domenica 31 dicembre 2023

Addio monti



Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, capitolo VIII

Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.

Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. 
Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell'Adda.

Franco Brevini, La letteratura degli italiani, Feltrinelli, Milano 2010, pag. 79

... basta leggere l' Addio monti di Lucia per misurare l'abisso che si spalanca tra la pagina e la realtà, tra il compassato congedo dal villaggio natio del personaggio dei Promessi sposi e le parole effettivamente pronunciate dal suo corrispettivo nella realtà, una popolana del contado lecchese del Seicento, annaspante nelle semiocclusive dentali del suo irto dialetto. Al punto che lo stesso scrittore sente il bisogno di chiosare: "Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia".

 

giovedì 28 dicembre 2023

Souvarine l'anarchico in Zola

Stefano Cassetti interpreta il ruolo di Souvarine nella versione cinematografica di Germinal con la regia di Claude Berri (1993)


É. ZOLA, Germinale, Einaudi, Torino 1994, pp. 219-220, trad. it. C. Sbarbaro

A tutto suo agio Souvarine emise un filo di fumo; poi: – […] La loro Internazionale sta per
diventare davvero efficiente. Se ne occupa Lui.
– Lui chi?
– Lui!
– Pronunciò il monosillabo, smorzando la voce, con tono di religioso rispetto. Del mae-
stro, parlava: di Bakunin, lo sterminatore.
– Lui solo può dare il colpo di grazia, – proseguì, – mentre con la loro teoria dell’evolu-
zione, i tuoi scienziati non sono che dei codardi… Sotto la sua direzione, l’Internazionale,
prima di tre anni annienterà il vecchio mondo.
Smanioso di istruirsi, di comprendere quel culto della distruzione sul quale il russo non
lasciava cadere che qualche vaga frase quasi volesse tener per sé il segreto, Stefano pen-
deva ora dalle sue labbra.
– Ma insomma spiegami… Quale scopo vi proponete?
– La distruzione di tutto… Non più nazioni, non più governi, non più proprietà, non più
Dio, non più culto.
– Sì, capisco… Soltanto a che vi porterà questo?
– Alla comunità primitiva, informe; a un mondo nuovo, al ricominciamento di tutto.
– E i mezzi? Come contate di arrivare a questa distruzione integrale?
– Col fuoco, col veleno, col pugnale. Il brigante è il vero eroe, il vendicatore del popolo,
il rivoluzionario in atto, che non sa di frasi attinte nei libri. Occorre che una serie di spaven-
tosi attentati atterrisca i potenti e svegli il popolo.
Parlando, il viso di Souvarine diventava spaventoso; gli occhi chiari s’accendevano d’un
ardore mistico, le mani femminee si contraevano sull’orlo del tavolo quasi volessero spez-
zarlo; una specie di estasi pareva sollevarlo dalla sedia. Sconcertato, l’altro lo guardava; e
il pensiero gli andava alle rade confidenze che il russo gli aveva fatto: di mine caricate sotto
il palazzo dello zar, di capi di polizia scannati come cinghiali; d’una compagna di fede, la sola
donna che Souvarine avesse amato, impiccata a Mosca un mattino di pioggia, mentre, per-
duto nella folla, lui le inviava l’ultimo saluto.
Scartando da sé tutte quelle visioni atroci: – No, no! – Stefano protestò. – Non s’era an-
cora arrivati a questo, da noi! L’assassinio, l’incendio, no, no! È iniquo, è mostruoso. Da noi
tutti insorgerebbero e farebbero giustizia sommaria del colpevole!
E poi lui seguitava a non capire; contro l’abominevole proposito di sterminare l’umanità
alla radice, come si falcia raso terra un campo di segale, tutto in lui si ribellava. E dopo? Che
si farebbe, dopo? Da un simile salasso come risorgerebbe l’umanità?
– Spiegami meglio! Qual è il vostro programma? Per metterci in cammino noi francesi
abbiamo bisogno di conoscere la meta.
L’altro, senza uscire dalla sua trasognata impassibilità: – Tutti i ragionamenti sono cri-
minali, perché impediscono la distruzione pura e semplice e ostacolano la marcia della ri-
voluzione.

Il testo originale (1885)

 Souvarine, après avoir soufflé lentement un jet
de fumée, répondit par son mot favori :
– Oui, des bêtises ! mais, en attendant, c’est
toujours ça... D’ailleurs, leur Internationale va
marcher bientôt. Il s’en occupe.
– Qui donc ?
– Lui !
Il avait prononcé ce mot à demi-voix, d’un air
de ferveur religieuse, en jetant un regard vers
l’Orient. C’était du maître qu’il parlait, de
Bakounine l’exterminateur.
– Lui seul peut donner le coup de massue,
continua-t-il, tandis que tes savants sont des
lâches, avec leur évolution... Avant trois ans,
l’Internationale, sous ses ordres, doit écraser le
vieux monde.
Étienne tendait les oreilles, très attentif. Il
brûlait de s’instruire, de comprendre ce culte de
la destruction, sur lequel le machineur ne lâchait
que de rares paroles obscures, comme s’il eût
gardé pour lui les mystères.
– Mais enfin explique-moi... Quel est votre
but ?
– Tout détruire... Plus de nations, plus de
gouvernements, plus de propriété, plus de Dieu ni
de culte.
– J’entends bien. Seulement, à quoi ça vous
mène-t-il ?
– À la commune primitive et sans forme, à un
monde nouveau, au recommencement de tout.
– Et les moyens d’exécution ? comment
comptez-vous vous y prendre ?
– Par le feu, par le poison, par le poignard. Le
brigand est le vrai héros, le vengeur populaire, le
révolutionnaire en action, sans phrases puisées
dans les livres. Il faut qu’une série d’effroyables
attentats épouvantent les puissants et réveillent le
peuple.
En parlant, Souvarine devenait terrible. Une
extase le soulevait sur sa chaise, une flamme
mystique sortait de ses yeux pâles, et ses mains
délicates étreignaient le bord de la table, à la
briser. Saisi de peur, l’autre le regardait, songeait
aux histoires dont il avait reçu la vague
confidence, des mines chargées sous les palais du
tzar, des chefs de la police abattus à coups de
couteau ainsi que des sangliers, une maîtresse à
lui, la seule femme qu’il eût aimée, pendue à
Moscou, un matin de pluie, pendant que, dans la
foule, il la baisait des yeux une dernière fois.
– Non ! non ! murmura Étienne, avec un grand
geste qui écartait ces abominables visions, nous
n’en sommes pas encore là, chez nous.
L’assassinat, l’incendie, jamais ! C’est
monstrueux, c’est injuste, tous les camarades se
lèveraient pour étrangler le coupable !
Et puis, il ne comprenait toujours pas, sa race
se refusait au rêve sombre de cette extermination
du monde, fauché comme un champ de seigle, à
ras de terre. Ensuite, que ferait-on, comment
repousseraient les peuples ? Il exigeait une
réponse.
– Dis-moi ton programme. Nous voulons
savoir où nous allons, nous autres.
Alors, Souvarine conclut paisiblement, avec
son regard noyé et perdu :
– Tous les raisonnements sur l’avenir sont
criminels, parce qu’ils empêchent la destruction
pure et entravent la marche de la révolution.

