sabato 27 aprile 2024

L'antifascismo della destra in Piemonte

 


 

Un fenomeno che merita una certa attenzione è dato dal ritorno dell'antifascismo in periferia per merito del centrodestra in Piemonte. Accade a Rivoli dove il sindaco di Forza Italia Andrea Tragaioli celebra il 25 aprile con queste parole: 

"In quello straordinario giorno di settantanove anni fa, la forza dei giusti ha prevalso sulla visione totalitaria del mondo.
L’immutabile trascorrere del tempo impone che da allora la società sia cambiata, ci sono stati importanti e rivoluzionari progressi nella tecnologia nella scienza, nella medicina ma abbiamo assistito e continuiamo ad assistere, da spettatori o da protagonisti, anche a nuove guerre che hanno ridisegnato i confini del mondo e che sono frutto di individualismi totalitari.
C’è qualcosa di sbagliato nel nostro modo di vivere... ci siamo abituati alla guerra, alle immagini di strazio e dolore, guardiamo la televisione e ascoltiamo le testimonianze dei sopravvissuti con la freddezza dell’indifferenza.
Di fronte a ciò che senso ha riunirsi oggi a commemorare? Ha senso e lo dico soprattutto ai giovani, ha senso perché commemorare i nostri concittadini e compatrioti che si sono battuti per la libertà deve risvegliare in tutti noi quel senso di umanità insito nell’essere umano e che sembra essersi assopito.
Ricordare chi, quel 25 Aprile è sceso dalle montagne con il tricolore in mano, ci esorta a vivere come soggetti attivi del proprio mondo, ci dimostra la forza della partecipazione e la semplicità dell’altruismo.
Ricordare chi con il cuore in gola e gli occhi pieni di lacrime cantava “se io muoio da partigiano mi devi seppellire sotto l’ombra di un bel fior” ci impone di credere che il cambiamento è possibile ed è nelle nostre mani.
Perché l’ombra di un bel fior? Perché la bellezza di un fiore è la bellezza della pace e della scelta di giustizia.
I nostri concittadini caduti per la libertà del paese a cui abbiamo dedicato strade, piazze e monumenti hanno creduto e voluto la bellezza della pace, erano un gruppo di giovani e hanno messo il loro primo mattone per costruire quello che Papa Francesco definisce “l’edificio della pace” ora tocca a noi continuare ad edificare.
Viva il 25 aprile, Viva la Resistenza, Viva la Liberazione, Viva Rivoli".
L'assessore Tatiana Perrone, pur appartenendo a Fratelli d'Italia, ribadisce il punto in un post così formulato:  "Oggi alla commemorazione per il 25 aprile per celebrare chi ha combattuto con sacrificio e generosità in nome dell'Italia e della Libertà".
A Acqui Terme la giunta di centrodestra affida la commemorazione allo storico Paolo Pezzino:

Orazione ufficiale
Acqui Terme, 25 aprile 2024
Cosa ricordiamo e cosa celebriamo il 25 aprile, anniversario della Liberazione? Ricordiamo la fine della guerra, la cacciata dal nostro paese dell'esercito tedesco, la caduta definitiva del regime fascista; celebriamo il sacrificio dei tanti, civili e combattenti, morti in quegli anni, e l'inizio di una nuova fase nella storia del paese, che vede i suoi momenti fondanti nell'insurrezione armata dei partigiani, che in quei giorni dell'aprile 1945 liberarono le principali città del Nord Italia dai tedeschi e dai fascisti, spesso prima dell'ingresso delle truppe alleate, nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946, che sanzionò il definitivo distacco degli italiani dalla monarchia complice dei crimini del fascismo, nella Costituzione della Repubblica italiana del 27 dicembre 1947, che ha garantito in questi anni, e garantisce tuttora, le libertà civili e il progresso sociale.
