venerdì 2 settembre 2016

Quel che resta di un amore



Cees Noteboom, Le volpi vengono di notte, Milano Iperborea 2009, trad. di  Fulvio Ferrari

GONDOLE

Le gondole sono ataviche: non ricordava dove l'avesse letto e non voleva nemmeno starci a pensare, perché altrimenti, ne era convinto, il pathos dell'istante si sarebbe in parte dissolto. Un sole basso, la nera forma d'uccello di una gondola nella nebbia sulla laguna, le pesanti briccole, solitaria falange in marcia che si perdeva in lontananza nella sua missione di morte e distruzione sull'invisibile riva opposta, e lui lì, sulla Riva degli Schiavoni, con una foto ingiallita e mezzo strappata tra le mani: se non era pathos quello... Lì, più o meno, aveva attraccato la gondola, lì, a quella scala o a quella successiva, più vicina alla statua della partigiana fucilata semi immersa nell'acqua, erano scesi. Il tempo era più o meno lo stesso, lo si capiva ancora dalla foto. Si erano seduti sui gradini e quasi all'istante era arrivato un giovane ufficiale a dire che la scala doveva restare libera per la polizia portuale, e aveva indicato un cartello. Dunque adesso doveva cercare quel cartello, non doveva essere difficile. E se lo trovo? Mi troverò esattamente nello stesso punto dove mi trovavo quarant'anni fa, e allora? Si strinse nelle spalle, come se fosse stato qualcun altro a fargli quella domanda. E allora niente. E proprio questo, pensò, era il punto.
Aveva accettato l'incarico di scrivere qualcosa sulla mostra di Palazzo Grassi per poter compiere quello strano pellegrinaggio. Pellegrinaggio a un'ombra, no, nemmeno: a un'assenza. La scala l'aveva trovata subito, nelle città eterne le cose hanno la tendenza a non cambiare, e lì attraccava ancora la polizia portuale. Il cartello c'era ancora, attaccato al muro di mattoni di fianco. Ridipinto, questo sì. Si sedette sul gradino più in alto. Il giovane ufficiale di allora doveva essere in pensione da un pezzo, ma anche se in quei quarant'anni avesse conservato la sua giovinezza, non avrebbe riconosciuto l'uomo anziano che se ne stava lì seduto. La foto era stata scattata da uno sconosciuto che si era messo un po' più avanti, sul bordo della banchina, le spalle alla laguna.
Un angolo di trenta gradi, così in lontananza si vedeva anche il Palazzo Ducale. Osservò la foto, e come sempre si stupì della sua inaffidabilità. Non solo una foto poteva raffigurare una morta, ma poteva anche metterti sul piatto una versione fuori corso di te stesso, un giovane irriconoscibile con i capelli lunghi, in così perfetto stile con la sua epoca da dare alla foto l'aroma ammuffito di un tempo passato per sempre.
Che avesse ancora lo stesso corpo, questo era in realtà il miracolo. Ma naturalmente non era lo stesso corpo. Il suo proprietario portava ancora lo stesso nome, tutto qui.
Quel che voleva davvero dire quella foto, pensò più come una constatazione che come una forma di tragicità o di autocommiserazione, era che cominciava ormai a essere tempo che sparisse anche lui. Sedeva alla sua sinistra, allora. Lei teneva la testa alta, sorridendo all'ignoto fotografo, i capelli rossi erano tirati un po' indietro e anche il suo corpo leggero si piegava un po' all'indietro, appoggiandosi al muro che costeggiava la scala e coprendo in parte il cartello. Guardò l'acqua grigiastra che si muoveva piano in fondo alla scala. Era sorprendente che tutto fosse rimasto uguale! L'acqua, la forma delle gondole, il gradino di marmo su cui stava seduto. Solo noi scivoliamo via, pensò, lasciandoci dietro la scenografia della nostra vita. Passò la mano sulla superficie di pietra granulosa accanto a sé, come per sentire la sua assenza. Sapeva bene che tutti i pensieri che si potevano avere al riguardo erano cliché, solo che nessuno aveva mai risolto quegli enigmi. "Realtà e perfezione sono per me la stessa cosa": di chi era quella frase se lo ricordava. Si poteva dubitare che Hegel si riferisse alla situazione in cui si trovava lui, comunque sembrava adattarsi bene. Provava uno strano entusiasmo perché le cose erano quelle che erano, perché non c'era pensiero che le potesse dissolvere. La morte era qualcosa di naturale, ma si accompagnava a forme quasi intollerabili di dolore, tanto immense da desiderare di perdersi dentro per abbandonarsi alla perfetta realtà del mistero.
L'inizio era stato semplicissimo. Un'isola greca, la casa di amici di amici, tutto organizzato da loro perché faceva così pena dopo la sua separazione. Non era abituato a essere solo, era affamato di tutto ciò che sapeva di donna. Una stradina di pietra lungo il mare, dove camminavano o passeggiavano tutte quelle figure femminili cui avrebbe voluto rivolgere la parola, ma non osava farlo per paura di essere cacciato via tra le risa come un imbecille.
«Aggattarle» diceva il suo amico Wintrop. La parola era bella, ma non ne era mai stato capace. Com'era quel verso di Lucebert? "Vagabondo la sera lungo scafi di donna". Era così, in ogni caso. La passeggiata, avanti e indietro, e poi di nuovo. Passeggiare, vagare, guardare. Hydra, barche di pescatori bianche nella notte che si faceva scura, dolcemente cullate, illuminate dalle luci al neon. Rondini, cipressi, o se lo stava inventando adesso? C'erano già le luci al neon? Ma perché i suoi ricordi avrebbero dovuto essere veritieri? Mettici una luce gialla di lampioni, ascolta il richiamo di una civetta, guarda le forme nere dei pini. Il mare rimane lo stesso e batte piano contro la banchina. Tutto il resto è intercambiabile, l'arsenale con cui si arreda la memoria.



