giovedì 11 aprile 2024

Gioventù bruciata

 

 


 

Nella versione poi pubblicata  in Ultimo viene il corvo manca la parte riservata alla figura di Melpomene e le citazioni carducciane sono più corte. Per il resto la prospettiva resta inattesa. Sono i vecchi che non sopportano i giovani, rendendo più radicale l'emarginazione alla fine. La parte del fiabesco è affidata ai versi di Carducci che segnalano una volontà di evasione. I libri sono oggetti persi sullo sfondo.  

 

Italo Calvino, I figli poltroni, l'Unità edizione piemontese, 8 gennaio 1948
 

All’alba io e mio fratello dormiamo con le facce affondate nei guanciali, e già si sentono i passi
chiodati di nostro padre che gira per le stanze. Nostro padre quando s’alza fa molto rumore, forse
apposta, e fa in modo di far le scale con le scarpe chiodate su e giù venti volte, tutte inutili. Forse è
tutta la sua vita così, uno spreco di forze, un gran lavoro inutile, e forse lo fa per protestare contro
noi due, tanto gli facciamo rabbia.
Mia madre non fa rumore ma è già in piedi anche lei in quella grande cucina, ad attizzare, a
sbucciare con quelle mani che diventano sempre più tagliuzzate e nere, e a nettare vetri e mobili, a
cincischiare nei panni. É una protesta contro di noi anche questa, di accudire sempre zitta e tirare
avanti la casa senza serve.
- Vendetevela, la casa e mangiamoci i soldi, - dico io, stringendomi nelle spalle quando mi
angosciano che non si può più andare avanti, ma mia madre continua a sfaticare zitta, mattina e sera
che non si sa quando dorme, e intanto le crepe s’aprono più lunghe nei soffitti e file di formiche
costeggiano i muri, e le erbe e i rovi salgono dal giardino incolto Forse tra poco della nostra casa
non resterà che una rovina coperta di rampicanti. Ma mia madre la mattina non viene a dire di
alzarci perché sa che tanto è inutile e quell’accudire zitta zitta con la casa che le cade addosso è il
suo modo di perseguitarci.
Mio padre invece alle sei già spalanca la nostra porta in cacciatora e gambali e grida: - Io vi
bastono! Pelandroni! In questa casa tutti si lavora tranne voi! Pietro, alzati se non vuoi che
t’impicchi! Fa’ alzare quel pendaglio di forca di tuo fratello Andrea!
Noi l’avevamo già sentito avvicinarsi nel sonno e stiamo con le facce sepolte nei guanciali e
nemmeno ci voltiamo. Protestiamo con grugniti ogni tanto, se tarda a smettere. Ma presto se ne va:
sa che tutto è inutile, che è tutta una commedia la sua, una cerimonia rituale per non dichiararsi
vinto.
Noi riannaspiamo nel sonno: mio fratello, il più delle volte, non s’è nemmeno svegliato, tanto ci
ha fatto l’abitudine e se n’infischia. Egoista e insensibile, è, mio fratello: alle volte mi fa rabbia. Io
faccio come lui, ma almeno capisco che non andrebbe fatto così e il primo ad esserne scontento
sono io. Pure continuo, ma con rabbia.
- Cane, - dico a mio fratello Andrea, - cane, ammazzi tuo padre e tua madre -. Lui non risponde:
sa che sono un ipocrita e un buffone, che più fannullone di me non c’è nessuno.
Di lì a dieci minuti, venti, mio padre è di nuovo lì dalla porta che s’angoscia. Adesso usa un altro
sistema: delle proposte quasi con indifferenza, bonarie: una commedia che fa pietà. Dice: - Allora
chi è che viene con me a San Cosimo? C’è da legare le viti.
