domenica 5 maggio 2024

Manfredi

 

 

 

 


Purgatorio, canto III, 103-145

 
E un di loro incominciò: "Chiunque
tu se’, così andando, volgi ’l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque".

Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.


Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: "Or vedi";
e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.

Poi sorridendo disse: "Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,

vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d'Aragona
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.


Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.


Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.

Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l'etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.


Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,

per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;

ché qui per quei di là molto s’avanza".

 

 Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi

 

così andando: continuando ad andare, senza perdere tempo a fermarti; la stessa locuzione in Inf. X 124.
– volgi 'l viso: lo sguardo; lo spirito dice volgi, perché già Dante si era avviato a tornare indietro, secondo l'indicazione ricevuta, volgendogli dunque le spalle.
guardail fiso: lo guardai fissamente; è il modo consueto con cui Dante affronta le persone. Qui sottintende lo sforzo di riconoscere, secondo la richiesta dell'altro. C'è qualcosa, in questo primo scambio di battute, che ricorda l'incontro con Farinata: l'autorevolezza della richiesta, l'umile e pronta risposta, questo fiso guardare (cfr. Inf. X 22 sgg.). Anche Farinata era un capo, ed un guerriero, anch'egli ben noto nella memoria di tutti i sopravvissuti.
pon mente...: fai attenzione, cerca di ricordare, se sulla terra (di là) tu mi hai mai visto. unque, come il lat. umquam, vale «una volta», «qualche volta»; così il nostro «mai».
– mi vedesti: Dante era nato nel 1265, e Manfredi era morto nel 1266. Dall'aspetto giovane di Dante, lo svevo doveva accorgersi – si è osservato – che era impossibile che quel vivo lo avesse mai incontrato in terra, così da poterlo ora riconoscere. Ma l'osservazione è oziosa, come tutte quelle che trattano il racconto dantesco senza accettare i fatti dichiarati, ma come una cronaca su cui esercitare una critica storica. È evidente che Manfredi, se lo dice, può pensarlo; tutto preso dal suo problema, egli non fa caso al calcolo degli anni; egli sa che tutti, in Italia, lo conoscevano. Ed è questo ultimo dato quello che conta, nel suo breve parlare: la coscienza di essere un uomo di prestigio e notorietà tali, che la sua storia non poteva essere indifferente a nessuno.
biondo era...: d'un tratto l'ombra ignota si fa persona, e la sua nobile bellezza sembra ergersi nel vago e indistinto paesaggio. Della bellezza fisica di Manfredi, tutti i cronisti parlano concordemente. La frase di Dante deriva dalla Scrittura («Erat autem rufus et pulcher aspectu decoraque facie», detto del giovane David in I Sam. 16, 12), proprio come quella che usa per descrivere il re il cronista Saba Malaspina («homo flavus, amaena facie, aspectu placibilis», RIS [L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, Milano 1723-1751] VIII, col. 830) per cui si può pensare a un riferimento diffuso tra gli scrittori del tempo. Ma in questo preciso momento del racconto, il giovane re morto in battaglia, e da tutti ritenuto un dannato perché scomunicato (si veda oltre, vv. 117 sgg.), acquista da queste parole una luce e una dignità (si vedano i tre aggettivi: biondobellogentile, cioè nobile) che di colpo cambiano la sua sorte, anche prima che la storia sia raccontata.
ma l'un de' cigli...: ma un colpo di spada aveva spaccato in due uno dei suoi sopraccigli. Il ma significa che quella bellezza era menomata dalla ferita al ciglio. In realtà essa rimane intatta per chi legge, fermata per sempre dal verso che precede. Di una ferita all'occhio narrano i cronisti contemporanei (cfr. nota al v. 119).
mi fui... disdetto: ebbi negato di averlo mai visto. Disdire può valere «sconfessare» o «negare», come è detto in Conv. IV, viii 12, e questo è il secondo caso. Il mi appare prolettico rispetto al soggetto dell'oggettiva: dell'averlo io visto mai. – umilmente, cioè con reverenza, quale il suo aspetto e il suo parlare richiedevano. Dante non sa ancora chi ha davanti, ma l'altro già appare avvolto in una maestà che esige l'umiltà altrui.