Non assomigliava a una nave quando gli passò davanti. O forse sì: molto leggera, con una sola piccola vela, pareva librarsi al di sopra dell'acqua. Doveva essere stato così ridicolo il modo in cui si era alzato di scatto dal molo facendo il gesto di un agente che vuoi fermare il traffico. E fu addirittura quel che disse: STOP! Ancora adesso ne provava imbarazzo. Anche se anni dopo, in California, quando tutto era ormai finito da tempo, ne avevano riso tante volte. Fu così sorpresa che si fermò immediatamente. Strano, non ricordava più se erano usciti insieme già quella prima sera. Rimasero a parlare a lungo in un bar sul porto. Americana, con un nome italiano. Sedici anni, diciotto, avrebbe voluto saperlo, ma non osò chiederlo. Aveva visto allora i segni che si era disegnata sulle mani e sulle braccia, i segni dello zodiaco, non tatuati, come se ne vedono parecchi oggi, ma tracciati con l'inchiostro nero sulla pelle bruna. Le aveva chiesto che cosa fossero, e lei aveva risposto soltanto: oh, io sono una strega. Anche di questo avrebbero riso in seguito, ma lui aveva conservato le sue lettere di quell'epoca, piene di chiacchiere su magia e incantesimi: fantasie che, come capì presto, non avevano alcun significato, ma che sul momento lo eccitavano. Si adattavano bene al periodo, ma soprattutto a quei capelli rossi, a quegli occhi color ardesia, alla voce sorprendentemente profonda, un po' roca. Nei giorni successivi aveva dormito da lui nella grande casa bianca. Da lui, ma non con lui. Era la condizione. Si lasciava accarezzare guardando dall'altra parte, poi scivolava in un sonno profondissimo, con l'assenza di un animale per cui il mondo non esiste più. Lui si sentiva un po' ridicolo e superfluo, ma la fiducia che gli dimostrava lo commuoveva. Meglio la compagnia dell'amore: aveva scritto qualcosa del genere nel suo diario. In seguito quel diario l'aveva buttato via e ora gli dispiaceva, quella frase comunque non l'aveva dimenticata. Qualche giorno dopo tutto era cambiato. Forse se lo stava inventando adesso, ma gli sembrava che lei avesse indicato uno di quegli strani segni che si era disegnata anche su altre parti del corpo e avesse detto qualcosa del tipo che era giunto il momento. Qualcosa che aveva a che fare con i pianeti, tutte storie che già allora gli sembravano idiozie.
In amore era astuta e infantile insieme, altre parole non gli venivano in mente. «Astuta» non l'aveva mai convinto, era la parola sbagliata, qualcosa di consapevole e forse anche di calcolato, ma neppure queste erano le parole giuste. Lui ne era eccitato perché attraverso quel voluto infantilismo si infiltrava un elemento di gioco proibito, come se lei volesse insinuargli che andava a letto con una bambina, una sensazione che non aveva mai più provato, né prima né dopo.

Tornò indietro in direzione della città. La mostra di Piero della Francesca l'aveva toccato nel profondo. Perché dovesse trovarci un parallelo con quella storia così lontana non lo capiva, forse solo perché sia il pittore che il ricordo gli occupavano la mente in quel momento, o forse perché in quei quadri c'era qualcosa di inaccessibile, qualcosa che corrispondeva alle brevi settimane in cui erano stati insieme. Non si poteva dire che fosse misteriosa, la storia della stregoneria era pura idiozia, ma la sua presente assenza di allora al suo fianco gli faceva pensare alle ieratiche figure dei quadri. Si era davanti, si desiderava penetrarvi con tutte le proprie forze, ma era un mondo a cui non c'era accesso. Non aveva la minima idea di cosa scrivere nel suo pezzo, come non sapeva che fare dei suoi ricordi.

mercoledì 31 agosto 2016

Silvia Ronchey, Dioniso

 
Silvia Ronchey
Dioniso il ritorno del dio che in realtà non è mai morto
A partire da un saggio di Zolla riflessioni su un mito antichissimo che resiste ancora oggi
La nostra società si è riappropriata della divinità dell’uguaglianza in termini non più esoterici ma espliciti

