venerdì 25 aprile 2025

Giuda, storia e leggenda


Marco Cicala, Giuda, identikit di un traditore
la Repubblica Venerdì, 18 aprile 2025

 Giusto cinquant’anni fa, 1975, l’italo-ungherese Mario Brelich, singolare figura di traduttore, giornalista e scrittore appassionato di temi biblici, pubblicava per Adelphi un libro altrettanto singolare, L’opera del tradimento. Nel romanzo-saggio, l’autore ridava vita all’infallibile cavalier Auguste Dupin, detective dilettante, ma più sagace di qualsiasi poliziotto, protagonista di (purtroppo soli) tre racconti scritti da Edgar Allan Poe nella prima metà dell’Ottocento. Antesignano di Sherlock HolmesLe Chevalier risolve i casi dandoci dentro di induzione e deduzione. Però Brelich metteva la sua ratio inesorabile davanti a una sfida quasi sovrumana: misurarsi con il mistero bimillenario di Giuda, l’apostolo-delatore che consegnò Gesù ai suoi carnefici. Chi era? Quale fu il suo vero movente? Agì per sete di guadagno? Doppiogiochismo? Vendetta? Era forse animato da un’idea di messianismo politico-rivoluzionario che il Cristo aveva frustrato? Come andarono effettivamente le cose?

Pur affrontando l’enigma quasi si trattasse di un crime, il testo di Brelich riapriva interrogativi su cui credenti e non continuano ad arrovellarsi. Perché «la figura di Giuda da sempre si presenta come un problema teologico, morale, esistenziale, storico» ricorda lo studioso Lucio Coco nell’introduzione a un altro volume – questo appena tradotto in italiano dalle edizioni Edb – Giuda Iscariota. L’apostolo traditore, di Sergej N. Bulgakov, teologo russo (da non confondere col romanziere Michail, quello di Il Maestro e Margherita), nonché amico del filosofo Pavel Florenskij. Risalenti agli anni 30-40 dell’esilio parigino cui l’aveva costretto la Rivoluzione d’ottobre, le dotte riflessioni del sacerdote ortodosso arricchivano la vastissima bibliografia sulla personalità sfuggente del discepolo infedele, l’uomo che con il proprio libero tradimento avrebbe permesso alla missione salvifica del Cristo di compiersi attraverso il sacrificio sulla croce e la resurrezione.

«In una delle mie librerie ho cercato di sistemare non foss’altro che i romanzi dedicati al personaggio. Non è facile, sono moltissimi» sorride il cardinale Gianfranco Ravasi, teologo, ebraista, biblista fra i più autorevoli. Lo incontriamo a Roma, nei suoi uffici di via della Conciliazione, perché ci aiuti ad orientarci almeno un po’ nel labirinto-Giuda.

Limitandoci al 900: Paul Claudel, Roger Caillois, Max Brod, Borges, Nikos Kazantzakis, Amos Oz, in Italia Mario Pomilio, Giuseppe Berto… Come mai tanto interesse nei confronti dell’Iscariota da parte di scrittori così diversi e non sempre caratterizzati da sensibilità religiosa?

«Credo dipenda dal fatto che Giuda incarna un paradosso. Nella visione teologica, il discepolo che tradisce ci pone davanti al problema di due libertà: la sua, individuale, e quella di Dio. Un Dio che interviene nella Storia e nel mondo affinché si adempia la prospettiva della redenzione, ma che al contempo ha creato l’uomo libero. Questi due livelli formano un nodo complicato, dove la libertà del piano divino risulta prevalente, prevaricante».

Da qui il tentativo di alcuni autori di riabilitare Giuda come soggetto agente di un disegno che lo sovrasta e alla fine lo sconfigge?

«In certi scrittori si avverte in effetti l’idea di giustificarlo o quantomeno di accordargli delle attenuanti. Nel romanzo Il quinto evangelio, per esempio, Mario Pomilio gli faceva dire: “La verità è che io non fui il traditore: fui piuttosto la vittima di un curioso piano di salvezza, esteso a tutti gli uomini, che per esplicarsi perfettamente doveva escludere me”».

Razionalmente parlando, se Giuda è vittima o strumento del piano divino la sua sarebbe una libertà per così dire “a responsabilità limitata”. E la colpa del tradimento si farebbe più problematica.

«È questa aporia, questo aspetto se vogliamo enigmatico della questione, ad aver affascinato, penso, filosofi e scrittori come l’agnostico Borges che le dedica un racconto della raccolta Finzioni. Con il problema di Giuda ci troviamo in un intreccio complesso, situato tra antropologia, dimensione umana, e soteriologia, dimensione della salvezza».

Tornando sul piano storico: proviamo a tracciare un identikit dell’uomo-Giuda. Età?

«Direi sulla trentina, tendenzialmente coetaneo di Gesù».

Il nome ebraico “Giuda” era alquanto diffuso, mentre l’appellativo "Iscariota" potrebbe contenere qualche indizio sul personaggio.