una piaga...: la prima ferita era subito visibile; Manfredi indica a Dante la seconda, quasi le due insieme potessero fargli capire chi era. Le due punte mortali, di cui dirà in seguito, inflitte al re nella battaglia di Benevento, erano infatti note a tutti, dai racconti orali e scritti che per tutta Italia allora se ne fecero; si veda la nota al v. 119.
sorridendo: questo sorriso, che compie il ritratto regale e cortese del giovane principe, non ha spiegazione razionale. Si è pensato che Manfredi anticipi nel pensiero la sorpresa di Dante al vederlo salvo; fra tutte è l'ipotesi più probabile, se una se ne deve fare, perché di quella insperata salvezza è costruito tutto il suo discorso seguente, ed essa diffonde ancora in lui la gioia e la dolcezza provate in quell'ultimo momento della vita. Tuttavia, come è dei molti moti del volto dell'uomo, non è possibile spiegare fino in fondo il sorriso che ora illumina l'aspetto già bello e gentile del re: Dante vi ritrae, con uno dei tocchi propri della sua grande arte, insieme cortesia, riserbo interiore, letizia spirituale, e più altro, come spesso tra gli uomini il lampo d'uno sguardo o di un sorriso esprimono ciò che la parola non può dire.
– Io son Manfredi: il celebre nome risuona con forza di meraviglia in chiusura di verso. Tutti infatti sulla terra credevano dannato il nemico della Chiesa, morto scomunicato in battaglia, quale era stato Manfredi di Svevia, il figlio di Federico II, re di Sicilia, sconfitto a Benevento da Carlo d'Angiò nel 1266.
Or le bagna la pioggia...: di quelle ossa dissepolte, Manfredi vede con mestizia lo scempio che ne fanno le intemperie; l'eco dell'Eneide, delle parole dell'insepolto Palinuro («nunc me fluctus habet versantque in litore venti», Aen. VI 362) accresce la forza nostalgica del verso, con il doppio rimando a Virgilio che così viene a istituirsi. Ricordiamo che il corpo per il cristiano è sacro, in quanto destinato alla resurrezione; di qui il rispetto e la liturgia che la Chiesa cristiana riserba alle spoglie mortali. Per questo anche il salvato può rammaricarsi della loro profanazione, pur nel distacco di chi vive ormai in una diversa dimensione. Questa la giustificazione teologica di quello che qui appare tuttavia soltanto come l'umano sospiro di Manfredi; egli, non condanna, ma più evidente risulta l'inumanità di chi disperse quelle ossa dal loro pur modesto e inglorioso riparo.
Costanza imperadrice: è la madre di Federico II, figlia di Ruggero d'Altavilla e sposa di Enrico VI. Ultima della dinastia normanna, essa portò in dote a Enrico l'eredità del regno di Sicilia, del quale appunto Manfredi si riteneva legittimo signore, contro il giudizio della Chiesa. Che egli non si dica figlio di Federico, ma nipote di Costanza, è dai più degli antichi spiegato col fatto che, essendo egli figlio naturale, «non volle tòrre il soprannome del padre, ma fassi nipote di sua ava» (Lana). Bisogna tuttavia ricordare che Federico II è dannato, e la sua menzione qui suonerebbe fuori luogo. Costanza risplende invece nel Paradiso, in versi solenni e gloriosi (Par. III 118-20). Che Manfredi voglia affermare, facendo questo nome, i suoi diritti dinastici, come molti pensano, per i quali appunto fu in guerra con la Chiesa, sembra, nel contesto di pentimento e di distacco di tutto il suo parlare, specie di ciò che segue, del tutto improbabile.
vadi: vada; come dichi del v. 117, è uno dei casi di uscita in -i della 2a persona del cong. pres. dei verbi in -ere e -ire, forma propria del fiorentino alla fine del '200, per cui vedi NTF [Nuovi testi fiorentini del Dugento, a c. di A. Castellani, Firenze 1952], pp. 69-71.
– mia bella figlia: è un'altra Costanza, che sposò Pietro III d'Aragona, e da cui nacquero i due re ricordati nel verso seguente: Giacomo d'Aragona, che succedette al padre, e Federico di Sicilia.