la Repubblica, 31 agosto 2016

Quando il ragazzo esce all’alba dalla discoteca, stordito dalle droghe e dall’alcol, e con la luce del mattino lo assale lo stupore dell’infanzia; quando nella campagna greca il contadino, assaggiato il vino nuovo, si alza e accenna tra le viti la lenta danza in tondo; quando il poeta scrive che «perciò sussurrando ci incorona i capelli il dio comune / e fonde in uno le coscienze come perle di vino»; quando fra lo squittìo delle scimmie il suono del tabla annuncia l’inizio di un rave sulla spiaggia di Goa; quando, passeggiando, incontriamo lo sguardo immobile di un animale e ci specchiamo nella sua divinità — allora, e molte altre
volte, Dioniso si manifesta. Dioniso, il dio che Ovidio chiamava Puer Aeternus, si appropria della nostra vita all’improvviso, schiacciando le leggi e le abitudini, infrangendo l’identità personale, spezzando le dualità — conscio- inconscio, persona-cosmo —, come spiega Elémire Zolla in uno dei suoi scritti più belli, Dioniso errante, ora integralmente leggibile nel sesto volume dell’opera omnia, curata con abnegazione e sapienza da Grazia Marchianò (Marsilio, pagg. 622, 24 euro).
Il dio dell’ebbrezza, del confondersi dell’anima, come scandisce il coro delle Baccanti di Euripide, il dio divorato, smembrato come i grappoli della vite, il dio plurale e “produttore di tutte le pluralità”, come lo definì Proclo nel commento al Timeo di Platone, il dio dai molti nomi (tra i più noti Bacco, ma anche Iacco, “ululante” nei misteri eleusini, Libero, “liberatore”, senza contare le ipòstasi stellari che lo innalzano al massimo fulgore nella giostra del cielo eternando le sue storie mitiche nel ritorno degli astri), il dio della maschera e del fallo, dai volti maschili e femminili oltreché umani e ferini (infante, uomo barbuto, dama velata, capro, asino, pantera ), fu, come racconta Nonno di Panopoli, un mescolatore di popoli, un liberatore di oppressi ma soprattutto un affrancatore delle donne: dalle contadine che per accorrere al richiamo del ditirambo abbandonavano la segregazione domestica alle matrone degli affreschi dionisiaci della Villa dei Misteri a Pompei.
In questa emergenza matriarcale “più civile di quella delle Amazzoni”, come illustrò Bachofen, Dioniso fece della donna la guida del tìaso e la depositaria dei suoi più profondi stati estatici. Le mènadi, a imitazione del movimento vorticoso impresso al tirso, roteavano il capo come dervisci, tenendolo inclinato di fianco come avrebbero fatto nelle loro estasi le mistiche cristiane, da Caterina a Teresa. Dai soldati della spedizione di Alessandro in India Dioniso fu assimilato, non a torto, a Shiva, «dio dell’hashish, dell’impeto del toro e del fallo, del fremito che scuote chi è solo nella foresta di notte ». E infatti Novalis lo invoca nell’Inno alla notte: «Dal fascio di papaveri / in dolce ebbrezza / fai crescere le pesanti ali del cuore ». Ma era insediato in Grecia fin dall’età minoica, e anche se verso l’India il suo carro trainato da tigri portò Arianna dall’isola di Nasso dov’era stata abbandonata da Teseo (o forse lo aveva abbandonato lei stessa, rapita in un sonno che già preludeva al ratto dionisiaco), a Creta, patria del labirinto, i riti, descritti in seguito da Filone di Alessandria, portavano gli adepti «a uscire da sé e scorgere l’oggetto del desiderio ». Il grande dio Pan è morto, annunciava Plutarco quando il politeismo dovette cedere il passo al monoteismo dell’eresia giudaica che presto avrebbe dominato il mondo conosciuto. Ma non accadde lo stesso, non proprio, a Dioniso. Il nuovo dio dei cristiani aveva e via via avrebbe assunto tratti del “dio comune”, come lo aveva chiamato Hölderlin. Al termine della polimorfa vicenda mitologica che lo avvince, Dioniso scese nell’Ade e ne tornò, «con la morte sconfiggendo la morte», come recita l’inno pasquale dell’ortodossia, «sfilando alla morte il suo pungiglione», come scrisse san Paolo: la resurrezione è “il contrassegno di Dioniso”, che non solo la compì (tre volte), ma salì in cielo e sedette alla destra del Padre (Zeus). Fi umi di scrittura sono stati dedicati al dionisismo cristiano, dagli antichi padri della chiesa ai moderni storici delle religioni, provocati da Schelling, che esplicitamente assimilerà Dioniso a Cristo.
Se Gesù è in Giovanni 15, 1-2 “la vera vite” e gli apostoli devono attaccarglisi come i grappoli al tralcio, se il miracolo di Cana è un tipico prodigio dionisiaco (il più noto precedente in Pausania), il sacrificio dell’uomo-vite nell’eucarestia ricalca la tradizione della mitografia dionisiaca (dove il vino è già chiamato “il dolce sangue” e il potere di trasmutare in pane e in vino è già concesso da Dioniso, stando alle Metamorfosi di Ovidio, alle sue fedeli). Se il calendario cristiano si appropriò di date sacre anche a Dioniso, come il 6 gennaio, la Pentecoste ha, sottolinea Zolla, caratteri di festa dionisiaca.
Come scrisse Gregorio di Nazianzo, uno dei massimi teologi bizantini: «Ecco, Gesù nuovamente è qui e insieme a lui è qui un mistero. Ma non è più un mistero dell’ebbrezza, bensì un mistero che proviene dall’alto». Forse per questo fu attribuito a lui uno dei più plateali prodotti del sincretismo bizantino, il Christus patiens, di età più probabilmente posticonoclasta, dove l’uccisione di Gesù è accostata a quella di Penteo da parte delle baccanti. Seguendo le suggestioni di studiosi neogreci, Zolla congettura, forse giocosamente, la persistenza a Bisanzio, e ancora durante la turcocrazia, di tìasi o confraternite segrete dionisiache, contigue a eresie dualiste cristiane i cui adepti portavano tatuata in fronte l’antica foglia di edera.
Al di là delle sopravvivenze, la sostanza della percezione cristiana era antitetica a quella dionisiaca.
Con la sua visione antropocentrica e la sua stretta ragion pratica, come avrebbe compreso Nietzsche, il cristianesimo negò il dionisismo, il suo «sprofondamento nella vita animale e vegetale per non dire nella sostanza minerale, la libertà con tutti i suoi rischi». L’escatologia cristiana soppresse il tempo ciclico, sospese l’«abrogazione dionisiaca della coscienza storica», per introdurre a una promessa di giudizio finale e progresso lineare, a una liberazione oltre la vita.
Il grande dio Pan era morto, ma Dioniso, clandestino e represso dalla morale cristiana, fu reimportato dai neoplatonici di Bisanzio e risorse nel Rinascimento anzitutto fiorentino, alla prima corte dei Medici, quando — come intuito da Pound — i bizantini dettavano e Ficino descriveva con precisione «l’estasi e l’abbandono di menti sgombre, che miracolosamente trasformate superano i limiti dell’intelligenza e si inebriano di un’incommensurabile gioia».
Inoculato nel Quattrocento platonico, Dioniso filtrò nella cultura visiva europea, abitò nel nuovo genere pittorico dei baccanali (Bellini e Correggio, Caravaggio e Tiziano), nel più esoterico mistero che pervase i quadri di Leonardo; riemerse nella letteratura dei romantici tedeschi e dei dionisiaci inglesi e francesi (Coleridge e De Quincey oltre a Baudelaire), da cui saranno influenzati, fra gli altri, gli studi di Bachofen, Rohde, Frazer, Otto, Kerenyi. È Dioniso che nel Novecento ha ispirato la rivoluzione psichedelica, forse quella sessuale, certo la liberazione delle donne, Arianne rapite via dai vincoli borghesi sul suo carro guidato da tigri. La corona della razionalità, gettata in alto, si è impressa come il diadema di Arianna nel cielo notturno della psiche quando l’Es, con la psicoanalisi, ha riconquistato il suo dominio. Dioniso ci ha riconvocato in India, ci ha riproposto la consapevolezza dell’impermanenza, ci ha reinsegnato il mondo animale e la natura vegetale.
Non è solo il carattere orgiastico che nel dissolversi delle religioni esclusive e del folklore tradizionale hanno assunto la sessualità o i riti della vita associata. Non è solo il ritmo del reggae, lo spirito della musica come lo chiamava Nietzsche, che fa da colonna sonora alla tragedia del massacro globale, nel riacutizzarsi della ferocia delle guerre del mondo. È che la nostra società, nella ruota dell’eterno ritorno, si è riappropriata del dio dell’uguaglianza universale in termini non più esoterici ma espliciti e di massa. E se questo ci inquieta, Dioniso ha raggiunto il suo scopo.