 

 

martedì 26 dicembre 2023

Nell

 

In Victor Hugo la piccola Cosette (Les Misérables, 1862) ha qualcosa di ripugnante, è ossuta, mal vestita, piena di lividi, ha otto anni e sembra averne sei: "Tutta la persona di questa fanciulla, il suo incedere, il suo atteggiamento. il suono della sua voce, i suoi intervalli tra una parola e l'altra, il suo sguardo, il suo silenzio, ogni suo minimo gesto, esprimevano e traducevano una sola idea: la paura". Tutt'altra cosa questa Nell (abbreviazione di Helen, precisa Verne in nota), figura non meno romantica e tuttavia portatrice di una qualche estraneità al mondo ordinario delle cose e delle persone: un essere singolare, bizzarro e affascinante, un folletto di aspetto un po' soprannaturale, nientemeno.  


Jules Verne, Les Indes noires, 1877

 

Nell au cottage

Deux heures après, Harry, qui n’avait pas
aussitôt recouvré ses sens, et l’enfant, dont la
faiblesse était extrême, arrivaient au cottage avec
l’aide de Jack Ryan et de ses compagnons.
Là, le récit de ces événements fut fait au vieil
overman, et Madge prodigua ses soins à la pauvre
créature, que son fils venait de sauver.
Harry avait cru retirer un enfant de l’abîme...
C’était une jeune fille de quinze à seize ans, au
plus. Son regard vague et plein d’étonnement, sa
figure maigre, allongée par la souffrance, son
teint de blonde que la lumière ne semblait avoir
jamais baigné, sa taille frêle et petite, tout en
faisait un être à la fois bizarre et charmant. Jack
Ryan, avec quelque raison, la compara à un
farfadet d’aspect un peu surnaturel. Était-ce dû
aux circonstances particulières, au milieu
exceptionnel dans lequel cette jeune fille avait
peut-être vécu jusqu’alors, mais elle paraissait
n’appartenir qu’à demi à l’humanité. Sa
physionomie était étrange. Ses yeux, que l’éclat
des lampes du cottage semblait fatiguer,
regardaient confusément, comme si tout eût été
nouveau pour eux.
À cet être singulier, alors déposé sur le lit de
Madge et qui revint à la vie comme s’il sortait
d’un long sommeil, la vieille Écossaise adressa
d’abord la parole :
« Comment te nommes-tu ? lui demanda-t-
elle.
– Nell, répondit la jeune fille.
– Nell, reprit Madge, souffres-tu ?
– J’ai faim, répondit Nell. Je n’ai pas mangé
depuis... depuis... »


Traduzione di Giansiro Ferrata e Mario Spagnol, Oscar Mondadori, Milano 1971

Due ore dopo, Harry, che non aveva ripreso subito i sensi, e la piccola, che era in uno stato di estrema debolezza, arrivavano al cottage con l'aiuto di Jack Ryan e dei suoi compagni.
Là, ci si affrettò a fare il rescoconto degli ultimi avvenimenti al vecchio overman, mentre Madge si occupava della povera creatura che suo figlio aveva salvata.
Harry aveva creduto di portare con sé, dal fondo dell'abisso, una bambina. Era, in realtà, una giovinetta di quindici o sedici anni al più. Lo sguardo vago e pieno di stupore, il viso magro, allungato dai patimenti, la carnagione di bionda che la luce del giorno sembrava non aver mai sfiorato, la figurina minuta e fragile, tutto ne faceva un essere insieme bizzarro e incantevole. Jack Ryan la paragonò, non completamente a torto, a un folletto. Lo si dovesse o meno alle circostanze, certo è che la piccola non sembrava appartenere per intiero all'umanità. Aveva una ben strana espressione. Gli occhi, che sebravano affaticati dalla luce delle lampade, guardavano in modo vago come se tutto riuscisse loro nuovo.
A quell'essere bizzarro, che sul letto di Madge tornava alla vita come se uscisse da un lungo sonno, la vecchia scozzese fu la prima a rivolgere la parola:
"Come ti chiami?" domandò.
"Nell."
"Nell, riprese Madge, senti qualche male?"
"Ho fame", rispose Nell, "non mangio da... da..."


lunedì 27 novembre 2023

La gran bonaccia delle Antille

 


Italo Calvino, La gran bonaccia delle Antille, Città aperta, n. 4-5, 25 luglio 1957
 
