giovedì 10 febbraio 2022

Il danno scolastico




Massimo Rostagno, Il danno scolastico. A proposito di un testo recente 

Un libro importante si aggira, come uno spettro, per le librerie italiane. Un libro provocatorio, ma non avventurista; abrasivo, ma costruttivo. Si tratta de Il danno scolastico, di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (Milano, La nave di Teseo, 2021) Gli autori riversano nel testo la loro pluridecennale esperienza all’interno delle istituzioni formative italiane: nell’Università, lui, nei licei e nelle scuole superiori, lei. E vanno a toccare uno dei punti nevralgici del sistema-Italia, talmente decisivo da poter determinare in misura considerevole il futuro stesso del nostro paese nei prossimi decenni, la nostra stessa collocazione nel novero delle nazioni più sviluppato. E proprio perché il tema affrontato è di questa rilevanza, il libro di Ricolfi e Mastrocola meriterebbe qualcosa di più di una semplice recensione, di un qualche distratto articolo dovuto per lo più alla notorietà degli autori. Dovrebbe generare un vero, ampio e articolato dibattito nazionale in cui far convergere non soltanto pareri più o meno qualificati e autorevoli, ma analisi approfondite, coinvolgimento di attori pubblici, impegno di vari livelli istituzionali.

La tesi centrale è aspra ma proprio per questo decisamente stimolante. Si configura come un atto di accusa, senza sconti, contro la visione “progressista” della scuola che si è affermata quanto meno dopo il 1968 e si può riassumere facilmente: la scuola non selettiva, facilitata, ispirata a principi di inclusione sociale per favorire il successo scolastico delle classi meno abbienti ha prodotto esattamente il suo contrario. Il buonismo progressista ha di fatto danneggiato proprio le classi sociali più basse che avrebbe voluto promuovere. Nel nome dell’inclusione ha escluso, nel nome della democrazia si è fatta più antidemocratica.

La provocatoria tesi non è soltanto l’ennesimo episodio di una resa dei conti che Luca Ricolfi porta avanti da anni con la sinistra e la sua cultura (a partire da “Perché siamo antipatici?”, ad esempio). E’ molto di più: è la denuncia del fallimento di una strategia formativa e culturale il cui risultato più visibile è stato l’abbassamento considerevole del livello qualitativo dell’insegnamento e dell’apprendimento. A furia di ridurre le esigenze, di abbassare l’asticella delle richieste, le competenze e le conoscenze degli studenti si sono impoverite fino al punto da produrre uno iato tra il titolo di studio formale ottenuto e la qualità sostanziale della preparazione. In altri termini, i titoli di studio conseguiti non corrispondono più alla effettiva preparazione raggiunta. Una sufficienza si dà ormai a tutti e la bocciatura è un fatto rarissimo ed estremo. Una sorta di “liberi tutti” che ha contrassegnato la scuola degli ultimi decenni.

A titolo esemplificativo si può portare la percentuale dei bocciati all’esame di Stato che conclude il ciclo degli studi superiori ( tuttora chiamato impropriamente esame di maturità): ai tempi della riforma Gentile del 1923 la percentuale di bocciati era intorno al 40%; verso la metà degli anni’60 si era ridotta al 30% e negli anni ’90 si è abbassata al 10%. Negli anni zero del 2000 scende al 3%, per ridursi più recentemente a meno dell’1%. Chi ha avuto – come chi scrive – esperienza diretta e viva degli esami di fine ciclo all’interno delle commissioni degli ultimi anni non può che confermare largamente questa realtà. Bocciare è diventato quasi un reato, che spesso va giustificato ( in caso di ricorsi) proprio davanti ad un tribunale ed a un giudice. L’evoluzione delle percentuali dell’esame di maturità non è che il riflesso di ciò che avviene negli anni scolastici precedenti all’ultimo. Nel nome dell’inclusione scolastica, qualunque studente semianalfabeta può avanzare negli studi superiori e conseguire senza eccessivi patemi l’agognato diploma.

Lo scadimento della qualità, il fatto che si pretende di meno dagli studenti e l’aumento della “comprensione” verso le innumerevoli forme di difficoltà sono un’esperienza ben nota a chiunque abbia operato nella scuola degli ultimi decenni. Talvolta, questa realtà quotidiana, raggiunge le pagine dei giornali attraverso la accorata denuncia dell’incapacità dei nostri studenti a scrivere in un corretto italiano ( ricordate la polemica anche delle settimane scorse su tema sì o tema no all’esame di Stato?) o a comprendere un testo scritto o a gestire mentalmente una semplice percentuale. Fa notizia per 24 ore, poi sprofonda nell’indifferenza generale.