l'onor di Cicilia...: i due sovrani di cui sopra si è detto; che Dante li chiami onore dei due regni, mentre li giudica sempre severamente altrove (Purg. VII 115 sgg.; Par. XIX 130 sgg.; Conv. IV, vi 20; Vulg. El. I, xii 5), è parso strano a molti. Al solito, bisogna tenersi ai fatti: onore, a parte la considerazione che qui è il loro avo Manfredi a parlare, non è evidentemente apprezzamento delle loro personali qualità; il termine indicherà la loro oggettiva dignità regale, la loro carica onorifica, come proposero il Tobler e il Parodi (BSDI [«Bullettino della Società Dantesca Italiana»] VIII, 1901, p. 52). Se si guarda al contesto, appare chiaro che Manfredi si circonda qui di regali consanguinei, quasi inserendosi in una trafila di regine e di re, che legittimano di riflesso anche lui. L'intuizione degli antichi commentatori (cfr. la nota integrativa al v. 112 [precedente di sopra]) si rivela alla fine la più giusta.
e dichi 'l vero...: e che tu le dica la verità, cioè che io son salvo, se in terra si va dicendo una cosa diversa (altro), cioè che io sia dannato. Manfredi vela in quell'altro ciò che non vuole formulare in parole. S'intende che tale altro era proprio quello che tutti credevano e dicevano, essendo Manfredi morto scomunicato e maledetto. Dante interviene qui, come in più altre storie, a penetrare e cogliere l'ultimo momento, a tutti ignoto, di una vita umana, e a mutarne per sempre il senso. Ma nessuna era come questa famosa, nessun nome, sia pure di rilevanza storica come quello del conte di Montefeltro, aveva la portata di questo: l'ultimo degli Svevi, il nemico scomunicato dalla Chiesa. Per questo tanta emblematica rilevanza e fulgore acquista quella bontà infinita che della storia è protagonista. – Per dichi cfr. la nota a vadi del v. 115. Oltre a dichi si trova nella Commedia anche la forma più antica diche, in rima (Inf. XXV 6; Par. XXV 86), mentre di regola è usata la più moderna dica.
Poscia ch'io ebbi...
: irrompe qui la storia terrena, colta nel momento ultimo, alle estreme battute: la terribile battaglia è oltrepassata, quasi ignorata. Si comincia quando il re è finito, e c'è solo l'uomo ferito a morte.
– rotta la persona: ferito il corpo; ma rotto dice la violenza, e quasi lo spezzarsi della vita. – persona vale «corpo», come più volte nella Commedia (cfr. Inf. V 101 e nota).
due punte: due ferite inferte con la punta della spada. Sono quelle già viste da Dante, all'occhio e al petto, di cui troviamo il ricordo nei cronisti: «Telo percussus arundineo in oculo dextro prostratur...» (Bartolomeo da Nicastro, Historia Sicula, RIS2 [L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores (nuova ed.), Città di Castello-Bologna 1900 sgg.] XIII, p. 6); «Rex ipse, pugione ilia et frontem confossus, equo delabitur...» (F. Pipino, Chronicon, RIS [L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, Milano 1723-1751] IX, col. 679). Dalle voci corse, Dante sceglie due ferite – al volto e al petto – tipiche del valoroso (Frugoni).
– mi rendei...: mi rivolsi, mi arresi col cuore; in questo verbo è la chiave di tutta la storia. L'uomo ferito a morte rivolge il suo spirito a Dio. È questo solo atto che lo salva, come sarà di Buonconte, di Sapia, di Adriano V, di tutti i salvati della Commedia. (Si veda per l'uso di questo verbo, rendersi, e del suo simile rivolgersi, sempre usati da Dante per questo atto dell'animo, la nota a Inf. XXVII 83). Come abbiamo detto nell'Introduzione, questo estremo atto di Manfredi non è, quasi certamente, invenzione dantesca.
Orribil furon: Manfredi, e con lui Dante, non attenua in alcun modo la gravità di quelle colpe. Esse sono ben chiaramente riconosciute. E tuttavia tutte sparirono per quel semplice rivolgersi a Dio. Oltre alle colpe commesse contro la Chiesa – di ribellione e spregio di ogni ingiunzione e perfino della scomunica – e all'accusa ricorrente di uomo epicureo e lussurioso («tutta sua vita fu epicuria, non curando quasi Idio né santi, se non al diletto del corpo»: Villani VII, xlvi 25), si narravano di Manfredi, nella pubblicistica guelfa, anche orridi misfatti privati, quali l'uccisione del padre infermo e del fratello Corrado, per poter essere prima signore del regno, e altri numerosi tradimenti e delitti. Che cosa Dante credesse, non è qui detto, né alla fine ha grande importanza. Certamente negli orribili peccati sono comprese le prime due categorie di colpe; meno certamente l'ultima. Tuttavia, dalle molte voci corse, qualcosa di vero si poteva pur pensare che in quei racconti ci fosse. E Dante stesso, con la generica ma grave espressione, lascia che l'incertezza, che anch'egli dovette avere, resti tale per sempre.