lunedì 8 agosto 2016

Marcinelle dietro le quinte



Toni Ricciardi
MARCINELLE 1956
Quando la vita valeva meno del carbone
pp. 164, 24,00 €
Donzelli editore, Roma 2016


Marcinelle è adesso un sobborgo di Charleroi. Una volta era un comune autonomo e lo era ancora al tempo della catastrofe mineraria: 262 morti, 136 italiani, 95 belgi e 31 appartenenti a 11 altre nazionalità. La catastrofe si delineò l'8 agosto 1956 e solo quindici giorni dopo si ebbe la certezza che gli uomini rimasti intrappolati nella miniera erano tutti morti. Nel 2001 la Repubblica italiana istituì la Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo e ne fissò la ricorrenza all'8 agosto, il giorno di Marcinelle appunto.
Le miniere erano già condannate al declino quando il governo belga lanciò nel febbraio 1945 la battaglia del carbone. Non attiravano più la manodopera locale. Da qui la firma nel giugno 1946 di un accordo con l'Italia: si offriva una fornitura regolare di carbone a pagamento in cambio di lavoratori da collocare nelle miniere belghe. Partirono in 250mila tra il 1948 e il 1956, 80mila tornarono indietro, e il carbone promesso non fu sempre consegnato.
La vicenda ha aspetti epici e tragici insieme, ampiamente messi in luce dalla ormai vasta letteratura sull'argomento. L'autore qui sembra preferire una visione tragica, cupa, l'unico esito positivo è dato dalla rivalutazione postuma del sacrificio. Il libro contiene un lungo atto d'accusa contro la politica delle classi dirigenti italiane. Si parte da lontano, dall'imperialismo del tardo Ottocento per arrivare al patto del 1937 con la Germania nazista sullo scambio tra uomini e carbone. Il ministro Carlo Sforza promuovendo nel 1946 l'accordo italo belga di fatto si adegua a un modello già fissato dal regime. Del resto il fascismo non aveva avuto una politica migratoria diversa da quella dello Stato liberale. Il libro sfrutta i materiali offerti dagli archivi italiani diventati accessibili cinquant'anni dopo il periodo della grande migrazione verso il Belgio. Nella narrazione il linguaggio spesso burocratico delle carte si intreccia con estratti dalla memorialistica. Un capitolo scritto da Annacarla Valeriano è dedicato alla stampa dell'epoca e ai ricordi dei protagonisti. Strano a dirsi nel libro la catastrofe vera e propria occupa poco spazio. Non c'è un resoconto esatto degli avvenimenti, né una chiara individuazione di responsabilità. Si insiste sull'errore umano di singoli addetti, mentre non si chiarisce bene il ruolo svolto dalle gravi carenze nei dispositivi di sicurezza. Alla fine i soli responsabili sembrano essere i politici italiani che hanno consegnato allo straniero la vita e il destino di tanti loro concittadini. Tutto per qualche sacco di carbone. Un'altra lettura è ugualmente possibile e trova un certo spazio qua e là lungo le pagine. A Marcinelle è morta la speranza di una emancipazione attraverso un passaggio temporaneo all'inferno. Gli operai immigrati cercavano una vita migliore per le loro famiglie e per i loro figli. La miniera non era certo il loro orizzonte anche se rischiava di diventarlo. La suggestione non è la storia, ma di essa la storia si nutre. Un'altra Marcinelle segreta viene allora alla luce. Non quella nascosta tra le carte degli archivi. Quella che ha riempito la testa e il cuore dei sopravvissuti nei decenni a venire. Prendete Maria Di Stefano, per esempio: il marito morto le è rimasto accanto, le è apparso più volte in sogno e le ha parlato. (Giovanni Carpinelli)

di prossima pubblicazione sull'Indice

sabato 30 luglio 2016

Il federalismo in Belgio e in Canada

Québec et Wallonie


Min REUCHAMPS (dir.), 2015, Minority Nations in Multinational Federations. A Comparative Study of Quebec and Wallonia, London – New York, Routledge, 198 p.

