martedì 4 agosto 2020

Una lettura femminile di Radiguet




Dalla parte di lei

Un giorno Valentina ha trovato sul banco, tra i libri in vendita, un romanzo dalla copertina azzurra: Il diavolo in corpo, di Raymond Radiguet, nella traduzione di Francesca Sanvitale, Einaudi, Torino 1989. Non aveva mai sentito parlare di questa opera breve (133 pagine in tutto). Il risvolto di copertina, alla fine, diceva: Radiguet è un ibrido, un incrocio di letteratura e di cuore, che oscilla dal disprezzo della forma alla sua esaltazione. L’aria di disastro, di lucido egoismo che spira dal Diavolo in corpo viene proprio dal tentativo di fermare, per non perderlo, il senso delle cose e di sé, e non dallo scandalo di una storia d’amore, come si è sempre creduto.
Che brutto esordio per una lettura che poteva essere appassionante! La storia d’amore c’era, ma non rappresentava il dato centrale. Prima veniva l’esercizio letterario, il “tentativo di fermare il senso delle cose e di sé”. Che barba! L’amore così presentato diventava una specie di accessorio.
In realtà, alla lettura del libro, si scopriva che l’ambivalenza dello scrittore non era tanto risolta a favore della freddezza stilistica. Radiguet era davvero duplice, come del resto sosteneva Francesca Sanvitale nella postfazione (Racconto di un traduttore d’occasione, pp. 137-158): stilisticamente emergeva una pulsione vitale, prima di tutto, e la verità o crudeltà di sentimenti, dei quali si diceva che solo la giovinezza era capace. […] Raymond Radiguet risultava un ibrido ed era il suo nuovo fascino. Un disastrato centauro, un disperato incrocio di letteratura e di cuore, di disprezzo per lo stile e sua esaltazione.
Il libro conteneva una storia, sia pure rielaborata, per lunghi tratti, nella forma di una riflessione fredda e distaccata. E la storia rispondeva a un intreccio solido e antico nella sua sostanza. La materia era la stessa che in Dafni e Cloe, con una aggiunta di trasgressione e ferocia. Un ragazzo sedicenne diventa l’amante di una giovane donna fidanzata e poi sposata a un soldato che si trova al fronte. Siamo tra il 1917 e il 1918; quando la guerra finisce, la ragazza muore lasciando un figlio dalla paternità incerta. L’esito tragico c’è tutto come in Romeo e Giulietta, come in Tristano e Isotta.
Niente male. Perché in queste vicende la morte si impone come il suggello ultimo del dramma, dando a tutto il percorso precedente lo splendore degli eventi irreparabili e grandiosi. Valentina voleva rivivere attraverso il libro una storia d’amore e questo era possibile, sensato.
E la letteratura? Era solo un fastidioso ornamento, del quale si sarebbe potuto benissimo fare a meno? Ma come si fa a dire che il senso voluto dallo scrittore in una storia non ha importanza? Se mai, per Valentina, non era questo il problema. Il romanzo aveva una protagonista femminile, la diciottenne Marthe. Curiosamente il ragazzo non ha un nome. Eppure nel romanzo agisce come il narratore assoluto. Si inganna, cambia idea, tende a manipolare gli altri personaggi, senza venire mai contraddetto. Che fine fa Marthe in un tale contesto? È davvero quella figura debole che si sottomette soltanto alla volontà del narratore?
Il linguaggio maschile nel romanzo mantiene una grande forza, si parla di avventura, di conquista, mentre dall’altra parte sembra esserci solo condiscendenza. Nello svolgimento minuto dei vari episodi, si vede invece che la rappresentazione schematica – ovvia e naturale – non funziona. Si comincia dalla cameriera matta che sale sul tetto e vuole buttarsi giù. Sembra un bizzarro incidente. A ben vedere si rivela la manifestazione di un disagio che non osa esprimersi in modo netto e produce un lamento straziante: aveva una voce … inumana, gutturale, di una dolcezza che faceva venire la pelle d’oca. È la donna come altro che irrompe nel racconto. C’era in lei una profonda malinconia rassegnata che dà alla voce la certezza di avere ragione, che tutto il mondo si sbaglia.
Ecco la dimensione femminile nel romanzo, già presente nelle prime pagine. Ci sono poi i comportamenti di Marthe. Lei sembra vivere in un’atmosfera trasognata dalla quale viene strappata dalle mosse strategiche di lui, del narratore. Ma è proprio così? È Marthe che propone al narratore di andare a scegliere insieme i mobili per la casa in cui abiterà dopo il matrimonio con il suo fidanzato. Lasciando stare altri particolari, è lei che si inventa l’astuzia della vestaglia da fare indossare a lui, in tal modo lo invita a prendere l’iniziativa nel rapporto tra i corpi. È lei che finge di dormire e gli lancia le braccia intorno al collo. E lui osa scrivere: Desideravo Marthe e non lo capivo. Stessa cosa per il primo bacio: La baciai, stordito dalla mia audacia mentre in realtà era stata lei ad attirare la mia testa alla sua bocca quando mi ero avvicinato. Di fronte a episodi simili, non ha molto senso invocare la sorveglianza stilistica, il distacco. Il diavolo in corpo contiene, oltre a tutto il resto, la storia di un primo amore vissuto tra adolescenti in un tempo nel quale la donna non rappresenta più l’oggetto misterioso, segreto del desiderio maschile. Valentina aveva visto il film Diario di uno scandalo con Kate Blanchett. La professoressa matura che si innamora dell’allievo e assume l’iniziativa. Scavava anche nei suoi ricordi e ritrovava certe modalità, certe logiche del desiderio che si fa imperioso. Era in fondo questo che cercava nel libro. Una rappresentazione dell’amore giovane. Intanto diventava meno allergica alla letteratura.
Quello che restava a dopo tante giravolte era un vago sentore di nostalgia, come quello espresso da una vecchia canzone di  Françoise Hardy:

La mia gioventù se ne va
su un’aria di chitarra
Esce da me stessa
in silenzio a passi lenti
La mia gioventù se ne va
Ha rotto l’ormeggio
Ha nei suoi capelli
i fiori dei miei vent’anni
        


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