Ebbene, è opportuno ricordare che fu per la prima volta allora, nel dopoguerra, che a tutte le italiane e gli italiani fu riconosciuto il diritto di voto, come uno dei diritti di cittadinanza che rappresentavano il portato conseguente della vittoria delle forze antifasciste, mentre era dal colpo di stato monarchico-fascista del 1922 che non si erano più svolte libere elezioni in Italia. Quelle del 1924 furono caratterizzate da violenze, intimidazioni e brogli, la cui denuncia costò la vita al deputato Giacomo Matteotti, e quelle del 1929 rappresentarono la fine anche dell'apparenza di una contesa elettorale, sostituita da un sistema plebiscitario funzionale alla natura dittatoriale e totalitaria del fascismo, fondato sul potere di un capo il cui carisma personale sembrò allora la migliore garanzia per la soluzione dei gravi problemi del paese. Quello stesso duce, definito dal pontefice Pio XI, dopo i Patti lateranensi, "l'uomo che la Provvidenza ci fece incontrare", non fu solo il capo riconosciuto e acclamato di un regime autoritario e poliziesco, feroce con i propri cittadini (distruzione delle basilari libertà civili e politiche, repressione di ogni forma di dissenso, controllo asfissiante sulla stampa, tribunale Speciale, confino) ma anche colui che in seguito, con la promulgazione della legislazione razziale, avrebbe inflitto alla civiltà l'offesa più grave che un regime politico possa arrecarle, e avrebbe infine spinto il paese in un'avventura, quella della guerra, dalla quale gli Italiani ricavarono lutti e distruzioni.
Si sente affermare spesso che l'entrata in guerra dell'Italia sia stata un errore del fascismo, il che è giusto, se ci si riferisce all'impreparazione del regime alla guerra; ma si deve comunque aggiungere che la guerra non fu un incomprensibile e tragico errore di un Mussolini sempre più subalterno alle decisioni della Germania nazista. Tale affermazione non tiene conto del fatto che fin dall'inizio il fascismo incorporò al suo interno tutti i più virulenti caratteri del nazionalismo, e che quindi una concezione aggressiva ed espansiva della patria faceva parte del suo originario bagaglio ideologico. In tale concezione la guerra rappresentava non tanto una tragedia da rifiutare, e neanche una scelta estrema da evitare finché possibile, quanto piuttosto un’eventualità sempre tenuta presente, la cui traduzione in pratica dipendeva solo dalle opportunità offerte dal contesto internazionale; e alla propaganda a favore della guerra gli italiani erano stati sottoposti massicciamente. Il fascismo fin dall'inizio aveva alimentato il mito della "vittoria mutilata", aveva manifestato, sia pure in modo disordinato, propensioni espansionistiche verso l'Adriatico (contro la Jugoslavia), verso il Vicino Oriente e l'Africa, aveva mantenuto un atteggiamento aggressivo verso la Francia per vecchie questioni coloniali non risolte, aveva sostenuto il diritto del popolo italiano ad ottenere un “posto al sole”. La sua ideologia era esplicitamente e pericolosamente nazionalistica, e la sua politica estera dal 1927 rivolta a ottenere una revisione degli assetti territoriali stabiliti dopo la fine della prima guerra mondiale.
Non è un caso perciò che proprio il fascismo abbia acceso la miccia che porterà al conflitto mondiale, con la conquista violenta dell'Etiopia, uno Stato sovrano che, come l'Italia, aderiva alla Società delle Nazioni. L'invasione dell'Etiopia (3 ottobre 1935-6 maggio 1936), compiuta per rivendicare un posto fra le grandi potenze coloniali, fu intrapresa con grande dispendio di mezzi ed una condotta bellica dura e spietata (più volte si fece ricorso a bombardamenti indiscriminati, e si usarono bombe all'iprite e gas asfissianti). Spietata fu la repressione del generale Graziani, viceré di Etiopia, contro la guerriglia antitaliana, che tuttavia non fu mai completamente debellata.
Una serie di norme di stampo razzista proibì i matrimoni e i connubi fra italiani bianchi e i nuovi sudditi neri. Fu un’anticipazione delle leggi che sarebbero state emanate nel 1938 per discriminare gli ebrei italiani.