1 Délicate mais nécessaire entreprise que celle d’aborder la question des fédérations multinationales d’un point de vue comparatif. C’est leur capacité à surmonter les crises dont elles sont périodiquement affectées qui attire en général l’attention des chercheurs. Les cas du Pays basque en Espagne, de la Bavière en Allemagne, du Québec au Canada, de la Flandre en Belgique et, plus récemment, de l’Écosse au Royaume-Uni sont là pour le prouver. Dans le passé, c’était presque une règle de rapprocher le Québec de la Flandre, du fait des similitudes entre les deux régions : elles représentaient les exclus, ou les faibles, au sein de leurs États respectifs. Les choses ont cependant changé depuis, la Flandre étant, en Belgique, la région de loin la plus riche et la plus peuplée. Désormais, c’est la comparaison entre le Québec et la Wallonie qui s’impose. Les auteurs de ce collectif s’y attachent en privilégiant l’analyse, menée de l’intérieur, des deux régions conçues comme étant des réalités autonomes, par rapport à celle des relations que ces deux unités entretiennent avec les structures fédérales dont elles font partie. En tant que le Québec et la Wallonie font figure de petites patries, un regard attentif doit être porté sur ce qui se passe à l’échelle locale. Telle est la prémisse des travaux réunis dans ce volume. On la retrouve aussi bien dans l’introduction de Min Reuchamps qu’au fil des pages et dans la conclusion de Michael Burgess.
2 Les événements examinés dans l’ouvrage remontent aux années 1960, quand le Québec entame sa « révolution tranquille » et la Wallonie prend conscience de son statut minoritaire du point de vue social et économique. Là commence un processus qui atteint son faîte en 1995. Au Québec, ce fut l’année du deuxième referendum sur l’indépendance : le « non » remporta une victoire arrachée de justesse. Dès lors, la tendance à l’accroissement des pouvoirs attribués au Québec dans le cadre de la Fédération s’accentua et se révéla porteuse de nombreux résultats. 1995 est également une date cruciale pour la Wallonie, puisque, pour la première fois, est élu directement un Parlement wallon. Les pouvoirs dévolus à la région s’étant encore étoffés depuis, l’ensemble de l’édifice tend à se rapprocher de celui d’un État sans s’y identifier tout à fait. Les différences entre les deux cas envisagés demeurent cependant importantes ainsi que le rappellent, respectivement, Luc Turgeon et Jean-François Caron dans les deux chapitres qui forment la première partie de l’ouvrage (Setting the stage). Le Québec représente 25 % seulement de la population canadienne et, dans le pays, les francophones proprement dits sont encore moins nombreux par rapport à la population totale, puisqu’ils n’excèdent pas les 20 %. Dans le contexte belge, la population de la Wallonie représente 32 % de la population totale, tandis que la part de francophones, avec Bruxelles, atteint 41 %. Fait remarquable, tout en étant un pays majoritairement flamand, la Belgique a une capitale dont 80 % de la population s’exprime en français. De surcroît, la Wallonie était en fait englobée depuis longtemps dans une Belgique francophone officiellement majoritaire, ce qui contraste nettement avec la situation traditionnellement minoritaire du Québec. Qu’on ajoute à cela le vieux statut provincial du Québec et la constitution toute récente de la Wallonie en région autonome et l’on aura une idée de l’écart qui sépare les deux réalités.
3 Venons-en aux deux autres parties plus détaillées du livre. Tandis que la deuxième (trois chapitres) est consacrée à la politique (Politics), la troisième, et dernière (trois chapitres), l’est, quant à elle, aux stratégies d’action (Policies). La deuxième partie s’ouvre par une étude sémiologique (à vrai dire, les auteurs – Heidi Mercenier, Julien Perrez et Min Reuchamps – parlent de lexicométrie, de linguistique cognitive et de science politique). Il s’agit de voir quelle image de la région est offerte par les programmes électoraux des partis politiques entre 1994 et 2014. Il apparaît que la question identitaire domine au Québec, tandis qu’en Wallonie elle va de pair avec la question sociale. Les métaphores employées privilégient l’effort de construction d’une nouvelle nation au Québec, là où c’est le cadre de vie et le malaise qui sont au premier plan en Wallonie. Dans les deux contributions suivantes les partis s’effacent au profit des individus. Jérémy Dodeigne se demande si une classe politique locale est en train de se former. La Wallonie semblerait présenter de ce point de vue une plus grande mobilité ascendante. Le phénomène ne concerne toutefois qu’un petit nombre de personnes. La frontière entre l’échelon local et l’échelon supérieur garde tout son poids et les changements de statut entre l’un et l’autre sont, somme toute, rares. Sandra Breux et Vincent Jacquet, quant à eux, s’intéressent aux maires, « mayors » au Québec, « bourgmestres » en Wallonie. Leur rôle s’est vu récemment renforcé dans les deux régions. Un souci d’indépendance par rapport aux divisions partisanes et aux gouvernements centraux a fini par s’affirmer dans les deux cas. Cependant la profession du maire est plus politisée en Wallonie qu’au Québec.
4 En ce qui concerne les stratégies d’action (troisième partie de l’ouvrage), Maxime Petit Jean s’intéresse à l’administration publique, visée par des réformes marquantes : la loi sur l’administration publique au Québec en 2000 et la naissance d’une administration centrale wallonne, dénommée Service public de Wallonie, en 2008. Les buts poursuivis étaient les mêmes: efficacité et ouverture (responsiveness) aux citoyens. La volonté d’autonomie est pourtant beaucoup plus nette au Québec. L’administration wallonne n’a été longtemps qu’une copie de l’administration belge. Elle hésite dernièrement entre le choix d’une forme locale plus autonome et l’alliance avec Bruxelles dans le cadre de la Communauté française. C’est à Philippe Hambye que revient la tâche d’aborder un thème délicat : la politique des langues. Les différences entre le Québec et la Wallonie s’accentuent à ce sujet. Dans le cas du Québec, la concurrence de l’anglais se fait sentir, tandis qu’en Wallonie le néerlandais n’a jamais exercé d’attrait véritable. Les secteurs explorés sont au nombre de quatre : communication publique, éducation, politiques d’immigration et planification linguistique. Seul le Québec a développé une politique des langues cohérente et transversale, notamment avec la Charte de la langue française qui vise à assurer la priorité du français dans tous les domaines publics d’expression verbale. On peut ajouter qu’une telle politique a porté ses fruits. Enfin Stéphane Paquin, Marine Kravagna et Min Reuchamps consacrent un dernier chapitre aux relations internationales menées par chacune des deux régions. L’exercice d’une diplomatie parallèle a conduit le Québec à promouvoir une politique étrangère distincte de celle du Canada. En revanche, en Belgique on a assisté le plus souvent à une influence conjointe des deux acteurs francophones, Wallonie et Communauté française, sur les choix de l’État fédéral.
5 Un bilan de l’entreprise réalisée par Minority Nations tend à montrer que le choix de s’en tenir principalement au niveau régional dans l’analyse n’a pas été toujours heureux. Il est vrai que le Québec et la Wallonie sont des nations en marche, mais contre quels adversaires ? Qu’est-ce qui a empêché le Québec et la Wallonie d’aller plus loin sur le chemin d’une indépendance totale ? Et, d’abord, est-il si évident que la Wallonie aspire à l’indépendance ? Dans cet ouvrage même, Jean-François Caron décrit comme suit l’état actuel de l’opinion locale : « il n'est pas surprenant aujourd’hui de trouver qu’une vaste majorité de Wallons s’identifient davantage à la Belgique qu’à leurs autres entités culturelles (que ce soit la région wallonne ou la Communauté française) » (p. 32). Quant au Québec, l’option séparatiste à été sans conteste rejetée lors du referendum de 1995 par un nombre considérable de francophones (40 % environ) et par des minorités qui se sentaient menacées par une telle perspective (voir le cas des féministes anglophones cité par Luc Turgeon, p. 19). L’on dirait que des figurants inattendus sont venus perturber le scénario d’une pièce peut-être trop simpliste : les Canadiens, qui existent, et les Belges, qui existent aussi. Ce sont eux qui s’opposent à un fractionnement plus poussé de leurs États. Que ce soit au nom de la neutralité scientifique ou pour d’autres raisons non explicitées, les dégâts provoqués par un morcellement excessif du pouvoir ne se voient pas accorder une place de choix dans cet ouvrage. Or, les attentats terroristes de Bruxelles du 22 mars 2016 sont là pour nous rappeler que le souci de ménager les susceptibilités locales peut devenir un obstacle majeur dans la prévention des atteintes à la sécurité collective.  (Giovanni Carpinelli)
 A paraître dans Revue européenne des sciences sociales

