a lungo, inducendo stravolgimenti gravi nel
funzionamento delle istituzioni? Stravolgimenti, anche e soprattutto,
nella cultura del paese: vent’anni fa il primo avviso di garanzia già
incrinò la credibilità di Bettino Craxi, oggi una condanna definitiva è
sembrata sostanzialmente irrilevante a una parte non piccola degli
italiani. Senza contare quelli che la considerano semplicemente iniqua.
Questi
erano e sono dunque i nodi centrali che portano a una riflessione
sempre più insistita sulla inadeguatezza della sinistra. Sulla sua
incapacità di opporsi davvero a queste derive e al tempo stesso
progettare il futuro, delineare un modo diverso di “essere italiani”,
restituire ai cittadini la fiducia nella democrazia: una fiducia
gravemente erosa da una “partitocrazia senza partiti” povera o priva di
etica. Come neIl rinoceronte di Eugène Ionesco la mutazione sembra quasi
senza scampo: così appare, perlomeno, a quella metà degli italiani che è
rifluita nell’astensione o ha votato per il Movimento 5 Stelle. E non
solo a loro. Come si è giunti al deserto di oggi? E vi è qualche
possibile via d’uscita?
Non è certo facile uscire dal disorientamento
o dal rimpianto per quel grande e articolato mondo che è stata la
sinistra italiana, con le sue passioni e i suoi miti, le sue generosità e
i suoi slanci (senza dimenticare naturalmente i suoi errori e le sue
colpevoli rimozioni). Si fa fatica a districarsi fra culture differenti,
da quella comunista a quella azionista, e fra l’accumularsi di crisi
diverse: certo è che alla seconda Repubblica approda una sinistra ormai
priva di alcuni suoi tratti fondamentali e fondanti. Già negli anni
Settanta del resto — cioè nel momento della sua massima espansione e del
suo maggior prestigio — erano entrati progressivamente in crisi alcuni
suoi architravi tradizionali: dai riferimenti internazionali alla
centralità ed egemonia della classe operaia (apparentemente trionfante,
allora, ma quasi espulsa poi dal discorso pubblico in un brevissimo
volger di tempo). Sino all’idea stessa di progresso, di sviluppo lineare
e senza limiti, che stava al fondo già del socialismo ottocentesco: su
questo terreno la crisi petrolifera sancisce uno spartiacque epocale
(forse inavvertito, allora, nella sua interezza). Ce n’è d’avanzo: negli
anni Ottanta la sinistra si trova a navigare nei flutti impetuosi del
neoliberismo e nella crisi del welfare senza più rotta. E con un
elemento ancor più profondo di spaesamento. A dirla in breve: negli anni
Ottanta la modernità inizia a non portare più “automaticamente” con sé
l’allargamento dei diritti collettivi, della partecipazione dei
cittadini, delle acquisizioni sociali. L’innovazione sembra separarsi
dal progressismo politico, il vento della modernizzazione e quello del
progresso civile non soffiano necessariamente insieme. È messo in
discussione in più forme, insomma, il coniugarsi stesso della sinistra
al mutamento e alla speranza di trasformazione: e contemporaneamente la
sua “diversità” inizia ad appartenere al passato. Nel crollo della prima
Repubblica, poi, la sinistra manca in gran parte alla prova, incapace
com’è di rinnovare realmente la politica e il proprio modo di essere:
destinata dunque ad apparire a molti elettori come l’ultima espressione
di un sistema dei partiti fallito. L’ultima incarnazione del vecchio:
poco convincente e poco attrattiva anche quando l’illusorio nuovo del
centrodestra mostra tutta la sua miseria.
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