Dovevate sentire mio zio Donald, che aveva navigato con l’ammiraglio Drake, quando attaccava a narrare una delle sue avventure.
– Zio Donald, zio Donald! – gli gridavamo nelle orecchie, quando vedevamo il guizzo di uno sguardo affacciarsi tra le sue palpebre perennemente socchiuse, – raccontateci come andò quella volta della gran bonaccia dellAntille!
– Eh? Ah, bonaccia, sì, sì, la gran bonaccia… – cominciava lui, con voce fioca. – Eravamo al largo delle Antille, procedevamo a passo di lumaca, sul mare liscio come l’olio con tutte le vele spiegate per acchiappare qualche raro filo di vento. Ed ecco che ci troviamo a tiro di cannone da un galeone spagnolo. Il galeona sta va fermo, noi ci fermiamo pure, e lì, in mezzo alla gran bonaccia, prendiamo a fronteggiarci. Non potevamo passare noi, non potevano passare loro. Ma loro, a dire il vero, non avevano nessuna intenzione di andare avanti: erano lì apposta per non lasciar passare noi. Noialtri invece, flotta di Drake, avevamo fatto tanta strada non per altro che per non dar tregua alla flotta spagnola e togliere da quelle mani di papisti il tesoro della Grande Armada e consegnarlo in quelle di Sua Graziosa Maestà Britannica la Regina Elisabetta. Però ora, di fronte ai cannoni di quel galeone, con le nostre poche colubrine non potevamo reggere e così ci guardavamo bene dal far partire un colpo. Eh, sì, ragazzi, tali erano i rapporti di forza, voi capite. Quei dannati del galeone avevanoprovviste d’acqua, frutta delle Antille, rifornimenti facili dai loro porti, potevano stare lì quanto volevano: anche loro però si trattenevano dallo sparare, perché per gli ammiragli di Sua Maestà Cattolica quella guerricciuola con gli Inglesi così come stava andando era proprio quel che ci voleva, e se le cose si mettevano diversamente, per una battaglia navale vinta o persa, tutto l’equilibrio andava all’aria, certo ci sarebbero stati dei cambiamenti, e loro di cambiamenti non ne volevano. Così passavano i giorni, la bonaccia continuava, noi continuavamo a star di qua e loro di là, immobili a largo delle Antille…
– E come andò a finire? Diteci, zio Donald! – facemmo noi, vedendo che il vecchio lupo di mare già piegava il mento sul petto e riprendeva a sonnecchiare.
“Ah? Sì, sì, la gran bonaccia! Settimane durò. Li vedevamo coi cannocchiali, quei rammolliti di papisti, quei marinai da burla, sotto gli ombrellini con le frange, il fazzoletto tra il cranio e la parrucca per detergere il sudore, che mangiavano gelati di ananasso. E noi che eravamo i più valenti marinai di tutti gli oceani, noi che avevamo per destino di conquistare alla Cristianità tutte le terre che vivevano nell’errore, noi ce ne dovevamo star lì con le mani in mano, pescando alla lenza dalle murate, masticando tabacco. Da mesi eravamo in rotta sull’Atlantico, le nostre scorte erano ridotte all’estremo e avariate, ogni giorno lo scorbuto si portava via qualcuno, che piombava in mare in un sacco mentre il nostromo borbottava in fretta due versetti della Bibbia. Di là, sul galeone, i nemici spiavano col cannocchiale ogni sacco che sprofondava in mare, e facevano segni con le dita come affaccendati a contare le nostre perdite. Noi inveivamo contro di loro: ce ne voleva prima di darci tutti morti, noialtri che eravamo passati attraverso tanti uragani, altro che quella bonaccia delle Antille…
– Ma una via d’ uscita come la trovaste, zio Donald?”
– Cosa dite? Via d’ uscita? Mah, ce lo domandavamo di continuo per tutti quei mesi che durò la bonaccia… Molti dei nostri, specie tra i più vecchie i più tatuati, dicevano che noi eravamo sempre stati una nave da corsa, buona per azioni rapide, e ricordavano i tempi in cui le nostre colubrine sguarnivano delle alberature le più potenti navi spagnole, aprivano falle nelle murate, giostravano con brusche virate… Ma sì, nella marineria di corsa, certo eravamo stati bravi, ma allora c’era il vento, si andava svelto… Adesso, in quella gran bonaccia, questi discorsi di sparatorie e d’abbordaggi erano solo un modo di trastullarci aspettando chissacché; una levata di libeccio, un fortunale, addirittura un tifone… Perciò gli ordini erano che non dovessimo neanche pensarci, e il capitano ci aveva spiegato che la vera battaglia navale era quello star lì fermi guardandoci, tenendoci pronti, ristudiando i piani delle grandi battaglie navali di Sua Maestà Britannica e il regolamento del maneggio delle vele e il manuale del perfetto timoniere, e le istruzioni per l’uso delle colubrine, perché le regole della flotta dell’ammiragio Drake restavano in tutto e per tutto le regole della flotta dell’ammiragio Drake: se si cominciava a cambiarenon si sapeva dove…
– E poi, zio Donald? Ehi zio Donald! Come riusciste a muovervi?