«Forse indicava la provenienza dal villaggio di Kariot, nella Palestina meridionale. Ma vi si è vista pure una deformazione del termine sicario, cioè un ribelle alla dominazione romana. Secondo altre interpretazioni ish-karja designerebbe invece un “uomo della falsità” o più oscuramente un “tintore”. Tra gli esegeti si predilige tuttavia la chiave del riferimento topografico. Va notato comunque che nella narrazione evangelica Giuda è l’unico tra gli apostoli a non provenire dalla Galilea, il solo originario della Giudea».

Quasi lo si volesse presentare preventivamente come un elemento eccentrico in seno al gruppo?

«Possibile. Tra gli apostoli esistevano del resto divisioni molto nette».

Per inquadrare la figura dell’Iscariota dobbiamo inseguirla attraverso i quattro Vangeli canonici, che però sono testi ellittici. Ci danno parecchio filo da torcere.

«Non sono la biografia di Gesù né un manuale storico o un verbale di polizia! L’uso meramente storiografico di quelle scritture è errato di sua natura. Ciò non significa naturalmente che l’approccio storico non sia legittimo o che vada trascurato. Ma i Vangeli costituiscono un genere particolare. Non siamo in presenza di un coacervo di miti, tesi o leggende teologiche, ma di una storia accaduta, che viene interpretata in chiave teologica e dove i personaggi diventano anche degli emblemi. I Vangeli – dal greco euanghélion, “lieta notizia” – sono testi finalizzati all’annuncio e alla catechesi».

Anche se gli evangelisti non ce lo raccontano tutti nello stesso modo, Giuda entra in scena con la chiamata all’apostolato. Subito ci viene svelato che tradirà. Poi però nel racconto stranamente si eclissa…
«Sì, ma fra i dodici non è l’unico di cui sappiamo poco. Alcuni non riusciamo a identificarli con esattezza. Si pensi a Bartolomeo o all’altro di nome Giuda, Giuda Taddeo…».

In Giovanni ritroviamo l’Iscariota a ridosso dell’ultima Pasqua di Cristo, nell’episodio della cena di Betania. E qui apprendiamo qualcos’altro su di lui.

«Ci viene detto che all’interno della comunità apostolica Giuda ricopriva una funzione non proprio secondaria: teneva la cassa del gruppo. Una sorta di economo, di tesoriere, colui che doveva gestire le eventuali donazioni da destinare ai poveri».

Proprio sul tema delle donazioni, vediamo Giuda muovere a Cristo un rimprovero che ce lo mostra come un apostolo intransigente.

«Giuda argomenta che il costo del balsamo con cui Maria, sorella di Lazzaro, ha profumato Gesù avrebbe potuto essere devoluto ai poveri. Ma Giovanni precisa subito: “Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”».

Un manigoldo.

«Non c’è da sorprendersi, tra pubblicani, prostitute, peccatori, discepoli un po’ raccogliticci, Gesù era in cattiva compagnia! Ad ogni modo, presentandolo come un ladro, Giovanni sottolinea l’ipocrisia di Giuda. E questo in contrasto con una scena, quella di Betania, dove ritroviamo una dimensione importante della figura di Gesù. L’atto della donna che lo unge col balsamo è infatti in linea con quei gesti di gratuità, di generosità, di delicatezza, di tenerezza che il Cristo evangelico esalta sempre. È l’eccesso del dono che risuona nel “Va’ e vendi tutto ciò che hai” e che rimanda anche a un aspetto originale, rispetto al contesto ebraico, nella concezione dell’amore. Gesù ha sempre assunto il principio del Levitico “Ama il prossimo tuo come te stesso”, però lo rompe, va oltre. Nell’ultima sera della sua vita terrena, scrive Giovanni, Cristo afferma che non c’è amore più grande di quello di colui che dà la vita per la persona che ama. L’amore supera perciò i confini del “te stesso”».

Benché i contorni del patto delatorio tra Giuda e i sacerdoti  non siano chiarissimi, tre evangelisti ci informano che esso avvenne in cambio di denaro. Ma soltanto Matteo quantifica il conquibus nelle celebri trenta monete d’argento. Cifra abbastanza irrisoria. Dunque il movente economico non regge...

«Direi di no. La quantità delle monete potrebbe essere un rinvio ai trenta sicli d’argento di un passo del profeta Zaccaria. No, il tradimento sembra motivato soprattutto dalla frustrazione di un apostolo che, equivocando, ha visto in Gesù una figura messianica di tipo politico. Cristo è un personaggio che attira le folle e che, nella visione di alcuni, dovrebbe mettersi a capo di un movimento. Mentre il suo orizzonte è più alto».]

Qualcuno ha avvicinato la reazione vendicativa di Giuda a quella di un amante deluso.

«La delusione è certamente una categoria. Se è accompagnata dal tradimento genera amarezza, rimorso, solitudine. Il deluso non può celebrare la propria vittoria».

Nei Vangeli si evoca anche l’intervento di Satana. Se Giuda ne fosse preda non sarebbe totalmente padrone delle proprie azioni.

