Antonio Floridia
(Quasi) tre anni dopo: il problema PD e l'ultima occasione per Elly Schlein
il manifesto, 18 novembre 2025
È evidente: Elly Schlein è sotto assedio, e non è una novità; ma cosa sta facendo per spezzare questo accerchiamento? Poco o nulla, è la risposta che mi sento di dare. Su queste pagine sono state sottolineate le difficoltà in cui la segretaria del Pd si trova impigliata.
Come ha scritto Alfio Mastropaolo, Schlein «ha la colpa di aver eluso un confronto programmatico più approfondito». E Carlo Trigilia rincara: «Concretismo senza progetto», mentre Filippo Barbera segnala lo scarto tra le aspettative e la «vischiosità» di un partito che si muove secondo altre logiche. Tutto giusto. Ma vorrei qui richiamare l’attenzione anche sulla vera e propria trappola in cui Schlein si trova incastrata.
All’inizio, c’era dinanzi a lei una missione quasi impossibile: salvare il partito dal baratro in cui stava precipitando dopo le elezioni del settembre 2022 (a proposito: è stupefacente la disinvoltura con cui i cosiddetti padri nobili, da Prodi a Gentiloni, sorvolano sulle cause che hanno portato il Pd a perdere sei milioni di voti tra il 2013 e il 2022. Silenzio assoluto. Eppure era un partito dal profilo «riformista», come lo vorrebbero ora: cosa non ha funzionato? Ah, saperlo…). Questa prima fase è stata coronata da successo: soprattutto perché, faticosamente, la segretaria ha cercato di restaurare un’immagine di sinistra del partito.
Ma ai «riformisti» non sta bene: e forse si sta arrivando al momento di prendere atto che è fallito il progetto di un partito che tenesse insieme il centro e la sinistra, senza riuscire a parlare né nell’una né nell’altra direzione. Il Pd naviga ora su percentuali di voto dignitose, ma da molti mesi questi livelli di consenso sembrano stagnanti, e non appare avere molti margini di espansione elettorale, in primo luogo perché proietta di sé un’immagine poco coerente.
Chiusa la fase di messa in sicurezza del partito, sarebbe dovuta iniziare la fase del ripensamento e della ricostruzione, che non è mai iniziata. Due erano le direttrici su cui quanto meno era necessario cominciare a lavorare (anche senza pretendere risultati immediati): il profilo politico e culturale del partito, il suo progetto, e una profonda riforma del modello organizzativo del partito e delle forme della democrazia interna (due temi su cui ci siamo più volte soffermati su queste pagine, e su cui non occorre tornare). E invece c’è stato poco coraggio, quasi si avesse il timore di addentrarsi su un terreno ricco di incognite. Come che sia, le tare delle origini si aggravano: un partito privo di un’identità precisa, che continua a trasmettere un’immagine di indeterminatezza e improvvisazione; un partito privo di un’impalcatura teorica e culturale, che non ha o non sa far funzionare nemmeno le possibili sedi per rimediare, ad esempio una Fondazione di cultura politica che faccia il suo lavoro.
Limite dell’azione della segretaria, in questi ultimi due anni, è stato quello di concepire l’offerta politica del partito come una sequenza di single issues, come il susseguirsi di singole proposte che parlano a un segmento di società, ma che rischiano di restare mute rispetto a tutti gli altri. Per inciso, è proprio l’assenza di questa visione strategica che crea poi le premesse anche per gli infortuni politici, come accaduto sulla questione della patrimoniale: il sindacato fa il suo mestiere proponendo una misura specifica, il partito dovrebbe fare il suo, inquadrando le singole proposte nella cornice di una nuova politica fiscale ed economica. È incredibile come si sia ricascati, in questi giorni, nello stesso identico errore commesso da Letta, alla vigilia delle scorse elezioni, quando propose una mini-patrimoniale a favore dei diciottenni: proposta in sé sensata, ma che venne facilmente colpita e affondata dalla destra, senza alcun beneficio elettorale per la sinistra, anzi.
A Elly Schlein non si può rimproverare questo vuoto strategico di lunga data: ma, a tre anni dalle primarie, si può però rimproverarle il mancato avvio di un processo di riforma del partito, anche per ciò che riguarda il modello organizzativo. Il Pd, molto spesso, è un partito letteralmente repulsivo, che respinge cioè chi si propone di dare una mano, anche perché non si sa nemmeno come impegnare gli eventuali nuovi iscritti. E qui sta il paradosso di Schlein: per cambiare il partito avrebbe bisogno di tutti coloro che l’hanno sostenuta alle primarie, ma questi si guardano bene dall’entrare nel partito (per cambiare, ad esempio, gli equilibri nei gruppi dirigenti locali), perché la routine del partito, di fatto, non ha bisogno di nuove energie. E così si alimenta quel circuito di sfiducia che Barbera segnalava.
Cosa fare per attivare queste forze esterne? Per esempio annunciare sin da ora che il prossimo congresso si svolgerà sulla base di piattaforme politiche alternative (come lo stesso statuto attuale consente). Forse la prospettiva di una sede in cui si possa finalmente discutere, e votare, ad esempio, sulla questione del riarmo potrebbe sollecitare interesse e partecipazione. Senza un vero congresso, il Pd muore. Per questo, i prossimi sei mesi sono l’ultima finestra temporale a disposizione di Schlein: è in grado di lanciare una fase di costruzione del programma in vista delle elezioni? Sarà in grado di coinvolgere tutte le forze sociali e intellettuali che, su questo terreno, sono disponibili ad impegnarsi?

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