domenica 23 agosto 2020

Praga, agosto 1968




LA TESTIMONIANZA. TRA IL 21 E IL 22 AGOSTO NELLA CAPITALE DELLA CECOSLOVACCHIA CON I CARRI ARMATI SOVIETICI NELLE STRADE E LA GENTE CHE URLAVA «SVOBODA» (LIBERTÀ): L’ODISSEA DI CHI SI TROVAVA PRESENTE E FUGGÌ DAL PAESE INVASO
Quella notte del ’68 a Praga, io c’ero


La notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 uscivamo con alcuni amici dal teatro della «Lanterna Magica», a Praga. Piccoli capannelli di persone discutono animatamente, ma non pensiamo di domandare se sia successo qualcosa: erano evidentemente locali e parlavano la loro lingua. Perciò prendiamo il primo tram che ci porta verso il nostro albergo, lontano dal centro. È tardi, e la mattina successiva avremmo dovuto alzarci presto per andare al Castello di Karlstein.
Eravamo arrivati a Praga due giorni prima, dopo un lungo giro in Scandinavia, Russia e Polonia: diciassette studenti dell’Università di Roma. Tutto tranquillo in città: piena di turisti occidentali, grande eccitazione per la «primavera» iniziata diversi mesi prima grazie al nuovo segretario del Partito Comunista, lo slovacco Dubcek. In quella notte tra il 20 e il 21 agosto, verso le 5, mi sveglio e scorgo dalla finestra lunghe file di carri armati con il simbolo del Patto di Varsavia. Assonnato, non ci faccio molto caso, penso a delle manovre e torno a letto. Verso le 6 un amico del gruppo, originario di Lecce, mi scuote con violenza dicendomi di alzarmi e di scendere di corsa nella hall a parlare con il cameriere, perché posso comunicare in tedesco. Lo mando a quel paese, pensando all’imminente levataccia per la gita a Karlstein. Ma lui insiste, dice che gli sembra di aver capito che sono arrivati i russi. Scendo in pigiama, parlo col cameriere: il quale dichiara senza esitazioni che, appunto, «sono arrivati i russi». Evidentemente, avevano attraversato le frontiere di notte, già prima che noi uscissimo dal teatro, ed erano ormai arrivati nella capitale. Non erano, come poi scoprimmo, solo russi, ma di tutti i Paesi del Patto di Varsavia, ma quelli dell’Unione Sovietica erano nettamente prevalenti. Esco, con il cameriere, per strada. I carristi sporgono dalle torrette dei tanks e guardano stralunati i nomi delle vie: sono in caratteri latini, loro leggono soltanto il cirillico.
È ormai chiaro che si tratta di un’invasione. In cinque minuti, afferro qualcosa da mangiare per colazione, risalgo in camera, mi vesto, riscendo, ed esco di nuovo. Saranno le 8, a questo punto. Lo spettacolo è completamente cambiato. Le strade sono piene di cechi vocianti. Alcuni si arrampicano sui carri armati, sputano in faccia agli stupiti carristi, cercano di discutere con loro in russo. Tutti urlano «Dubcek-Svoboda!».
Svoboda è il presidente della Repubblica Cecoslovacca, ma la parola significa «libertà». È uno spettacolo travolgente, incredibile, ben diverso da quello che avevo visto ad Atene l’anno prima, quando il 21 aprile 1967 i carri armati dei Colonnelli presidiavano Piazza Syntagma per il colpo di Stato. Silenzio di tomba sotto l’Acropoli, il terrore sui visi, la paralisi. Il caos e il chiasso, invece, a Praga. A restare muti e immobili sono, incredibilmente, gli invasori. Non muovono un muscolo davanti agli insulti, non li scalfiscono gli sputi, non rispondono alle domande. Soprattutto, non tirano fuori le armi.
Il nostro gruppo decide che bisogna fuggire il prima possibile, ma non è cosa facile: siamo legati ai mezzi pubblici, e aeroporto e stazione centrale sono tra le primissime cose che gli invasori hanno bloccato. Vengo spedito con un altro all’ambasciata italiana per cercare aiuto. I tram per il centro non funzionano. Ci avviamo a piedi per una lunga camminata. Trecento metri dopo, un soldato ci ferma, punta il mitra contro la nostra pancia, e gentilmente ma fermamente dice «Niet». Provo a spiegargli, in russo a brandelli, in tedesco, in italiano, che siamo italiani (abbiamo con noi i passaporti) e che vogliamo andare all’ambasciata del nostro Paese. Niente da fare: il «niet» è sempre gentile, ma la pressione del mitra sull’ombelico si fa un po’ più forte. Torniamo in albergo con la coda tra le gambe.