– Uhm… Uhm… Cosa vi dicevo? Ah sì, guai se non si teneva la più rigida disciplina e obbedienza alle regole nautiche. Su altre navi della flotta di Drake c’erano stati cambiamenti ufficiali e anche ammutinamenti, sommosse: si voleva ormai un altro modo di andar per i mari, c’erano semplici uomini della ciurma, marinai di quarto e pure mozziche ormai s’erano fatti esperti e avevano da dir la loro sulla navigazione… Questo i più degli ufficiali e quartiermastri ritenevano il pericolo più grave, perciò guai se sentivano in aria discorsi di chi voleva ristudiare da capo il regolamento navale di Sua Maestà Elisabetta. Niente, dovevamo continuare a ripulire le spingarde, lavare il ponte, assicurarci del funzionamento delle vele, che pendevano flosce nell’aria senza vento, e nelle ore libere delle lunghe giornate lo svago ritenuto più sano erano i soliti tatuaggi sul petto e sulle braccia, che inneggiavano alla nostra flotta dominatrice dei mari. E nei discorsi si finiva per chiudere un occhio su quelli che non riponevano altra speranza che in un aiuto del cielo, come un uragano che magari ci avrebbe mandato a picco tutti, amici e nemici, piuttosto che quelli che volevano trovare un modo per muovere la nave nella condizione presente… Capitò che un gabbiere, certo Slim John, non so se il sole in testa gli avesse fatto male o che cos’altro, cominciò a trastullarsi con unacaffettiera. Se il vapore solleva il coperchio della caffettiera, – diceva questo Slim John, – allora anche la nostra nave, se fosse fatta come una caffettiera potrebbe andare senza vele… Era un discorso un po’ sconnesso, bisogna dire, ma forse, studiandoci ancora sopra, se ne poteva cavare qualche costrutto. Macché: gli buttarono in mare la caffettiera e poco mancò che ci buttassero anche lui. Queste storie di caffettiere, presero a dire, erano poco meno che idee da papisti… è in Spagna che si costuma il caffè ele caffettiere, non danoi… Mah, io non ne capivo nulla, ma purché si muovessero, con quello scorbuto che continuava a falciar gente…
– E allora, zio Donald, – esclamammo noi, gli occhi lucidi d’impazienza, prendendolo per i polsi e scuotendolo, – sappiamo che vi salvaste, che sgominaste il galeone spagnolo, ma spiegateci come avvenne, zio Donald!
-Ah sì, anche là nel galeone, mica che fossero tutti della stessa idea, manco per sogno! Lo si vedeva, osservandoli col cannocchiale,anche lì c’erano quelli che volevano muoversi, gli uni contro di noi a cannonate, altri che avevano capito che non c’era altra via che affiancarsi a noi, perché il prevalere della flotta d’Elisabetta avrebbe fatto rifiorire i traffici da tempo languenti… Ma anche lì, gli ufficiali dell’ammiragliato spagnolo non volevano che si muovesse nulla, per carità! Su quel punto i capi della nostra nave e quelli della nave nemica, pur odiandosi a morte, andavano proprio d’accordo.
Cosicché, la bonaccia non accennando a finire, si prese a lanciare dei messaggi, con le bandierine da una nave all’ altra come si volesse aprire un dialogo. Ma non si andava più in là d’un Buon giorno! Buona sera! Neh, che fa bel tempo! e così via.
– Zio Donald! Zio Donald! Non riaddormentatevi, per carità! Diteci, come riuscì a muoversi la nave di Drake!
– Ehi, ehi, non sono mica sordo! Capitemi, fu una bonaccia che nessuno s’aspettava durasse tanto, addirittura per degli anni, là al largo delle Antille, e con un’afa, un cielo pesante, basso, che pareva fosse lì lì per scoppiare in un uragano. Noi stillavamo sudore, tutti nudi, arrampicati su per le sartie, cercando un po’ d’ombra sotto le vele avvoltolate. Tutto era così immobile, che anche quelli di noi che erano più impazienti di cambiamenti e di novità, stavano immobili anche loro, uno in cima all’albero di parrocchetto, un altro sulla randa di maestra, un altro ancora cavalcioni del pennone, appollaiati lassù a sfogliare atlanti o carte nautiche…
– E allora, zio Donald! – ci buttammo in ginocchio ai suoi piedi, lo supplicavamo a mani giunte, lo scuotevamo per le spalle, urlando.
– Diteci come andò a finire, in nome del cielo! Non possiamo più aspettare! Continuate il vostro racconto, zio Donald!
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La risposta commissionata da Togliatti aveva per titolo La grande caccia delle Antille e fu pubblicata su Rinascita (settembre 1957). L’autore Maurizio Ferrara si nascondeva dietro lo pseudonimo di Little Bald [piccolo calvo].  Un Vecchio con gli occhiali, salito sul cassero di una nave, riusciva a impedire che il Capo-stivatore bombardasse le case di alcuni ricchi mentre una folla festeggiava l’ equipaggio per aver sconfitto un odioso pirata: «Fratelli, levatevi dalla testa idee sinistre. Noi siamo quelli della “Speranza”, ramponieri e cacciatori, non pirati. La gente buona spera in noi. Davanti a noi non vi sono case da assediare, ma pascoli acquatici ove soffia ancora libera la Balena Bianca… Riponete archibugi e spingarde, impugnate il rampone, la Grande caccia è aperta». Il Vecchio intento a trasformare i marinai in pescatori della Balena avversaria difficile da prendere era Togliatti, il Capo-stivatore Pietro Secchia, il pirata sconfitto Mussolini.