sì gran braccia: braccia di così grande apertura che tutti possono ricevere e abbracciare, con qualunque carico di colpe o condanne. La potente immagine, che sembra ispirata dalla figura del Padre nella parabola del Figliol prodigo (Luc. 15, 20), è di quelle veloci e evidentissime, con le quali il grande linguaggio dantesco ferma per sempre gli eventi maggiori della vita dello spirito. Si cfr. il commento di Agostino alla parabola di Luca: «Quaecumque necessitas cogat peccatorem ad poenitentiam, non peccati quantitas, nec vitae enormitas, nec hominis extremitas excludit a venia, si perfecta fuerit immutatio voluntatis; sed in amplissimos sinus caritatis misericordia filios suos prodigos suscipit revertentes» (cit. Singleton).
che prende...: si veda la dolce fermezza con cui questo verso conclude il dramma dello svevo, e insieme ammonisce solennemente chi questa faccia di Dio (v. 126) non vuol riconoscere. È questo uno dei casi in cui la voce di Dante si leva veramente come quella di un profeta, di colui cioè che ricorda agli uomini del suo tempo, dimentichi o ignari, le verità divine.
'l pastor di Cosenza: Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Cosenza dal 1254 al 1266, era stato inviato come legato da Clemente IV presso Carlo d'Angiò, per sostenerlo nella lotta contro Manfredi. Con la parola caccia Dante raffigura quella implacabile persecuzione, come di cacciatore con la preda, che continuò fin dopo la morte, fatta da colui che doveva essere pastore, per conto dell'altro, supremo pastore della Chiesa.
messo: inviato, con delega di poteri (cfr. da ciel messo di Inf. IX 85).
– allora: al tempo della discesa di Carlo.
ben letta questa faccia: ben conosciuto questo aspetto del volto di Dio, cioè la sua infinita misericordia (leggere vuol dire qui «discernere», come nella espressione simile di Mon. III, xv 14: «divinae dispensationis faciem non discernunt»). L'altra faccia di Dio è la giustizia, che non è contraddetta dalla prima, grazie alla morte di Cristo, che pagò per tutti (cfr. Par. VII 103-20). Si veda giustizia e pietà fatte unico soggetto a Purg. XI 37. Se dunque il vescovo di Cosenza avesse ben compreso la misericordia divina, avrebbe avuto anch'egli pietà, e non avrebbe infierito sui miei miseri resti mortali.
l'ossa del corpo mio...: le mie ossa sarebbero ancora sepolte all'estremità del ponte (co, capo, detto del ponte anche in Inf. XXI 64) presso Benevento, sotto il pesante (grave) mucchio di sassi (mora); cioè là dove la pietà militare per l'avversario l'aveva fatto deporre da Carlo d'Angiò. In una lettera a Clemente IV, Carlo narra infatti di aver provveduto alla sepoltura del corpo di Manfredi, identificato sul campo di battaglia dopo più giorni, «cum quadam honorificentia sepulturae, non tamen ecclesiastice». Dai cronisti anteriori a Dante sappiamo che su di lui fu gettato un gran mucchio di pietre, forse una da ogni soldato, secondo un'antica usanza militare (cfr. Saba Malaspina, RIS [L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, Milano 1723-1751] VIII, col. 830; Guglielmo di Nangis, MGH [Monumenta Germaniae Historica, Berlin 1826-] SS XXVI, p. 654). Il dato della grave mora è dunque storico, e così, si può pensare, tutto il racconto.
– del ponte: secondo Riccobaldo da Ferrara il ponte di San Germano sul fiume Calore, vicino alla città di Benevento. Altri dicono che Manfredi fu sepolto «sulla pubblica via».
la guardia: la custodia.
– grave mora: mora per «mucchio» era dell'uso toscano, come ha dimostrato il Barbi (BSDI [«Bullettino della Società Dantesca Italiana»], N.S. V, 1897-8, p. 132 e SD IV, 1921, pp. 134-5); in particolare mora lapidum indica, in una carta dell'Archivio fiorentino del 1255, da lui riportata, proprio un «mucchio di sassi». Il valore del termine dantesco corrisponde evidentemente all'acervus lapidum di cui parla Saba Malaspina, e all'assemblée de pierres di Guglielmo di Nangis (cfr. nota ai vv. 127-9), per cui appare inutile cercare oltre. Si veda come in questa terzina emerga fortemente e tristemente la memoria del lontano corpo sepolto, come già all'inizio del canto Virgilio ricordava il suo, posto in luogo a questo ben vicino.