lunedì 18 luglio 2016

Come cambia la storia del pensiero politico

 


Arnault SKORNICKI et Jérôme TOURNADRE, La Nouvelle Histoire des idées politiques

Giovanni Carpinelli
p. 273-276
Référence(s) :
Arnault SKORNICKI et Jérôme TOURNADRE, 2015, La Nouvelle Histoire des idées politiques, Paris, La Découverte, 123 p.

1 Qu’est-ce qu’une « idée politique » ? Si la question est simple, la réponse ne l’est pas. Dans l’ouvrage d’Arnault Skornicki et Jérôme Tournadre deux réponses se font face. Traditionnellement, on a été longtemps porté à croire que les « idées politiques » étaient des variations sur un petit nombre de thèmes importants et établis une fois pour toutes : l’État, la liberté, le pouvoir, et ainsi de suite. Selon une telle perspective d’ordre philosophique, le débat avait surtout pour protagonistes quelques grands auteurs classiques. Quoiqu’un peu caricaturale, cette image correspond à la démarche suivie par l’ancienne histoire des idées politiques. Depuis 1960, on assiste à un changement complet dans la manière d’aborder la discipline, telle que, près de quarante ans plus tard, une nouvelle histoire des idées politiques a pris forme qui s’est imposée à l’étranger plus encore qu’en France. C’est ce changement dont rend compte l’ouvrage.
2 Dans un premier temps, c’est surtout la méthodologie qui a été révisée. Puis l’objet même de la discipline a connu une expansion considérable. Les documents les plus divers ont fini par prendre la place des monuments – les classiques – qui dominaient la scène jusqu’alors. « Le mode d’existence des idées est pluriel » disent les auteurs dans l’introduction. Les concepts abstraits ne sont plus les seuls acteurs des idées politiques. Bien d’autres éléments sont désormais pris en considération : les croyances, les valeurs, les slogans, les représentations, les lieux communs, etc. La production des idées n’a en conséquence plus été perçue comme le monopole des penseurs professionnels et/ou reconnus du politique, en sorte que n’importe quel quidam pouvait tout aussi bien y jouer un rôle. D’autant que les frontières du politique sont-elles mêmes susceptibles de se déplacer et d’embrasser une grande variété d’objets sociaux : une œuvre d’art, un graffiti aussi bien qu’une discipline scientifique « véhiculent au moins implicitement une certaine vision de l’ordre social, des rapports de pouvoir, etc.» (p. 4-5). Nous entrons ainsi dans un domaine beaucoup plus vaste que celui réservé à l’ancienne histoire des idées politiques. L’ouvrage entend précisément mener le lecteur à la découverte de ce monde nouveau, tout en mettant en évidence en quoi cette « nouvelle histoire des idées politiques » diffère de la conception traditionnelle de la discipline.
3 Cinq chapitres très denses font le tour des tendances les plus remarquables. La question de la méthodologie fait l’objet d’un premier chapitre. Les résultats produits par l’école de Cambridge, et notamment les travaux de Peter Laslett, John Dunn et Quentin Skinner, y font figure d’avant-garde. Parmi les promoteurs du changement, une place de premier plan revient aussi à John Greville Agard Pocock. Ce sont Pocock et Skinner qui ont montré le plus de détermination en menant une bataille sur deux fronts, contre l’idéalisme et contre le marxisme. Le maître-mot de l’école est « contexte » : un défi a priori banal (p. 9), mais qui se heurte au langage et à la rhétorique d’un milieu peu favorable à la contextualisation.
4 Le deuxième chapitre s’ouvre sur l’œuvre de Reinhart Koselleck et de ses différents collaborateurs (p. 33-41). Ici, à la différence des historiens de Cambridge, ce sont les concepts qui retiennent l’attention. Le langage et l’histoire, selon Koselleck, poursuivent une existence parallèle, ils s’éclairent mutuellement tout en restant séparés : l’histoire arrive à se passer du langage pour toute sorte de phénomènes – la naissance, l’amour, la mort, ou les maladies, la faim et la misère, etc. – et le langage à son tour ne se confond pas avec l’acte qu’il contribue à préparer, à déclencher ou à accomplir. Dans les pages suivantes, les noms de Luigi Firpo et Franco Venturi sont invoqués de manière à rendre compte de l’essor très favorable de la nouvelle histoire des idées politiques en Italie. Le sort de la France a été en revanche moins heureux, l’histoire des idées politiques ayant échoué à obtenir une reconnaissance institutionnelle et à trouver une place à part entière dans l’université et dans la recherche. L’école des Annales a joué, à cet égard, un rôle négatif en privilégiant l’histoire des mentalités. Et c’est finalement à Michel Foucault que l’histoire des idées doit son renouvellement en France. Ce dernier a voulu réaliser une généalogie du savoir : « une contre-histoire des sciences, en tant qu’elles sont imbriquées dans les systèmes de pouvoir et les luttes historiques » (p. 45). Rappelons que Foucault est avec Derrida à l’origine du tournant linguistique qui, dans le courant des années 1980, a eu une influence déterminante sur l’histoire et les sciences sociales : « comment, et à quel point, la réalité politique (l’État, les révolutions, la lutte des classes, les partis…) est-elle construite par les conventions langagières manipulées par des acteurs capables de réfléchir leur expérience et leur action ? » (p. 46). En France, un tel changement est alors incarné par Jacques Guilhaumou et Pierre Rosanvallon. Le premier contribua avec d’autres, Régine Robin notamment, à introduire dans l’hexagone les travaux de l’école de Cambridge et l’histoire conceptuelle à la manière de Koselleck. Le second a construit dans les années 1970 « une œuvre abondante et polyvalente » (p. 48) qui vise à « mettre au jour les systèmes de représentation qui commandent la façon dont une société, dans sa pluralité, conduit et envisage ses actions » (p. 47). En même temps, il réserve une place de choix aux idées et pense à une histoire du politique par les idées. Le tournant linguistique a enfin trouvé en Grande Bretagne un acteur majeur dans la figure de l’historien Gareth Stedman Jones. La conscience cesse d’être pour lui un miroir qui reflète la réalité, elle devient un facteur actif qui contribue à façonner le monde : c’est la lutte qui fait les classes plutôt que l’inverse (p. 51-52).