 

venerdì 24 novembre 2023

Il toro rosso

 

 



Italo Calvino, Il toro rosso, l'Unità edizione piemontese 23 marzo 1947

Pochi buoi, dalle nostre parti. Non ci son prati da pascolare, né campi grandi da essere arati: ci
son solo sterpi da brucare e brevi strisce di una terra che non si rompe se non si zappa. Poi
stonerebbero, i buoi e le mucche, larghi e placidi come sono, in queste valli strette e dirupate; qui ci
vogliono bestie magre, tutte tendini, che camminino su per i sassi: muli e capre.
Il bue degli Scarassa era l’unico della vallata, e non stonava, era più forte e docile di un mulo, un
piccolo bue tozzo, tarchiato, da carico; Morettobello, si chiamava. I due Scarassa, padre e figlio, si
guadagnavano la vita col bue, facendo viaggi per i vari proprietari della vallata, portando i sacchi di
frumento al mulino, o le foglie di palma agli spedizionieri, o i sacchi di concime dal consorzio.
Quel giorno Morettobello dondolava sotto il carico bilanciato alle due parti del basto: legna
d’ulivo spaccata da vendere a un cliente in città. Dall’anello infilzato nelle narici nere e molli la
corda lenta da toccar terra finiva nelle mani ciondolanti di Nanin, figlio di Battistin Scarassa,
allampanato e macilento come il padre. Erano una strana coppia: il bue con le gambe corte, la
pancia bassa e larga, come un rospo, faceva passi prudenti, sotto il carico; lo Scarassa, con la faccia
lunga e ispida di peli rossi, i polsi scoperti dalle maniche troppo corte, buttava avanti i passi che
sembrava avesse due ginocchi in ogni gamba, sotto i pantaloni che quando tirava vento s’agitavano
come vele, come se non ci fosse dentro nessuno.
C’era la primavera, quel mattino; cioè c’era nell’aria quel senso improvviso di scoperta che si
prova tutti gli anni, un mattino, quel ricordarsi una cosa come dimenticata da mesi. Morettobello, di
solito così tranquillo, era inquieto. Già Nanin, al mattino, cercandolo nella stalla non l’aveva
trovato; era in mezzo al campo che girava intorno gli occhi sperduti. Ora, andando, Morettobello si
fermava ogni tanto, alzava le narici infilzate dall’anello, annusava l’aria con un breve muggito.
Nanin dava uno strappo alla corda e una voce gutturale di quel linguaggio che s’usa tra gli uomini e
i buoi.
Morettobello sembrava ogni tanto preso da un pensiero: aveva fatto un sogno, quella notte,
perciò era uscito dalla stalla e quel mattino si trovava sperduto nel mondo. Aveva sognato cose
dimenticate, come d’un’altra vita: grandi pianure erbose e vacche, vacche, vacche a perdita
d’occhio che avanzavano muggendo. E aveva visto anche se stesso, là in mezzo, a correre nella
torma delle vacche come cercando. Ma c’era qualcosa che lo tratteneva, una tenaglia rossa
conficcata nelle sue carni, che gl’impediva di traversare quella torma. Al mattino, andando,
Morettobello sentiva la ferita rossa della tenaglia ancora viva su di sé, come una disperazione
ineffabile nell’aria.
Per le strade non si vedevano che bambini vestiti di bianco con al braccio la fascia frangiata
d’oro, e bambine vestite da sposa: era il giorno della cresima. Al vederli qualcosa si oscurò in fondo
all’animo di Nanin, come un’antica, furiosa paura. Era forse perché suo figlio e sua figlia non
avrebbero mai avuto quegli abiti bianchi per la cresima? Certo, dovevano costare molto. Allora gli
prese una rabbia, una smania, di far fare la cresima ai suoi figlioli: vedeva già il maschietto con
l’abito bianco alla marinara e la fascia al braccio con la frangia d’oro, la femmina col velo e lo
strascico nella chiesa tutta ombre e luccichio; e i paramenti del prete e della chiesa, i pizzi, i fiocchi, i candelieri s'agitavano nella sua mente come una smania strana, che non si poteva esaurire.
Il bue sbuffò: ricordava il sogno, vedeva la mandria di vacche galoppanti, come in una zona fuori
della sua memoria, e lui che proseguiva in mezzo a loro sempre più a fatica. A un tratto in mezzo
alla torma delle vacche, su una piccola altura, rosso come il dolore della ferita, era apparso il grande
toro, dalle corna come falci che toccavano il cielo, che si gettava contro di lui muggendo.
I bambini della cresima, sul piazzale della chiesa, presero a correre intorno al bue. - Un bue! Un
bue! - gridavano. Era una vista insolita un bue, da quelle parti. I più coraggiosi si azzardavano fino
a toccargli la pancia, i più esperti gli guardavano sotto la coda: - É castrato! Guardatelo! É castrato!
- Nanin si mise a urlare, a dar manate in aria per mandarli via. Allora i bambini vedendolo così
allampanato, macilento e rattoppato, cominciarono a fargli il verso e a canzonarlo col suo
soprannome: "Scarassa! Scarassa!" che vuol dire palo da vigna.
Nanin sentiva quella antica paura farglisi più viva, più angosciosa. Vedeva altri ragazzi vestiti da
cresima che lo canzonavano, che canzonavano non lui ma suo padre, macilento, allampanato e
rattoppato come lui, il giorno che l’aveva accompagnato a cresimarsi. E risentì viva come allora
quella vergogna che aveva provato per suo padre, al vedere i ragazzi che gli saltavano intorno e gli
buttavano addosso i petali di rosa calpestati dalla processione, chiamandolo: Scarassa. Quella
vergogna l’aveva accompagnato per tutta la vita, l’aveva riempito di paura a ogni sguardo, a ogni
riso. Ed era tutto colpa di suo padre; cosa aveva ereditato da suo padre più che miseria, stupidità,
goffaggine della persona allampanata? Egli odiava suo padre, ora lo comprendeva, per quella
vergogna fattagli provare da ragazzo, per tutta la vergogna, la miseria della sua vita. E gli venne
paura in quel momento che i suoi figli si sarebbero vergognati di lui come lui del padre, che un
giorno l’avrebbero guardato con l’odio che era in quel momento nei suoi occhi. Decise: «Mi
comprerò anch’io un vestito nuovo, per il giorno della loro cresima, un vestito a quadretti, di
flanella. E un berretto di tela bianca. E una cravatta di colore. E anche mia moglie dovrà comprarsi
un vestito nuovo, di stoffa, grande che le stia anche quando è incinta. E andremo tutti insieme ben
vestiti nella piazza della chiesa. E compreremo il gelato al carretto del gelataio». Ma gli restava una
smania che non sapeva come esaurire.
Arrivato a casa, portò il bue nella stalla e gli tolse il basto. Poi andò a mangiare; la moglie e i
bambini e il vecchio Battistin erano già a tavola che trangugiavano una minestra di fave. Il vecchio
Scarassa, Battistin, pescava le fave con le dita e le succhiava buttando via la pellicola. Nanin non
stava attento ai loro discorsi. "Bisogna che i bambini facciano la cresima", - disse. La moglie alzò verso di lui la faccia smunta e spettinata.
"E i soldi per vestirli?" chiese.
"Dovranno avere dei bei vestiti", continuò Nanin senza guardarla. - Il maschio alla marinara, bianco, con la frangia d’oro al braccio, la femmina da sposa, con lo strascico e il velo.
Il vecchio e la moglie lo guardavano a bocca aperta.
"E i soldi?" ripeterono
"E io mi comprerò un vestito di flanella a quadretti, - continuò Nanin, - e tu un vestito di stoffa,
grande che ti stia anche quando sei incinta".
Alla moglie venne una idea: - Ah! Hai trovato da vendere la terra del Gozzo. La terra del Gozzo era un campo ereditato, tutto pietre e cespugli, che li faceva pagar tasse senza render niente. A Nanin seccava che credessero questo: stava dicendo delle cose assurde, ma c’insisteva, con rabbia.
"No, non ho trovato nessuno. Ma noi dobbiamo avere tutto questo", s’intestò, senza levare gli
occhi dal piatto. Invece gli altri erano già pieni di speranze: se aveva trovato da vendere la terra del
Gozzo, tutte le cose che aveva detto erano possibili.
"Coi soldi della terra, - disse il vecchio Battistin, - mi posso far fare l’operazione dell’ernia".
Nanin sentiva d’odiarlo. "Ci creperai, con la tua ernia!" gridò.
Gli altri stavano attenti se impazziva.
Intanto, nella stalla, il bue Morettobello s’era slegato, aveva abbattuto la porta, era uscito nel
campo. A un tratto entrò nella stanza, si fermò, e lanciò un muggito, lungo, lamentoso, disperato.
Nanin s’alzò imprecando e lo ricacciò nella stalla a bastonate.
Rientrò: tutti tacevano, anche i bambini. Poi il maschio gli chiese: "Papà, quando me lo compri il
vestito alla marinara?"
Nanin alzò gli occhi su di lui, gli occhi uguali a quelli di suo padre Battistin.
- Mai! - urlò.
Sbatté la porta e andò a dormire.


mercoledì 22 novembre 2023

Il padrone delle mine


Un contrabbandiere chiamato grimpante fa strage di pesci sparando a una mina recuperata da Baci Degli Scogli. Sembra una fiaba. E invece i particolari della storia sono tutti molto realistici. A cominciare dalla descrizione dei poveri affamati, ancora dei marginali. 

Italo Calvino, Il padrone delle mine, l'Unità edizione piemontese 23 novembre 1948
 