Siamo in una impasse, confinati nell’hotel. Quel pomeriggio e quella sera, il 21 agosto, succedono tre cose. La prima è che a un certo punto del pomeriggio mi ritrovo in un salottino con un gruppo di tedeschi provenienti dalla Germania dell’Est, quella comunista. Sono tutte coppie sui cinquanta, sessant’anni. In quel salottino c’è un grande apparecchio radiofonico, e tutti noi stiamo ascoltando la Radio Cecoslovacchia libera, che trasmette in inglese, francese, tedesco e i cui speaker si spostano di continuo, dentro Praga, di edificio in edificio, inseguiti dai servizi segreti degli invasori. Verso le 17,30 lo speaker annuncia in tedesco che Germania (Occidentale), Romania e Jugoslavia hanno decretato la mobilitazione generale. Non è vero, ma noi non abbiamo modo di controllare: ci crediamo. «Es ist der Krieg», è la guerra, cominciano a mormorare i tedeschi nel salottino. Mi vengono i brividi, lunghi e ricorrenti. Conosco l’espressione «mobilitazione generale» solo dai libri di storia, e mi pare cosa enorme. Ritorno dai miei amici con aria depressa, portando le notizie che ho sentito alla radio.
Comincia il secondo evento di quel pomeriggio. Qualcuno suggerisce di telefonare all’ambasciata italiana e vengo incaricato di farlo. Mi dicono di avere organizzato un convoglio di auto private precedute da una dell’ambasciata per condurre i connazionali fuori dalla Cecoslovacchia, ma di non avere posto per diciassette persone. Che fare? Gli amici, e soprattutto le ragazze, mi spingono a chiamare altre ambasciate: ricordo di aver provato con tutte quelle dell’allora Comunità Europea – Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo. Provo con gli svizzeri; con gli inglesi; con gli americani. Persino con il Nunzio Apostolico, che poco mancò mi mandasse a quel paese. Alla fine, qualcuno suggerisce di interpellare l’ambasciata dell’Unione Sovietica. Ci avevano cacciato loro in questo pasticcio, che ci tirassero fuori loro! I russi sono gentilissimi e concreti: propongono di mandare un bus la mattina successiva per portarci al confine più vicino: immaginai, con la Germania. Accetto, ringrazio, e riferisco ai compagni.
Scoppia subito una accalorata discussione se ci si poteva fidare. C’è chi aveva paura di finire in Siberia, chi in qualche fossa lungo una strada. Le ragazze hanno il terrore dei cosacchi. Che, in effetti, sembrano materializzarsi immediatamente. Eravamo stati avvertiti che le truppe «alleate» giravano a controllare gli ospiti degli alberghi. Il personale dell’hotel aveva chiuso il portone. Era la sera del 21 agosto, cominciava a far scuro. Scrivo una gran cartolina indirizzata a me stesso, a Roma. Diceva: «I russi sono a Praga». All’improvviso, bussano forte al portone. Il direttore dell’albergo va ad aprire: sono tre ufficiali con tanto di mitra. Ci sorridono e dichiarano di essere polacchi. Poi, aprono i mitra ed estraggono le cartucce, ce le consegnano e dicono che così saremmo stati sicuri che non le avrebbero mai usate contro di noi. Grande sospiro di generale sollievo. Dopo un po’, gli ufficiali scompaiono nella notte e noi, esausti, andiamo a letto pensando all’autobus sovietico della mattina successiva, che sarebbe dovuto arrivare alle 9.
Alle 8, mentre siamo in trepidante attesa, compare all’improvviso Kamila, la nostra guida. Rivela di aver saputo che da una stazione periferica dovrebbe partire un treno diretto a Norimberga, in Germania. Ha inizio allora una vera e propria odissea per via tramviaria. Cambiamo non so quanti tram. Appena saliamo su uno, gli altri passeggeri ci riempiono di volantini implorandoci di portarli in Occidente, di raccontare la verità al di là della Cortina: non è stato un soccorso dei fratelli socialisti, ma un attacco vero e proprio, una invasione con tanto di repressione. Li conservo ancora. Alcuni sono diretti, in tre o quattro lingue (russo, tedesco, polacco, bulgaro) alle truppe occupanti: dicono che non sono state «invitate», che nessuno, qui, le vuole.