La guerra per il nazismo e il fascismo suo alleato non fu solo la conquista di nuovi territori: si voleva attuare un progetto di nuovo ordine internazionale, lucidamente perseguito, basato sulla subordinazione delle nazioni agli interessi delle razze superiori, un progetto, sovversione della civiltà europea. E' appena il caso ricordare a cosa portò quel progetto: 50 milioni di morti nel conflitto, di cui circa 30 in Europa, 300.000 italiani morti e feriti, enormi distruzioni in tutti i paesi coinvolti nel conflitto.
L’iniziale entusiasmo degli italiani per una guerra che era stata dipinta come rapida e portatrice di grandi vantaggi si trasformò progressivamente in indifferenza e quindi, con i rovesci nei vari campi di battaglia, in una sorda ostilità alla guerra, manifestandosi poi in aperte manifestazioni di dissenso: fu clamoroso lo sciopero degli operai delle fabbriche del nord che nel marzo 1943, partendo dalla FIAT, si estese al Piemonte, e poi a Milano e alla Lombardia: circa centomila operai manifestarono per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. Gli scioperi tuttavia assunsero una chiara rilevanza politica, sia per gli slogans antifascisti e contro la guerra che furono diffusi dai militanti organizzati attorno alle cellule comuniste, sia per la dissoluzione della struttura sindacale fascista. Gli scioperanti ottennero un generale aumento salariale, sancito da un accordo fra Confindustria e organizzazioni sindacali fasciste: il colpo alla credibilità del regime era stato forte, e l'eco dello sciopero si diffuse anche all'estero. Seguì la repressione con l'arresto e la deportazione di duemila persone nei due mesi successivi.
Eppure la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 fu provocata da un colpo di mano interno allo stesso regime, compiuto cioè da quelle forze che avevano condiviso con lui le principali responsabilità di governo fino ai primi rovesci militari: la monarchia, i militari. Le forze antifasciste erano ancora troppo deboli per incidere nell’andamento degli eventi.
Ma lo sfascio della struttura dello Sato, dopo l’annuncio dell’armistizio l’8 settembre 1943, rappresentò per alcuni italiani il punto di svolta. I comandi dei vari reparti stanziati in Italia e disseminati all'estero non erano stati messi in preallarme, e furono colti di sorpresa dall'annuncio dell'armistizio; e per di più gli ordini che invece ricevettero i comandanti delle truppe schierate a difesa di Roma furono tali da impedire qualsiasi efficace loro intervento, per proteggere invece la fuga del re. Ciò nonostante, si svolse una serie di combattimenti fra Italiani e Tedeschi, già ai limiti della guerra regolare, nei quali alcuni comandanti di divisione contravvennero agli ordini del comando supremo, in nome della superiore considerazione degli interessi del proprio paese, che correttamente venivano da loro individuati nell’opposizione al disarmo che veniva imposto dai Tedeschi.
Numerosi furono gli episodi di resistenza, spontanea o organizzata da alcuni comandanti di reparti: a Trento, Gorizia, Trieste, Cuneo, Savona, La Spezia, Pisa, Piombino, Chieti ed Ascoli, Viterbo, Napoli molti reparti rifiutarono di cedere le armi; la flotta si recò a Malta, secondo le clausole dell'armistizio, dove tuttavia arrivò solo una metà delle navi.
Nella battaglia per la difesa di Roma, dall’8 al 10 settembre, combatterono insieme, per la prima volta, militari e volontari civili. 1.167 furono i caduti tra i militari, circa 120 tra i civili.
Più frequenti episodi di resistenza si ebbero fra le truppe all'estero, per le quali la scelta era molto più radicale, e spesso quello di raggiungere il territorio nazionale un sogno impossibile. Così si ricordano episodi come quello di Cefalonia, dove le truppe italiane della Divisione Acqui combatterono contro quelle tedesche, superiori per armamento, per una settimana, in nome di motivazioni certo molteplici – l’onore militare, il giuramento di fedeltà al re, la speranza di conquistarsi con le armi il rientro in Italia, in alcuni il manifestarsi di una coscienza antifascista – che rappresentarono comunque un segnale di riscossa per tutto il paese.