 Alla villa del finanziere Pompilio gli invitati prendevano il caffè sulla veranda. C’era il generale
Amalasunta che spiegava la terza guerra mondiale con le tazzine e i cucchiaini, e la signora
Pompilio diceva - Spaventoso! - sorridendo, da quella donna di sangue freddo che era.
Solo la signora Amalasunta faceva un po’ la costernata e poteva permetterselo dato che suo
marito era tanto coraggioso da volere subito la guerra totale su quattro fronti. "Speriamo che non
duri tanto..." lei diceva. Ma il giornalista Strabonio era scettico: "Eh, eh, tutto previsto, - diceva. - Ricorda, eccellenza, quel mio articolo, già l’anno passato..."
- Eh, eh, - annuiva Pompilio che se ne ricordava perché quell’articolo Strabonio l’aveva scritto
dopo un colloquio con lui.
- Con questo non si deve escludere... - disse l’onorevole Uccellini che non era riuscito a
dimostrare chiaramente la missione pacificatrice del Papato prima, durante e dopo l’immancabile
conflitto. - Ma sì, ma sì, onorevole... - fecero gli altri con tono conciliante. La moglie dell’onorevole era
l’amante di Pompilio e non gli si potevano dare tanti dispiaceri.
Il mare si vedeva negli intervalli della tenda a righe, strofinarsi contro la spiaggia come un
tranquillo gatto inconsapevole, arcuandosi alle passate della brezza.
Entrò un cameriere e chiese se volevano dei frutti di mare. Era venuto un vecchio, disse, con una
cesta di ricci e di patelle. La discussione dal pericolo di guerra passò al pericolo di tifo, il generale
citò gli episodi africani, Strabonio citò degli episodi letterari, l’onorevole dava ragione a tutti.
Pompilio, che se ne intendeva, disse che facessero venire lì il vecchio con la roba e avrebbe scelto
lui.
Il vecchio si chiamava Bacì Degli Scogli; fece delle storie con il cameriere perché non voleva che
toccasse le ceste. Le ceste erano due, mezzo sfasciate e ammuffite: una la reggeva contro un fianco
e appena entrato la lasciò cadere a terra; l’altra, ch’egli teneva su una spalla, stando tutto contorto,
doveva essere pesantissima ed egli la posò a terra con molta attenzione. Era chiusa da un pezzo di
sacco legato intorno.
La testa di Bacì era coperta da una lanugine bianca, senza differenza di capelli e barba. La poca
pelle nuda era rossa come se da anni il sole non riuscisse ad abbronzarla ma solo a bollirla e
scorticarla; e gli occhi erano sanguigni come se fin la cispa gli si fosse trasformata in sale. Aveva un
corpo basso, da ragazzo, con membra nodose che sporgevano dagli strappi del vestito vetusto,
indossato sulla pelle, senza neanche camicia. Le scarpe doveva averle pescate in mare, tanto
sformate, spaiate, incartapecorite erano. E da tutta la sua persona s’alzava un forte odore d’alghe
marce. Le signore dissero: - Che caratteristico.
Bacì Degli Scogli, scoperta la cesta leggera, andava mostrando i ricci ammucchiati in un
digrignare d’aculei neri e lucidi. Con quelle sue mani vizze, tutte punti neri di spine conficcate,
maneggiava i ricci come fossero conigli da prender per le orecchie, e li rivoltava e mostrava la
polpa rossa e molle. Sotto i ricci c’era un ripiano di sacco e sotto ancora le patelle, coi piatti corpi
zonati giallo-bruni sotto i gusci barbuti e lichenosi.
Pompilio esaminava ed annusava: "Non sboccano mica delle fogne, dalle vostre parti, no?" Bacì sorrise nella sua lanugine: "Eh, no, io sto sulla punta, le fogne le avete voi qui, dove fate i bagni..."
Gli invitati cambiarono discorso. Comprarono dei ricci, delle patelle e incaricarono Bacì di
fornirne loro ancora nei giorni venturi. Anzi, gli diedero ciascuno il proprio biglietto da visita, in
modo ch’egli potesse fare il giro delle loro ville.
- E che ci avete in quell’altra cesta? - chiesero.
- Eh, - il vecchio ammiccò, - una bestia grossa. Una bestia che non vendo.
- Che ve ne fate allora? La mangiate?
- Mangiarla! É una bestia di ferro... Bisogna che trovi il suo padrone, per ridargliela. Che se la
sbrighi un po’ lui, dico bene?
Gli altri non capivano.
- Sapete, - lui spiegò, - la roba che il mare porta a riva, io la divido. Da una parte le latte,
dall’altra le scarpe, le ossa da un’altra ancora. Ed ecco che mi arriva quest’accidente. Dove lo
metto? Lo vedo al largo che viene avanti, mezzo sott’acqua e mezzo sopra, verde d’alghe e
rugginoso. Perché li mettono in mare questi accidenti, io non capisco. Vi piacerebbe, trovarli sotto il
letto? o in un armadio? Io l’ho preso e adesso cerco chi è che ce li mette e gli dico: tienilo un po’ tu,
fa’ il favore!
E così dicendo aveva avvicinato con cautela la cesta, aveva slegato il coperchio di sacco e aveva
scoperto un grosso, mostruoso, ferreo oggetto. Le signore dapprima non capirono, ma diedero in un
grido quando il generale Amalasunta esclamò: - Una mina! - La signora Pompilio andò in deliquio.
Ci fu una gran confusione, chi si affannava a far vento alla signora, chi assicurava: - Certo è
inoffensiva, da tanti anni così, alla deriva... - chi diceva: - Bisogna portarla via, bisogna arrestare
quel vecchio -. Ma il vecchio intanto era sparito, con la terribile cesta.
Il padrone di casa chiamò la servitù: - L’avete visto? Dov’è andato? - Nessuno poteva assicurare
fosse uscito. - Cercate per tutta la casa: aprite gli armadi, i comodini, vuotate la cantina!