Quando infine arriviamo alla stazione, Kamila si precipita a raccogliere informazioni. Ritorna con una brutta faccia: quasi piangendo, ci dice che non c’è nessun treno per Norimberga, gli invasori hanno già sigillato la frontiera con la Germania occidentale. Da lì, non si passa. Però il capostazione ha fatto un paio di telefonate in sua presenza ed è venuto a sapere che forse, forse, c’è un treno da un’altra stazione periferica, dalla parte opposta della città, diretto in Austria. Riprendiamo i tram, sui quali riceviamo nuovi manifestini , e circa un’ora dopo raggiungiamo la fatidica stazione. Questa volta, il treno c’è per davvero, o meglio ci sarà fra un paio d’ore. Si uniscono cinque francesi, anch’essi intrappolati a Praga. Salutiamo e ringraziamo Kamila per tutti i suoi sforzi e saliamo sul treno, affamati ma contenti.
Una mezz’ora più tardi, mentre il treno è in marcia verso Sud, passa il controllore, al quale mostriamo il biglietto cumulativo per tutto il viaggio: lo accetta senza battere ciglio, anche se le date sono ormai sfasate. Gli domando in tedesco a che ora pensa che arriveremo a Linz, in Austria. Mi guarda sbalordito e dichiara che il treno non va affatto in Austria, ma che se vogliamo provare ad arrivare là dobbiamo cambiare a Ceske Budejovice. Con un po’ di acrobazie, ce la facciamo. Il treno sul quale saliamo è un trenino probabilmente di prima della Guerra, con compartimenti piccoli e finestrini non apribili, scomodo, rumorosissimo e a vapore. Passa anche qui il controllore, al quale domando a che ora dovremmo arrivare in Austria. Mi risponde, stupito come il suo predecessore, che il treno non va in Austria, ma si ferma all’ultima stazione prima del confine, qualcosa che termina in Droste.
Mi suggerisce di scendere e da lì telefonare agli austriaci perché mandino un treno a prenderci. Figurarsi se gli austriaci, penso io – pensiamo tutti – possono prendere in considerazione di mandare un treno a prelevare, al di là della Cortina di Ferro, sedici italiani, un somalo e cinque francesi!
Nel frattempo, un fatto nuovo interrompe le nostre meditazioni. La ferrovia corre parallela alla strada automobilistica che conduce al confine. E c’è una fila ininterrotta di carri armati che si dirigono verso Sud, evidentemente per sigillare anche quella frontiera. Non c’è modo di accelerare un po’ la nostra andatura da carrozza ottocentesca, domando al controllore quando ripassa, additandogli i tanks. Mi risponde di non preoccuparmi: basta che io convinca gli austriaci.
Finalmente, arriviamo a Dolní Dvo?išt?, e io sono pronto a scattare per andare a cercare un telefono, ma vengo fermato da un’enorme donna in uniforme che annuncia: «Ispezione doganale». Le dico che devo scendere per andare a telefonare agli austriaci che mandino un treno, eccetera. Ma quella mi blocca. Sembra sapere tutto di noi. Dice: tranquilli, vi portiamo noi in Austria. A questo punto, pensiamo di ripartire dopo poco. Invece, il treno comincia a fare strani movimenti: va avanti di qualche metro, sembra urtare contro qualcosa, arretra di una decina di metri. Intanto, si fa buio. Non c’è traccia dei «russi», forse hanno preso un’altra strada. All’improvviso, si accendono enormi riflettori e si sentono cani abbaiare furiosamente. Ci dicono che stanno dando la caccia a uno che voleva scappare a Ovest. Un’ora più tardi i riflettori si spengono, i cani tacciono – e il treno si muove lentamente, molto lentamente dentro la terra di nessuno verso l’Austria.
La mattina dopo siamo a Innsbruck, dove mangio il più grosso e più buon pezzo di strudel mai assaggiato. Al Brennero i carabinieri, dicendo che noi siamo i “dispersi” in Cecoslovacchia, ci danno Chianti e panini. Proseguo verso Roma. Un mese dopo, arriva la cartolina che avevo imbucato a Praga il 22 agosto. Ancora oggi, è in una teca nell’ingresso di casa.
Il Sole 24 ore, 23 agosto 2020

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