Dopo la resa, molti soldati e gli ufficiali superstiti vennero passati per le armi. Anche a Corfù, Rodi, Lero e Kos nel Dodecaneso, vi furono scontri fra Italiani e tedeschi, e in queste ultime tre località fucilazioni da parte tedesche di militari italiani dopo la resa. In Grecia e Jugoslavia numerosi soldati italiani si unirono alle Resistenze locali. Circa 10.000 militari caddero all’estero partecipando alla Resistenza nei Balcani. La nazione allo sbando quindi si difese come poteva, e le cifre sulle perdite lo stanno a dimostrare.
Il 9 settembre il Comitato delle opposizioni di Roma, appresa la notizia della fuga del re, decise di costituirsi in Comitato di Liberazione nazionale, chiamando gli italiani alla lotta e alla resistenza "per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni". Nasce così la resistenza, con o senza armi, con una consapevole scelta di campo antifascista che rappresentò il primo segnale di riscossa della coscienza democratica, dopo 21 anni di regime e tre di guerra. Si doveva decidere di impegnarsi in nome di un futuro diverso che non trovava, al momento, alcun solido punto di ancoraggio istituzionale e politico (nonostante la ripresa di attività, peraltro difficile e con grandi limiti, dei partiti), per un'Italia "nuova" dai caratteri indefiniti, che comunque rappresentava l’ideale prosecuzione per alcuni, il completamento e l’attuazione per altri, di una rivoluzione sociale e democratica rimasta incompiuta nel primo Risorgimento.
In senso militare, si intende per Resistenza l'insieme delle formazioni di civili volontari che, a partire dal settembre 1943, combatterono contro i Tedeschi secondo i metodi della guerriglia (anche se non mancarono episodi di scontri frontali). Le formazioni partigiane erano attive per lo più in zone montuose e boschive difficilmente raggiungibili, ma erano presenti anche in pianura, nelle città e campagne, dove operavano i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) e le SAP (Squadre di Azione Patriottica). I partigiani (questo il nome di coloro che combattevano contro i Tedeschi, i quali li consideravano “banditi” e fuorilegge) erano organizzati in gruppi che, col crescere del loro numero, si articolarono in divisioni e brigate, e dal 9 giugno 1944 erano formalmente coordinati dal Comando generale per l'Italia occupata del Corpo Volontari della Libertà (CVL). Di fatto, però, l'autonomia delle varie formazioni fu sempre molto ampia, anche se non mancarono episodi di coordinamento.
Per alcuni la lotta contro i Tedeschi era collegata ad un profondo cambiamento delle strutture politiche e sociali del paese, lottavano per una "nuova" Italia, mentre nei militari che parteciparono alla Resistenza in formazioni autonome, la scelta di combattere nella guerriglia rappresentava piuttosto il prolungamento della concezione dell'onore militare, fondata sulla fedeltà e l'obbedienza al Re. Ma l’unità, seppure difficile, fu sempre raggiunta in nome della difesa di quei principi di libertà che erano stati conculcati dal fascismo.
Certo, la resistenza attiva non poteva che essere la scelta di una minoranza: il numero di partigiani combattenti variò molto nel periodo, alla fine dell'inverno 1943-44, secondo alcune stime, nelle varie formazioni vi erano forse solo 10.000-15.000 uomini armati (i due terzi dei quali al Nord), soprattutto per la mancanza di armamento. Nel febbraio-marzo 1944 i partigiani erano circa 20-30.000, ma erano già saliti a 50.000 nel corso dell'estate, per ridursi tuttavia drasticamente, dopo i grandi rastrellamenti dell'autunno 1944, agli stessi livelli della primavera 1944. Superato l'inverno 1944-1945, la resistenza si riorganizzò anche militarmente, in marzo partigiani erano circa 80.000, 130.000 alla vigilia dell’insurrezione.