«Giovanni scrive che Satana “entrò in lui” mentre Giuda era seduto con Gesù all’ultima cena. Ma, come diceva Dario Fo, “Non è sempre tutta colpa del Diavolo”. Qui torniamo alla questione della libertà di cui parlavamo all’inizio. La figura di Satana è quella del tentatore. Anche Cristo è tentato da Satana, la cui funzione è di mettere in azione il movimento della libertà. Giuda è colui che ha consapevolmente accettato la tentazione, ossia uno stimolo che non dev’essere per forza vincente».

Il riconoscimento, l’arresto. Gesù è acclamato dalle folle. Il suo volto dovrebbe essere noto. Può dunque apparire curiosa la necessità di farlo riconoscere con un bacio. Forse la pattuglia di sbirri capitanata da Giuda non aveva presente la fisionomia dell’uomo che doveva catturare?

«È difficile districarsi sul piano fattuale. Ma, rimanendo nel campo delle ipotesi, non si può escludere che nel contesto storico di Gerusalemme la conoscenza di Gesù fosse circoscritta all’ambito del potere clericale giudaico, quello a cui Cristo dava più fastidio, e del potere politico. Quanto al bacio, potrebbe essere stato una sottolineatura narrativa dell’evangelista per accentuare la doppiezza del discepolo che consegna il suo maestro con un gesto apparentemente fraterno».

Nella cerchia degli apostoli qualcuno mette istintivamente mano alla spada. Gesù girava con una scorta armata?

«Nelle norme giudaiche era legittimo, magari per chi andava in posti poco sicuri come i deserti, portare con sé una spada. È plausibile che Pietro o qualcun altro al seguito ne avesse una».

Per far scattare l’operazione i sacerdoti attendono un’occasione propizia. Perché la individuano proprio nella Pasqua?

«C’è una ragione di natura politica: a Pasqua il governatore Pilato, che detestava gli ebrei e se ne stava per lo più nella sua villa di Cesarea marittima, è presente a Gerusalemme. La seconda ragione è forse legata alla classe dirigente giudaica, la quale voleva che il processo e la condanna di Gesù avessero un forte impatto sulla popolazione, nonché ovviamente sui suoi seguaci».

In Matteo, Giuda si ripresenta dai sacerdoti in preda al rimorso, ma quelli lo mollano: “A noi che importa?”. È la traiettoria abbastanza tipica di un esecutore scaricato dai propri mandanti.

«Ne ha tutto l’aspetto. Ci si potrebbe chiedere come mai avessero scelto proprio lui. Era forse un soggetto più debole degli altri, che si sarebbe prestato meglio a quella manovra? Avevano raccolto informazioni infiltrandosi nel gruppo degli apostoli? Di certo Giuda viene strumentalizzato e si rende conto di essere stato usato». 

Sempre in Matteo, si impicca.

«Mentre negli Atti degli apostoli gli viene riservata una morte più atroce. Giuda “precipitando in avanti, si squarciò e si sparsero fuori tutte le sue viscere”. Forse si tratta del rimando a un passo biblico del Libro della Sapienza circa il destino dei malvagi».

Ma non c’è solo il tradimento di Giuda. Assaliti dalla paura, gli apostoli abbandonano Gesù e fuggono. Pietro lo rinnega, anche se poi se ne pentirà. I Vangeli non sono testi auto-apologetici, altrimenti avrebbero omesso queste circostanze, diciamo, imbarazzanti.

«È vero. Ci mostrano quella apostolica delle origini come una comunità fortemente umana, fragile. Soprattutto di fronte all’evento capitale della resurrezione, che li coglie increduli. Nelle ultime frasi del vangelo di Matteo si dice che dinanzi al Cristo risorto i discepoli si prostrarono, ma che “Essi dubitarono”. Essi. Non alcuni di essi, come era stato tradotto in un’edizione della Cei, poi corretta».

Nel 1978 fu ritrovato un manoscritto in lingua copta, forse risalente al IV secolo, il cosiddetto Vangelo di Giuda. Venne pubblicato nel 2006, forse non casualmente in pieno “effetto Dan Brown”. Di che si tratta?

«È un apocrifo di orientamento gnostico, espressione di un cristianesimo di nicchia, che sente il bisogno di concepire la fede in maniera separata, raffinata, esoterica, provocatoria, e legge Giuda come il depositario di un cristianesimo alternativo. La pubblicazione del testo è stata accompagnata da un grande battage mediatico, ma per quanto interessante non penso che sia tra gli apocrifi più significativi».

A proposito di provocazioni, magari a suo modo lo era anche quella di don Primo Mazzolari che in una grande omelia del 1958 chiamò Giuda “fratello nostro”. Come a dire: non giudicatelo, non andatelo a cercare tanto lontano, Giuda siamo noi.
«Il proverbio non recita forse: “Quando punti il dito per giudicare qualcuno, guarda la tua mano: altre tre dita sono puntate verso di te”?».

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