5 Avec les troisième et quatrième chapitres, le discours des auteurs se déroule sur un plan beaucoup plus large. Les limites temporelles reculent, on évoque la sociologie de la connaissance à partir de Karl Mannheim et l’on remonte jusqu’à Destutt de Tracy et Karl Marx pour aborder la question de l’idéologie. Les limites spatiales englobent désormais, avec l’Europe occidentale, l’Amérique du Nord. Si le centre de l’intérêt scientifique pourrait encore être désigné par le mot « contexte », il ne s’agit plus cependant du contexte langagier, intellectuel ou politique, mais du contexte « social ». C’est donc une histoire sociale des idées politiques qui est envisagée par les auteurs, selon qu’il s’agisse de s’en référer aux principaux théoriciens (troisième chapitre) ou de rendre compte de l’étendue de son retentissement (quatrième chapitre).
6 Comme le montre le troisième chapitre, deux américains, le sociologue Charles Camic et le politiste Neil Gross, sont dans les années 2000 les pionniers d’une approche axée sur la dimension locale des configurations dans lesquelles se meuvent les penseurs. Un autre élément mis en valeur par les deux savants est l’identité qu’un auteur projette de lui-même (intellectual self concept). Il est montré, par exemple, à l’occasion d’un encadré, comment Gross a analysé la biographie du philosophe Richard Rorty dans un volume de près de 400 pages sur la base d’une série de traits – l’indépendance, le pluralisme, etc. – qui semblent traduire la volonté de sa part d’incarner le « patriote américain de gauche» (p. 60-61). Dans un autre paragraphe, le marxisme revu et corrigé des époux Wood est à l’honneur, Ellen Meiksins et Neal Wood faisant preuve d’une finesse remarquable dans leurs études sur les différents théoriciens. L’œuvre de Pierre Bourdieu enfin est illustrée à deux reprises, respectivement dans les troisième et quatrième chapitres (p. 66-67 et p. 79-81). Foisonnant, le personnage déborde quelque peu des cases dans lesquelles on essaie de l’enfermer. Le champ intellectuel correspond chez lui au contexte proposé par l’école de Cambridge. Que son autonomie vienne à faiblir et les enjeux qui le caractérisent sont « rattrapés par la logique d’autres univers sociaux » (p. 67). La sociologie des idées politiques, avec Frédérique Matonti notamment, va aussi au-delà des auteurs cardinaux pour examiner de près, à propos de la vague structuraliste notamment, le réseau varié des protagonistes mineurs, épigones, éditeurs, journalistes, soit tout un système de production. La vulgarisation se voit ici attribuer un intérêt considérable, conformément à l’enseignement de Bourdieu.
7 Le quatrième chapitre est centré sur l’idéologie. Après une vision rétrospective rapide, cette notion nous est présentée chez les historiens Georges Duby et Roger Chartier. L’étude des mentalités s’efface au profit d’une vision plus spécifique : tandis que Duby associe l’idéologie à l’imaginaire, Chartier essaie de remplacer l’histoire sociale de la culture par une histoire culturelle du social, telle que le domaine qui s’ouvre alors à la recherche est celui de la lutte des représentations. Bourdieu et son école sont parvenus à dépasser la référence simple à l’idéologie, en introduisant des termes qui permettaient d’explorer d’autres territoires : lieux neutres qui convergent sur des lieux communs, esprit du temps, doxa, etc. Une dernière question est enfin envisagée pour clôturer ce quatrième chapitre : comment les masses s’emparent-elles des idéologies ? Bien des transactions peuvent se produire sur le marché des biens symboliques. La culture des classes populaires réserve à cet égard bien des surprises et reste un domaine encore assez peu étudié.
8 Le cinquième chapitre concerne la réception éventuelle et souvent tortueuse des idées par les opérateurs sur le terrain, gouvernement, administration, personnel politique et militants. Peu de noms illustres ici et un grand éparpillement des études. Le sens des idées est soumis à des changements en fonction des contextes qui varient dans le temps et dans l’espace. La transposition donne lieu à une recréation, ainsi que le suggérait Ricoeur à propos de la traduction. Il arrive qu’une idée s’impose parce qu’elle est utile au-delà des idéologies et des intérêts en jeu. L’identification, l’invention même d’une figure nouvelle, ainsi celle du « chômeur» à la fin du xixe siècle, a pu permettre aux savants de se joindre aux politiques. Les sciences du gouvernement mènent à une catégorisation et à une hiérarchisation des problèmes.
9 Ce livre est en même temps un guide et un manifeste. En montrant ce que l’histoire des idées politiques est en train de devenir, les auteurs veulent favoriser la propagation d’un tel changement en France. Dans un pays si souvent fier de sa tradition et de son prestige intellectuel, il est frappant de constater un tel déclassement international : « plusieurs entreprises (la plupart hors de France) furent menées pour refonder le domaine et rompre avec les traditions historiographiques dominantes » (p. 3). En revanche, l’Italie s’est hissée à un rang supérieur : « terre d’élection de la pensée politique », pays où « l’histoire de cette dernière a tôt reçu ses lettres de noblesse » (p. 41). Aussi, le but poursuivi par l’ouvrage est-il celui d’intégrer la discipline d’une façon « pleine et entière dans les sciences sociales» (p. 108). Voilà qui est dit.
10 D’une certaine manière, à l’attention pour la pensée en tant que telle se substitue l’attention pour le langage qui constitue et traverse la pensée. Pierre Rosanvallon, par exemple, « entend écrire une histoire de la démocratie moderne comme celle d’un sujet qui s’élabore lui-même dans l’histoire, au travers d’expérimentations, de tâtonnements et de conflits internes » (p. 49). Claude Lefort, à son tour, voit dans ce régime politique l’« auto-institution du social » (ibid.). Pour Stedman-Jones, « la reconstitution du passé passe […] par une attention soutenue aux formes rhétoriques qui contribuèrent à le produire » (p. 52). Il n’est pas étonnant que cette inflation langagière donne lieu à une dissolution de l’individu. Il est à cet égard remarquable que les encadrés explicatifs qui accompagnent les différents chapitres concernent, à l’exception de Locke et Rorty, plusieurs auteurs simultanément, renvoyés à tel ou tel de leurs ouvrages mais sans mention biographique complète. Quoiqu’une génération sépare Pocock et Skinner leurs années de naissance ne sont ainsi pas rappelées. Il en va de même pour Bourdieu et Foucault. En revanche, Meinecke, Koselleck, Croce, Firpo et Venturi ont droit à de telles précisions chronologiques. Dans un livre sur la « nouvelle » histoire des idées politiques, les trois derniers noms que nous venons de mentionner représentent, avec Gramsci, la seule production italienne bien identifiée, comme si l’apport de l’Italie à l’histoire des idées s’était arrêté là. Quelques lignes supplémentaires sur les travaux respectifs de Carlo Ginzburg, Remo Bodei ou Sergio Luzzatto n’auraient pas été malvenues.