San Cosimo è la nostra campagna. Tutto ci secca e non c’è braccia né soldi per mandarla avanti.
- C’è da scavare le patate. Vieni tu Andrea? Eh, vieni tu? Dico a te, Andrea. C’è da girare l’acqua
nei fagioli. Vieni, allora?
Andrea leva la bocca dal cuscino, dice: - No, - e dorme.
- Perché? - mio padre fa ancora la commedia, - era deciso Pietro? Vieni tu, Pietro?
Poi fa ancora una sfuriata e ancora si calma e parla delle cose che ci sono da fare a San Cosimo
come se fosse inteso che venissimo. Cane, io penso di mio fratello, cane, potrebbe alzarsi e dargli
una soddisfazione una volta, povero vecchio. Ma addosso non mi sento nessuna spinta ad alzarmi e
mi sforzo di farmi riprendere dal sonno che se n’è già andato.
- Bene, fate presto che vi aspetto, - dice nostro padre e se ne va come se fossimo già d’accordo.
Lo sentiamo camminare e sbraitare a basso, preparandosi i concimi, il solfato, le sementi da portare
in su; ogni giorno parte e ritorna carico come un mulo.
Già pensiamo che sia partito ed eccolo che grida ancora dal fondo delle scale: - Pietro! Andrea!
Cristo di Dio, non siete pronti?
É l’ultima sua gridata: poi sentiremo i suoi passi ferrati dietro la casa, sbattere il cancelletto, e lui
allontanarsi scatarrando e gemendo per la stradina.
Ora si può ripigliare un sonno filato, ma io non riesco a riaddormentarmi e penso a mio padre che
sale carico per la mulattiera scatarrando, e poi sul lavoro che s’infuria contro i manenti che gli
rubano e lasciano tutto andare alla malora. E guarda le piante e i campi, e gli insetti che rodono e
scavano dappertutto e il giallo delle foglie e il fitto dell’erbaccia, tutto il lavoro della sua vita che va
in rovina come i muri delle fasce che diroccano a ogni pioggia, e sacramenta contro i suoi figli.
Cane, dico pensando a mio fratello, cane. Tendendo l’orecchio mi arriva da basso qualche
acciottolare, qualche cadere in terra di manico di scopa. Mia madre è sola in quella enorme cucina e
il giorno appena schiarisce i vetri delle finestre e lei sfatica per gente che le volta le spalle. Così
penso, e dormo.
Non sono ancora le dieci che è nostra madre a gridare, dalle scale: - Pietro! Andrea! Sono già le
dieci! - Ha una voce molto arrabbiata, come si fosse stizzita d’una cosa inaudita, ma è così tutte le
mattine. - Sìii... - gridiamo. E restiamo a letto ancora una mezz’ora, ormai svegli, per abituarci
all’idea di alzarci.
Poi io comincio a dire: - Dài, svegliati, Andrea, alé, alziamoci. Su, Andrea, comincia a alzarti -.
Andrea grugnisce.
Alla fine siamo in piedi con molti sbuffi e stiramenti. Andrea gira in pigiama con movimenti da
vecchio, la testa tutta arruffata e gli occhi mezzo ciechi ed è già lì che lecca la cartina e si mette a
fumare. Fuma alla finestra, poi comincia a lavarsi ed a sbarbarsi.
Intanto ha incominciato a borbottare e a poco a poco dal borbottio ne esce fuori un canto. Mio
fratello ha voce da baritono ma in compagnia è sempre il più triste e mai che canti. Invece da solo,
mentre si rade o fa il bagno attacca uno di quei suoi motivi cadenzati a voce cupa. Canzoni non ne
sa e ci dà sempre dentro in una poesia di Carducci imparata da bambino:
Sul castello di Verona -
batte il sole a mezzogiorno
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno

Io son di là che mi vesto e faccio coro, senz’allegria, con una specie di violenza:
Mormorando per l’aprico
verde il grande Adige va
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.

Mio fratello continua a cantare senza saltare una strofa fino alla fine, lavandosi la testa e spazzolandosi le scarpe e accanendocisi come fosse una questione di vita.
Nero come un corvo vecchio
e negli occhi aveva carboni.
Era pronto l'apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Più canta e più io mi riempio di rabbia e m’inferocisco anch’io a cantare:
Mala sorte è questa mia
mala bestia mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand'io ritornerò.
É l’unico momento che facciamo del chiasso. Poi stiamo zitti quasi per tutta la giornata.
Scendiamo giù e ci scaldiamo il latte, poi dentro ci inzuppiamo pane e mangiamo con grande
rumore. Mia madre ci è intorno e parla lamentandosi ma senza insistenza di tutte le cose che ci sono
da fare, delle commissioni che occorrerebbero. - Sì, sì, - rispondiamo e ce ne dimentichiamo subito.
Al mattino di solito non esco, resto a girare per i corridoi con le mani in tasca, o riordino la
biblioteca. Da tempo non compro più libri: ci vorrebbero troppi soldi e poi ho lasciato perdere
troppe cose che m’interessavano e se mi ci rimettessi vorrei leggere tutto e non ne ho voglia. Ma
continuo a riordinare quei pochi libri che ho nello scaffale: italiani, francesi, inglesi, o per
argomento: storia, filosofia, romanzi, oppure tutti quelli rilegati insieme, e le belle edizioni, e quelli
malandati da una parte.
Mio fratello invece va al caffè Imperia a vedere giocare al biliardo. Non gioca perché non è
capace: sta ore e ore a vedere i giocatori, a seguire la biglia negli effetti, nei rinterzi, fumando,
senz’appassionarsi, senza scommettere perché non ha soldi. Alle volte gli dànno da segnare i punti,
ma spesso si distrae e sbaglia. Fa qualche piccolo commercio, quanto gli basta per comprarsi da
fumare; da sei mesi ha fatto domanda per un posto nell’azienda dell’acquedotto che gli darebbe da
mantenersi, ma non si dà da fare per averlo, tanto il mangiare per ora non gli manca.
A pranzo mio fratello arriva tardi, e mangiamo zitti tutt’e due. I nostri genitori discutono sempre
di spese e introiti e debiti, e di come fare a tirare avanti con due figli che non guadagnano, e nostro
padre dice: - Vedete il vostro amico Costanzo, vedete il vostro amico Augusto -. Perché gli amici
nostri non sono come noi: han fatto una società per la compravendita dei boschi da taglio e son
sempre in giro che trafficano, e contrattano, anche con nostro padre, e guadagnano mucchi di soldi e
presto avranno il camion. Hanno una grassona con loro, che si chiama Melpomene, e se la passano dall'uno all'altro. Sono degli imbroglioni e nostro padre lo sa: però gli piacerebbe vederci
come loro, piuttosto che come siamo: - Il vostro amico Costanzo ha guadagnato tanto in
quell’affare, - dice. - Vedete se potete mettervici anche voi -. Noi pensiamo a Melpomene che ride forte, e si fa tastare da tutti, pensiamo agli imbrogli che fanno, magari anche a nostro padre. Però con noi i nostri amici vengono a spasso, ma affari non ce ne propongono: sanno che siamo dei fannulloni e dei buoni a nulla.
Al pomeriggio mio fratello torna a dormire: non si sa come faccia a dormire tanto, pure dorme. Io
vado al cinema: ormai i film nuovi non mi attirano più, vado in certi cinemetti popolari con le panche in platea dove rivedo film di sette otto anni fa, che so ormai a memoria: "Notti messicane", "Napoli terra d'amore", forse per non far fatica a tener dietro alla storia. 
Dopo cena, sdraiato sul divano, leggo certi lunghi romanzi tradotti che mi imprestano: spesso nel
leggere perdo il filo e non riesco mai a venirne a capo. Mio fratello s’alza appena mangiato ed esce:
va a veder giocare al biliardo.
I miei vanno subito a dormire perché al mattino si alzano presto. - Va’ in camera tua che qui
sprechi luce, - mi dicono salendo. - Vado, - dico, e rimango.
Già sono a letto e dormo da un po’, quando verso le due torna mio fratello. Accende la luce, gira
per la stanza e fuma l’ultima. Racconta fatti della città, dà giudizi benevoli sulla gente. Quella è
l’ora in cui è veramente sveglio e parla volentieri. Apre la finestra per fare uscire il fumo,
guardiamo la collina con la strada illuminata e il cielo buio e limpido. Io mi alzo a sedere sul letto e
chiacchieriamo a lungo di cose indifferenti, ad animo leggero, finché non ci torna sonno.

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