La denuncia dello scadimento della scuola inclusiva o facilitata che consente l’avanzamento anche ai più somari non è dunque una novità. Ciò che invece contraddistingue il libro di Mastrocola e Ricolfi è una certa contestualizzazione culturale e politica. La scuola che promuove, che include e che dunque non seleziona e non discrimina a sufficienza tra chi è bravo e meritevole e chi non lo è ha una sua matrice culturale precisa: è figlia della concezione progressista, che da don Milani attraverso la contestazione sessantottesca fino al “diritto al successo formativo” del ministro Berlinguer, ha di fatto smantellato i meccanismi selettivi a favore di una democratica indulgenza plenaria che assolve e promuove tutti. Ma ciò che è peggio – ed è il nucleo della tesi degli autori – sono le conseguenze: a pagare il prezzo di questa indulgenza, sono proprio quei ceti in nome dei quali la cultura progressista l’ha praticata. In altri termini, la scuola progressista, facilitata danneggia i ceti medio bassi e avvantaggia quelli medio alti. Aumenta l’iniquità sociale invece di ridurla, inceppando quell’ascensore sociale per eccellenza che è proprio la scuola. Se la possibilità di migliorare la propria condizione sociale di partenza è affidata alla scuola, il suo mal funzionamento accentua le diseguaglianze di partenza, perché toglie ai figli dei ceti più svantaggiati l’unico strumento vero di emancipazione: una solida e valida preparazione scolastica.

La tesi centrale del testo appare - nella sua compattezza - assolutamente condivisibile. Il libro contiene un atto d’accusa forte, sostenuto da dati e riscontri oggettivi e numerici difficilmente contestabili che mostrano la correlazione tra scadimento della qualità scolastica e incremento dell’iniquità sociale. Se la tesi appare pienamente condivisibile (e meritevole di un dibattito ampio e approfondito) la parte che convince di meno è relativa alle responsabilità. Chi sono i colpevoli? Contro chi puntare l’indice accusatorio?

O meglio, chi sono gli esecutori materiali che hanno premuto il grilletto della pistola approntata dalla cultura permissivo-progressista? Su questo il libro prova ad essere altrettanto preciso: i risultati evidenziati sono l’esito di un lungo percorso che parte addirittura dalla scuola media unica del ’62 che elimina l’obbligatorietà del latino (su questo ci sarebbe molto da discutere), trova il suo trionfo nella demagogia egualitaria del ’68. In tempi più recenti, - diciamo negli ultimi trent’anni – gli autori individuano negli interventi del ministro Luigi Berlinguer lo smantellamento definitivo di ciò che restava della serietà precedente delle istituzioni scolastiche: dall’introduzione del POF (piano offerta formativa) che aumenta il peso delle esperienze extracurricolari a scapito di quelle curriculari fino alla proclamazione ufficiale del “diritto al successo formativo” per ogni studente. In sostanza la riforma Berlinguer del 2000 avrebbe sostituito la serietà della preparazione e della conoscenza con la fuffa delle competenze abbassando definitivamente un’asticella già piuttosto bassa. Poi il ministro Gelmini avrebbe completato l’opera producendo il disastro odierno. In definitiva, sullo sfondo dell’Europa e della dominante cultura mercatista, ad affossare definitivamente la scuola italiana sarebbero stati gli interventi politici e le modifiche legislative introdotte dai diversi governi.

Fin qui, per sommi capi, le tesi degli autori, che sono sostenute da argomentazioni molto convincenti, e per nulla azzardate. Magari problematiche, ma non infondate.

Qual è allora l’aspetto carente della ricostruzione di Ricolfi-Mastrocola? Perché la ricerca delle responsabilità dell’attuale situazione appare quanto meno parziale nel tentativo di ricondurla tutta alla politica e alle sue decisioni soggettive?

In altri termini, che cosa manca?

Manca il “paesaggio”. La degenerazione dei processi formativi è descritta con grande efficacia ma è come se intorno alla scuola ci fosse il nulla. Vengono in mente le icone medievali che raffigurano meravigliosamente la Vergine, ma la collocano su uno sfondo dorato senza nulla intorno. Senza paesaggio, appunto.

Fuor di metafora, negli ultimi trent’anni siamo stati attraversati da una fenomenale trasformazione trainata prevalentemente (ma non solo) dalla tecnologia. Si può immaginare che mutamenti di questa portata non abbiano attraversato i processi formativi? Che gli attori della scuola – in primis gli studenti, i docenti e persino le famiglie – non siano stati riplasmati da una rivoluzione tecnologica tanto capillare e concentrata in un tempo così breve? E che non ci sia stato un impatto sul rapporto con la conoscenza di milioni di adolescenti, sulla loro capacità di attenzione, sulla struttura stessa del sapere e della sua trasmissione? L’ecosistema in cui è stata immersa la scuola nell’ultimo trentennio è imparagonabile con quello della professoressa Peretti – la “Pera” del libro di Ricolfi e Mastrocola. Questo sfondo, così decisivo, manca nel libro e la scuola è analizzata efficacemente sì, ma come in un compartimento stagno, separata dal suo travolgente contesto economico e sociale.

Questa omissione toglie qualcosa al valore del libro e della sua tesi centrale? Assolutamente no. Semmai, proprio perché la tesi ed il tema sono così importanti sembrerebbe opportuno collocarli meglio all’interno del contesto della ipermodernità contemporanea. Non per svilirne il valore, ma per accrescerlo.


https://www.doppiozero.com/materiali/mastrocola-e-ricolfi-quale-e-il-vero-danno-scolastico

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