Or le bagna la pioggia...: di quelle ossa dissepolte, Manfredi vede con mestizia lo scempio che ne fanno le intemperie; l'eco dell'Eneide, delle parole dell'insepolto Palinuro («nunc me fluctus habet versantque in litore venti», Aen. VI 362) accresce la forza nostalgica del verso, con il doppio rimando a Virgilio che così viene a istituirsi (cfr. nota al verso precedente). Ricordiamo che il corpo per il cristiano è sacro, in quanto destinato alla resurrezione; di qui il rispetto e la liturgia che la Chiesa cristiana riserba alle spoglie mortali. Per questo anche il salvato può rammaricarsi della loro profanazione, pur nel distacco di chi vive ormai in una diversa dimensione. Questa la giustificazione teologica di quello che qui appare tuttavia soltanto come l'umano sospiro di Manfredi; egli, non condanna, ma più evidente risulta l'inumanità di chi disperse quelle ossa dal loro pur modesto e inglorioso riparo.di fuor dal regno: fuori del regno di Sicilia, oltre il Garigliano, l'antico Liri (il Verde), che ne segnava il confine con lo Stato Pontificio. L'intenzione del gesto del vescovo era appunto quella di gettare fuori, anche da morto, Manfredi da quel regno di cui egli si era appropriato contro la Chiesa. Come osservò il Frugoni, non si trattava in alcun modo di toglierlo da un terreno sacro, perché di proprietà ecclesiastica; le ossa furono disperse infatti nello stesso Stato Pontificio. E terra benedetta era considerata soltanto quella dei cimiteri. Per questo Carlo aveva sepolto lo scomunicato sul terreno pubblico, «non ecclesiastice». «Dicono alcuni – scrive il Landino – che il legato aveva giurato di cacciarlo del regno, et non avendo potuto cacciarlo vivo, cacciò il corpo».
– quasi lungo 'l Verde: quasi indica approssimazione, perché il luogo è rimasto indeterminato e ignoto.
le trasmutò: le fece trasportare, cambiandole di posto. Su questo episodio, nessun documento ci è rimasto che sia sicuramente anteriore al testo di Dante. Il Villani, che lo riporta, lo dà per dubbio («questo però non affermiamo»). L'unico altro cronista che ne parli, il Malispini, ormai sicuramente riconosciuto come dipendente dal Villani (cfr. Davis, L'Italia di Dante, pp. 273-87), è evidentemente influenzato dalla Commedia, essendo le sue parole sorprendentemente equivalenti a quelle dantesche. È tuttavia evidente che Dante aveva in qualche modo avuto notizia di questo fatto, sia perché egli si tiene sempre alla storia, e tanto più trattandosi di personaggi rilevanti, e di una così grave accusa fatta a un vescovo; sia perché il testo vi allude come a fatto ben noto. La cosa più probabile è che egli fosse stato informato per via orale – e bene informato appare del resto di quei fatti – dai molti toscani che erano stati in Puglia al seguito delle forze guelfe, e i cui ricordi erano ancora freschi al tempo della sua giovinezza (sulla questione si veda A. Frugoni in NLD [Nuove letture dantesche, Firenze 1966-1976] III, pp. 267-90).
– a lume spento: come era d'uso per gli scomunicati e gli eretici, accompagnati alla sepoltura «sine cruce, sine luce».
Per lor maladizion...: si veda la dura condanna presente in quel dispregiativo lor: di loro, dei papi e vescovi. La maladizion indica la scomunica detta «maggiore», accompagnata appunto da maledizione o anatema, come quella da cui fu colpito Manfredi («propter hoc specialiter anathematis vinculo innodamus» si legge nella bolla del 1259). Essa terminava giudicando il peccatore «damnatum cum diabolo et angelis eius et omnibus reprobis in igne eterno... nisi forte ad emendationem et paenitentiam redeat et Ecclesiam Dei, quam laesit, satisfaciat». Chi ne veniva colpito era quindi ritenuto generalmente dannato se moriva non riconciliato con la Chiesa. Di qui la potenza con cui si leva la parola dantesca, di fronte ai vescovi e agli uomini tutti; e non per niente egli prende il caso estremo, della più grave tra le condanne ecclesiastiche. Per la loro maledizione, che è di loro, non di Dio, non si perde l'etterno amore, quell'amore divino che non viene mai meno, tanto che non possa ritornare nell'anima, finché la speranza ha ancora un barlume, un poco (fior) di verde, cioè non è ancora del tutto inaridita (per fior, un'ombra, un briciolo, cfr. Inf. XXV 144 e nota).