Revue européenne des sciences sociales, 53-2 | 2015

mercoledì 2 marzo 2016

I luoghi e le donne di Montalbano



Silvia Fumarola
Fenomeno Montalbano
Batte ogni record d'ascolto, ha un pubblico fedele, piace alle donne
la Repubblica, 2 marzo 2016

I LUOGHI

I paesi del ragusano, giardini di pietre bianche, fanno da sfondo ai film: luoghi metafisici, svuotati dalle auto. Dal 1999 a oggi è nato un turismo intorno a Montalbano. I luoghi immaginari creati da Camilleri (Vigata, Marinella, Montelusa, la Mannara), sono stati ricreati da Sironi e dallo scenografo Luciano Ricceri nella provincia di Ragusa, Scicli, Modica, Comiso, Vittoria Ispica e Santa Croce. Ma altre scene sono state girate a San Vito Lo Capo e alla Riserva dello Zingaro (Trapani), a Tindari (Messina), Favignana e Siracusa. [...]

LE DONNE

"No, non è misogino". Camilleri lo ripete alle lettrici che gli chiedono spiegazioni. Ma il dubbio resta. Montalbano non sceglie e non scegliendo, in realtà, sceglie di stare solo. Sembra essere intimorito dalle donne , da cui è irresistibilmente attratto e che attrae come una calamita. Livia è lontana, non avranno figli, e forse segretamente ne soffre. Nell'Età del dubbio è il tenente Laura Belladonna (Isabella Ragonese) a farlo vacillare. Intelligente, sensibile, lo colpisce al cuore. Nel dubbio che Salvo possa cedere, Camilleri la fa morire.

https://www.google.it/search?q=le+monde+ridet+montalbano&ie=utf-8&oe=utf-8&gws_rd=cr&ei=iurWVsfbCYi0sQGO0pywAg
http://machiave.blogspot.it/2015/04/simenon-maigret-e-le-donne.html