- Si salvi chi può, - gridò Amalasunta improvvisamente impallidito. - Questa casa è in pericolo,
via tutti!
- Perché proprio la mia? - protestò Pompilio. - E la sua, generale, pensi alla sua!
- Bisognerà che vada a sorvegliare casa mia... - disse Strabonio che s’era ricordato di certi suoi
articoli di una volta e di adesso.
- Pietro! - gridava la signora Pomponio, rinvenuta, gettandosi al collo del marito.
- Pierino! - gridava la signora Uccellini, gettandosi anch’essa al collo di Pompilio e scontrandosi
con la legittima consorte.
- Luisa! - osservò l’onorevole Uccellini. - Andiamo a casa!
- Non crederà mica che casa sua sia più sicura? - gli dissero. – Con la politica che fa il suo
partito, lei è più in pericolo di noi!
Uccellini ebbe un lampo di genio: - Chiamiamo la polizia!
La polizia si scatenò per la cittadina rivierasca, alla ricerca del vecchio con la mina. Le ville del
finanziere Pompilio, del generale Amalasunta, del giornalista Strabonio e dell’onorevole Uccellini
ed altre ancora furono piantonate da picchetti armati, e reparti di sminatori del Genio le
ispezionarono dalla cantina alle soffitte. I commensali di villa Pompilio si disposero a bivaccare
all’aperto quella notte.
Intanto un contrabbandiere chiamato Grimpante, che grazie alle sue amicizie riusciva sempre a
sapere tutto, s’era messo per conto suo sulle piste di Bacì Degli Scogli. Grimpante era un
omaccione con un berrettino marinaro di tela bianca; gli affari loschi che si svolgevano sul mare e
sulla riva passavano tutti per le sue mani. Fu facile a Grimpante, fatto il giro di qualche osteria del
quartiere delle Case Vecchie, d’imbattersi in Bacì che usciva brillo con la misteriosa cesta in spalla.
Lo invitò a bere all’Osteria dell’Orecchia Mozzata, e versando da bere cominciò a spiegargli la
sua idea.
- É inutile che restituisci la mina al proprietario, - diceva, - tanto lui appena può la rimette dove
l’hai trovata. Invece, se dài retta a me, ci prendiamo tanti di quei pesci da invadere i mercati di tutta
la riviera e farci milionari in pochi giorni.
Bisogna sapere che un monello chiamato Zefferino, solito a ficcare il naso dappertutto, aveva
seguito i due nell’Osteria dell’Orecchia Mozzata e s’era nascosto sotto il tavolo. E capito a volo
quel che intendeva Grimpante scappò via e corse a passar la voce tra i poveri delle Case Vecchie.
- Ehi, volete farvi il fritto, oggi?
Dalle finestre strette e sbilenche s’affacciavano donne magre e spettinate con bambini al petto,
vecchi con il cornetto acustico, comari che pelavano radicchi, giovani disoccupati che si facevano la
barba.
- E come? E come?
- Zitti zitti, venite con me, - disse Zefferino.
Grimpante che aveva fatto un salto a casa sua, tornò con una custodia da violino e s’incamminò
col vecchio Bacì. Presero la strada che fiancheggiava il mare. Dietro, in punta di piedi, venivano i
poveri delle Case Vecchie. Le donne ancora in grembiale, con le padelle a spall’arm, i vecchi
paralitici nelle carrozzelle, i mutilati con le stampelle, e una torma di ragazzini tutt’intorno al
branco.
Giunti sugli scogli della punta, la mina fu abbandonata in mare, a una corrente che la portava
verso il largo. Grimpante aveva tirato fuori dalla custodia di violino uno di quegli arnesi
ammazzacristiani che sparano a raffica e l’aveva piazzato dietro un riparo di scogli. Quando la mina
gli fu a tiro cominciò a sparacchiare: i colpi sull’acqua segnavano una scia di piccoli zampilli. I
poveri, ventre a terra sullo stradone litoraneo, si turarono gli orecchi.
Tutt’a un tratto una grande colonna d’acqua s’alzò nel mare dal punto dove prima era la mina. Il
fragore fu enorme: i vetri delle ville andarono in frantumi. L’ondata arrivò fin allo stradone. Appena
le acque si quetarono cominciarono a venire a galla le pance bianche dei pesci. Grimpante e Bacì
stavano mettendo mano a una gran rete, quando furono travolti dalla folla che correva verso il mare.
I poveri si misero in acqua vestiti, chi con le scarpe in mano e i calzoni rimboccati, chi con le
scarpe e tutto, le donne con le sottane galleggianti a cerchio: e tutti giù ad acchiappare i pesci morti.
Chi li pescava con le mani, chi col cappello, chi con le scarpe, chi li metteva in tasca, chi nella
borsetta. I ragazzi erano i più veloci ma non s’azzuffavano: tutti erano d’accordo di dividerli in parti
uguali. Anzi, badavano ad aiutare i vecchi che ogni tanto scivolavano sott’acqua e uscivano con la
barba piena d’alghe e granchiolini. Le più fortunate erano le beghine che procedevano a due a due
coi loro veli tesi a fior d’acqua e rastrellavano tutto il mare. Le belle ragazze ogni tanto gridavano: -
Ih... ih... perché un pesce morto saliva loro sotto le sottane, e i giovanotti giù a cercare di pescarlo.
Sulla riva cominciarono ad accendersi fuochi d’alghe secche e comparvero le padelle. Ognuno
tirò fuori di tasca un boccettino d’olio e si cominciò a sentire odor di fritto. Grimpante se l’era
svignata perché la polizia non lo acciuffasse con quell’arrotavivi per le mani. Bacì Degli Scogli
invece se ne stava in mezzo agli altri, con pesci, granchi e gamberi che gli spuntavano da tutti gli strappi del vestito, e si mangiava una triglia cruda dalla contentezza.