Vero è che...: è forma correttiva: è vero tuttavia che... C'è tuttavia una conseguenza di quella condanna, immaginata da Dante a riconoscimento della funzione vicaria data da Cristo alla Chiesa: essa non può togliere la salvezza a chi si penta, ma può ritardarla. Quale, cioè chiunque, muore in contumacia, cioè fuori dalla comunione della Santa Chiesa, così qui chiamata per riconoscimento della sua divina origine, deve stare fuori dalla montagna del purgatorio trenta volte il tempo della sua scomunica. Questa invenzione precisa con chiarezza tutta la situazione: non vi è spregio per la Santa Chiesa, ma il suo ruolo è definito e limitato a una giurisdizione: essa resta cioè all'esterno di ciò che avviene nell'intimo dei cuori, noto a Dio solo, ma ciò che essa lega resta in qualche modo legato, con funzione pubblica e pedagogica di ammonimento e punizione. Dio può non rispettare la scomunica per quanto riguarda la salvezza, ma non può non riconoscerla – avendo egli dato questo potere a Pietro – per quanto riguarda la sanzione temporale.
ancor ch': anche se.
da questa ripa in fore: all'esterno di questa parete, o pendio, dov'è l'ingresso del purgatorio vero e proprio, come si vedrà.
per ognun tempo... trenta: per ogni misura di tempo, trenta misure. Cioè trenta volte tanto. Se un anno, trent'anni; se un mese, trenta mesi, ecc.
se tal decreto...: a meno che tale sentenza (cioè la misura stabilita di trenta volte il tempo della scomunica) non sia abbreviata, fatta più corta dalle preghiere buone, cioè che salgano da cuori in grazia di Dio (cfr. IV 134). Questa leggera correzione (se tal decreto...), aggiunta così discretamente alla fine, si rivela poi il principale intento, l'origine vera di tutto il discorso e dell'intervento stesso di Manfredi. C'è infatti qualcosa che può cambiare questa sorte, abbreviare questo tempo. Ed è la preghiera dei buoni. Come si vedrà, è questo uno dei motivi-guida di tutta la cantica, annunciato, come tutto il resto, in questo primo decisivo episodio. In tal motivo è racchiusa da una parte la grande idea della comunione dei santi – per cui ogni bene è condivisibile tra i cristiani, sia vivi che morti, in quanto parti di un solo corpo mistico – e dall'altra esso fonda l'umile atteggiamento dei salvati, che solo dagli altri attendono, e chiedono, aiuto alle loro pene.
in sua presunzion: nello stato di scomunica, che durava finché lo scomunicato non si riconciliava, sottomettendosi alla Chiesa; quello era dunque un tempo di presunzïon, cioè di orgogliosa e proterva ribellione, presumendo il proprio giudizio superiore a quello della Chiesa stessa. Con una sola parola Dante definisce lo stato d'animo di costoro, ivi compreso quello dell'orgoglioso re Manfredi. Tutta la storia non tende infatti a fare dello svevo un buono, giacché ne riconosce gli orribili peccati e l'ostinata presunzione, ma a misurare su quelli la bontà infinita di colui che perdonò e lo prese.
oggimai...: ormai. Il tono si fa dimesso e familiare, come di chi parla da pari a pari. Spariti i fantasmi della sanguinosa battaglia, della guerra con la Chiesa, e delle stesse reali parentele – tutti fatti ormai remoti –, resta la realtà presente, nella quale le anime sono uguali, e l'aiuto può venire non dai grandi della terra, ma dalla figlia che è buona, come ogni padre può pensare.
la mia buona Costanza: così diranno più avanti altre anime (dì a Giovanna mia...: VIII 71). Prima l'ha detta bella e madre di due re, quando ancora parlava come il Manfredi della terra; ora il tono è diverso, e ciò che conta davanti a Dio è solo la bontà del cuore.
come: in quale stato, cioè salvo.
ché qui...: perché in purgatorio molto si può progredire, avanzare in purificazione – e quindi guadagnar terreno nella salita della montagna – per merito di coloro che sono ancora in terra (di là). Questo verso sintetico esprime tutta la potenza di quell'aiuto (molto s'avanza) di cui le anime dei morti sono consapevoli ben più dei vivi, che non ne sanno la portata. Esso chiude il canto della misericordia inconoscibile di Dio, le cui vie non sono quelle dell'uomo.

 

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