Quanto ai caduti, i dati ufficiali della presidenza del consiglio danno 44.720 partigiani morti, 21.168 mutilati e invalidi. I partigiani italiani caduti all'estero, partecipando alla resistenza in vari paesi, furono circa 32.000. Fare il partigiano non era quindi una scelta opportunistica, e la morte o la cattura (che comportava poi quasi sempre l'esecuzione sommaria, spesso dopo aver subito sevizie) erano qualcosa di più che un vago rischio, rappresentando il costante e reale pericolo di quell’esperienza.
Ad essi dobbiamo aggiungere i militari italiani internati in Germania dopo l'8 settembre che, seppure sottoposti a durissime condizioni di prigionia (ne morirono per stenti, maltrattamenti, esecuzioni, bombardamenti circa 45.000 su 600.000) rifiutarono per oltre il 90% di ottenere la liberazione in cambio dell'arruolamento nell'esercito fascista repubblicano o in quello tedesco.
E i deportati politici italiani, condotti dall'Italia nei campi di concentramento del Terzo Reich per la loro opposizione al regime nazifascista tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, furono un totale di almeno 23.826 persone (22.204 uomini e 1.514 donne). Nei vari campi in cui furono detenuti furono contrassegnati da un triangolo rosso e sottoposti ad un durissimo regime carcerario e di lavoro coatto. Ne morirono 10.129, ovvero il 45%.
Con gli accordi firmati a Roma dal CLNAI il 7 dicembre 1944 con il comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, generale Maitland Wilson, e il 26 dicembre 1944, col governo italiano, il CLNAI, e il Corpo volontari della libertà, comandato da Cadorna, con Parri e Longo vicecomandanti, furono chiamati a dirigere l'insurrezione nazionale. Il 16 aprile le formazioni partigiane furono mobilitate per partecipare alla battaglia finale, e il 25 aprile il CLNAI assunse tutti i poteri militari e civili: alle ore 8 da Milano proclamò via radio l’insurrezione armata in tutti i territori ancora occupati, e Pertini incitò all’insurrezione i milanesi: “Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i Tedeschi di fronte al dilemma Arrendersi o perire”.
Il 29 aprile presso la Reggia di Caserta i Tedeschi, alla presenza di ufficiali del Regno Unito, degli Stati Uniti d'America, e di un osservatore sovietico, firmarono l’atto di resa incondizionata, operativa a partire dalle ore 14 del 2 maggio: a quella data le principali città del Nord erano state liberate dai partigiani. A Genova il generale Meinhold a Villa Migone firmò la resa tedesca davanti al presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria, Remo Scappini, unico caso di una grande città europea nella quale i Tedeschi si arresero ai “banditi”. Il 28 aprile a Milano cessarono i combattimenti, e gli Alleati vi entreranno il 30 aprile. Il 27 e 28 aprile Torino fu liberata per opera dei partigiani.
Il 6 maggio 1945 la bandiera del Corpo Volontari della Libertà (oggi custodita nel Museo Sacrario delle Bandiere al Vittoriano) fu decorata dal generale americano Crittenberger con la Medaglia d’Oro, conferita con Decreto Luogotenenziale del 15 febbraio 1945.
Qualcuno ha voluto ridurre la resistenza armata a una sorta di guerra privata fra fascisti e comunisti. Chi lo afferma non conosce la storia di quei mesi: non erano comunisti i soldati della Divisione Acqui a Cefalonia; non erano comunisti le centinaia di migliaia di soldati italiani internati, dopo l’8 settembre, nei campi tedeschi. Ma anche solo limitandoci alla resistenza armata, dobbiamo ricordare che, accanto alle formazioni comuniste (nelle quali peraltro non erano comunisti tutti coloro che vi militavano) vi erano gli azionisti, i cattolici, i liberali, le formazioni autonome e quelle composte prevalentemente da militari.