lunedì 20 novembre 2023

Pranzo con un pastore

 


Ancora un marginale. Un giovane che, invitato a pranzo in una casa borghese, non si ritrova, attirando la solidarietà dei suoi coetanei. 

Italo Calvino, Pranzo con un pastore, l'Unità edizione piemontese 15 settembre 1948 

Fu uno sbaglio di nostro padre, dei suoi soliti. Aveva fatto venire quel ragazzo da un paesetto di
montagna, perché ci guardasse le capre. E il giorno che arrivò lo volle invitare a tavola con noi.
Nostro padre non capisce le differenze che ci sono tra la gente, la differenza tra una sala da
pranzo come la nostra, coi mobili incisi, i tappeti dai cupi disegni, le maioliche, e quelle loro case di
pietra affumicate, con per pavimento terra battuta e i festoni di giornale neri di mosche alla cappa
dei camini. Nostro padre si muove dappertutto con quella sua festosità senza cerimonie, di non
voler che gli cambino il piatto alla pietanza, e quando gira a caccia tutti lo invitano, e alla sera
vengono da lui a dirimere le liti.
Quello entra; io leggo in un giornale. E mio padre a fargli dei gran discorsi, che bisogno c’era?, si
sarebbe confuso sempre più. No, invece. Alzai gli occhi ed era in mezzo alla sala con le mani
pesanti, a mento contro il petto, ma con lo sguardo davanti a sé, ostinato. Era un pastore della mia
età, all’incirca, coi capelli compatti e legnosi, e i lineamenti arcuati: fronte, orbite, mandibole.
Aveva una scura camicia da soldato abbottonata a forza sul pomo del collo e un abituccio sbilenco
da cui sembrava traboccassero le grandi nodose mani e gli scarponi goffi e lenti sul pavimento
lucido.
"Questo è mio figlio Quinto, - disse mio padre -, fa il liceo".
Io m’alzai e azzardai un’espressione sorridente e la mia mano tesa s’incontrò con la sua e subito
le scostammo senza guardarci in viso. Mio padre aveva già preso a raccontare di me, cose che non
importavano a nessuno, di quanto mi mancava a finire gli studi, di un ghiro da me ucciso una volta
cacciando nei paesi di quel giovane; e io alzavo le spalle con degli: " Io? Ma no" ogni volta che mi
sembrava non dicesse giusto. Il pastore restava muto e fermo e non si capiva se sentisse: ogni tanto
gettava un’occhiata rapida verso una parete, una tenda; come una bestia che cerca uno spiraglio
nella gabbia.
Già mio padre aveva cambiato discorso e ora girava per la stanza e diceva di certe varietà
d’ortaggi che coltivano in quelle vallate e faceva delle domande al ragazzo e lui a mento sul petto e
bocca semichiusa continuava a rispondere che non sapeva. Nascosto dietro il giornale, io aspettavo
servissero in tavola. Ma mio padre aveva fatto già sedere l’invitato e portato d’in cucina un cetriolo
e glielo andava tagliando nel piatto da minestra in fette sottili, perché lo mangiasse, diceva lui, per
antipasto.
Entrò mia madre, alta e vestita di nero, coi bordi di pizzo e la scriminatura impassibile tra i
capelli bianchi e lisci. "Ah, ecco qui il nostro pastorello, disse. - Hai fatto buon viaggio?" Il
ragazzo non s’alzò e non rispose, alzò lo sguardo su mia madre, uno sguardo pieno di diffidenza e
d’incomprensione. Io stavo dalla sua con tutta l’anima: disapprovavo quel tono di superiorità
affettuosa di mia madre, quel «tu» padronale che gli dava; avesse parlato in dialetto come nostro
padre, ancora! ma parlava italiano, un italiano freddo come un muro di marmo di fronte al povero
pastore. Già stavano per servire la minestra quando apparve mia nonna sulla poltrona a ruote spinta dalla
mia povera sorella Cristina. Dovettero gridare forte negli orecchi della nonna di cosa si trattava.
Anzi mia madre fece proprio le presentazioni: "Questo è Giovannino che ci guarderà le capre. Mia
madre. Mia figlia Cristina".
Io arrossivo di vergogna per lui a sentirlo chiamare Giovannino; chissà come quel nome suonava
diverso nel chiuso e rozzo dialetto della montagna: certo era la prima volta ch’egli si sentiva
chiamato in quel modo.
Mia nonna assentì con la sua patriarcale pacatezza: - Bravo Giovannino, speriamo che non te ne
lascerai scappare, di capre, neh! - Mia sorella Cristina, che vede in tutte le rare visite persone
d’estremo riguardo, da mezzo nascosta che era dietro lo schienale della poltrona a ruote s’affacciò
tutta spaurita mormorando "Lietissima" e diede la mano al giovane che la sfiorò con pesantezza.
Mio fratello arrivò in ritardo come al solito, quando s’avevano per mano già i cucchiai. Entra e a
un’occhiata s’è già reso conto di tutto, e prima che mio padre gli abbia spiegato la storia e l’abbia
presentato: "Mio figlio Marco che studia da notaio", già è seduto che mangia, senza batter ciglio,
senza guardar nessuno, coi freddi occhiali che sembran neri tanto sono impenetrabili, e la lugubre
barbetta liscia e rigida. Si direbbe che abbia salutato tutti e si sia scusato del ritardo, e forse anche
abbia fatto una specie di sorriso all’ospite, invece non ha schiuso le labbra né increspato d’una ruga
la spietata fronte. Ora so che il pastore ha un alleato potentissimo al suo fianco, che lo proteggerà
col suo mutismo di pietra, che gli aprirà una via di scampo in quell’atmosfera greve di disagio che
solo lui, Marco, sa creare.
Il pastore mangiava curvo sul piatto della minestra, con sciacquio e rumore. In questo tutti e tre
noi uomini eravamo dalla sua e lasciavamo alle donne l’ostentata etichetta: nostro padre per la sua
naturale rumorosità espansiva, mio fratello per determinazione imperiosa, io per malagrazia. Ero
contento di questa nuova alleanza, di questa ribellione di noi quattro contro le donne: perché faceva
sì che il pastore non fosse più solo. Certo in quel momento le donne ci disapprovavano, e non lo
dicevano per non umiliarci a vicenda, quelli di casa di fronte all’ospite, e viceversa. Ma se ne
rendeva conto il pastore? No di certo.
Mia madre passò all’attacco, dolcissima: "E quanti anni hai, Giovannino?"
Il ragazzo disse la cifra, che risuonò come un grido. La ripeté piano. - "Come?" disse la nonna e la
ripeté sbagliata. "No: è questa", - e tutti a gridargliela nelle orecchie. Solo mio fratello, zitto. "Un
anno più di Quinto", scoperse mia madre e si dovette rispiegarlo alla nonna. Soffrivo di questo paragonare me e lui, lui che doveva guardare le capre altrui per vivere, e puzzare di ariete, ed era forte da abbattere le querce, e io che vivevo sulle sedie a sdraio, accanto alla radio leggendo libretti d’opera, che presto sarei andato all’università, e non volevo mettermi la flanella sulla pelle perché mi faceva prudere la schiena. Le cose ch’erano mancate a me per esser lui, e quelle che eran mancate a lui per esser me, io le sentivo allora come un’ingiustizia, che faceva me e lui due esseri incompleti che si nascondevano, diffidenti e vergognosi, dietro quella zuppiera di minestra.
Così continuammo per tutta la durata del pranzo in questa guerra, di noi tre ragazzi contro un
mondo crudele e servizievole, senza poterci riconoscere alleati, pieni di reciproche diffidenze anche tra
noi. Mio fratello terminò con un gran gesto, dopo la frutta: uscì un pacchetto e offrì una sigaretta
all’ospite. Se le accesero, senza chiedere permesso a nessuno, e questo fu il momento di solidarietà
più piena che si creò in quel pranzo. Io ne ero escluso, perché i miei non mi permettevano di fumare
finché ero al liceo. Mio fratello ormai era soddisfatto: s’alzò, tirò due boccate guardandoci dall’alto
e zitto com’era venuto si girò e andò via.
Mio padre accese la pipa e la radio per le notizie. Il pastore se ne stava guardando l’apparecchio
con le mani aperte sui ginocchi e gli occhi spalancati che s’arrossavano di lacrime. Certo a quegli
occhi appariva ancora il paese alto sui campi, il giro delle montagne e il folto dei boschi di castagni.
Mio padre non lasciava sentire, parlava male della Società delle Nazioni, ed io ne approfittai per
uscire dalla sala da pranzo.
Il pensiero del ragazzo pastore ci seguì tutta la sera. Cenammo in silenzio alle luci attutite del
lampadario e non potevamo liberarci dal pensare a lui adesso solo nel casolare della nostra
campagna. Ora certo aveva finito la minestra nella gavetta messa a riscaldare, ed era steso sulla
paglia quasi al buio, mentre giù si sentivano le capre muoversi e urtarsi e macinare erba coi denti. Il
pastore usciva e c’era un po’ di nebbia verso il mare e l’aria umida. Una fontanella ronfava discreta
nel silenzio. Il pastore s’avvicinava lungo le vie coperte d’edera selvatica e beveva senza sete. Delle
lucciole si vedevano apparire e sparire e sembravano un grande sciame compatto. Ma lui muoveva il braccio in aria senza toccarle.