E se proviamo a declinare al plurale la parola “Resistenza”, per comprendervi tutta la varietà di comportamenti e vissuti che il popolo italiano mise in atto nei mesi dall’armistizio alla Liberazione, ne ricaveremo anche un’immagine diversa da quella di un’enorme massa di indifferenti al conflitto che si combatteva in Italia fra fascisti e antifascisti. Accanto all’antifascismo consapevole, con o senza armi, ricordiamo allora i gesti e i comportamenti di coloro che si opposero comunque all’occupazione tedesca e alla Repubblica sociale, in una resistenza civile diffusa e articolata, con atteggiamenti di disobbedienza, spesso in nome di un antifascismo esistenziale e prepolitico, comunque sempre pericoloso per chi lo praticava: a partire dalle donne, attive anche nella Resistenza armata e nell’antifascismo, e in prima fila nell’accogliere, proteggere e accudire gli uomini, sempre più ricercati e braccati in quei mesi.
Ricorderemo i contadini, che nutrirono militari alleati, sbandati o fuggiti dai campi di prigionia, e partigiani, dividendo con loro un pane sempre più scarso anche per le loro famiglie, e non denunciandoli a tedeschi e fascisti repubblicani.
Ricorderemo i sacerdoti, rimasti accanto ai loro fedeli in una situazione di disgregazione delle strutture istituzionali, i quali seppero opporsi con coraggio, e spesso con la semplice arma dell’abito talare, alla politica del terrore che investì le loro comunità.
Le forze politiche che avevano guidato la Resistenza si legittimarono come nuova classe dirigente dell'Italia proprio in quanto avevano saputo dirigere la lotta contro la dittatura fascista e l’occupazione tedesca, valorizzando ciò che le univa rispetto ai loro programmi divergenti per il futuro dell’Italia; e la Costituzione, che contribuirono ad elaborare, fu un felice compromesso che vide l'apporto di tutte le principali correnti ideologiche e forze politiche, ognuna delle quali rinunciò ad una parte delle proprie posizioni per privilegiare l'accordo con le altre sui principi generali che avrebbero regolato la vita della Repubblica. La rottura politica del 1947 e il piombare del paese nella guerra fredda fecero sì che entrambi gli schieramenti, quello sconfitto e quello vittorioso, sentissero la necessità di preservare, pur con un percorso non sempre lineare nelle varie fasi della storia repubblicana, un terreno di unità sui fondamenti, rappresentato da quell’accordo.
La memoria e la celebrazione del 25 aprile forniscono profondità storica e significato alla nostra cittadinanza, al nostro essere non solo soggetti passivi di uno Stato, ma cittadini che condividono un comune patrimonio di valori. L'azzeramento della memoria storica, sostituito da un senso di appartenenza nazionale generico, che non sia in grado di valutarne consapevolmente (e, se si vuole, anche criticamente) le origini e i fondamenti, ha sempre avuto tragiche conseguenze nella storia dei popoli: proprio sulla manipolazione (che presuppone l'ignoranza) della memoria storica si sono fondate e si fondano avventure autoritarie, i rigurgiti di nazionalismo, politiche dell'identità esclusiva, affermazione dell'intolleranza., la pericolosa illusione che libertà e democrazia siano acquisizioni definitive, e non processi che in continuazione vanno confermati e consolidati con l'impegno e la partecipazione alla vita pubblica dei cittadini.
E mentre il sogno di molti resistenti di un’Europa unita, federata e solidale come strumento di pace, di progresso e civiltà viene sempre più minato dal risorgere nel vecchio continente di egoismi nazionali ottusi e aggressivi, ricordare allora le tante resistenze delle italiane e degli italiani assume un significato particolare.
Commemorare il 25 aprile non significa ripetere stancamente un rito che ha perso ormai significato, ma rinnovare la nostra adesione a quei valori che la Resistenza ha proclamato e contribuito ad affermare, garantendo la nostra convivenza civile in tutti questi anni.
Ed allora anche quest’anno celebriamo con orgoglio di cittadini il nostro 25 aprile.


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