martedì 31 gennaio 2023

I tempi lunghi dell'Ucraina

 


 

 

 

Marco Di Giovanni

Una nota di sintesi, dopo tempo e doveroso silenzio
La guerra che cambia e le sue nuove asimmetrie

Il tempo disegna quello che appare un consolidamento della guerra di aggressione in Ucraina. Eppure, quasi diventando pienamente “guerra” anche ad occhi russi, questa transizione materializza un “senso” dal quale emergono nuove e insidiose asimmetrie per coloro che si difendono e per i popoli e i paesi che li sostengono. Divergenti posizionamenti tra gli attori, intorno all’economia della morte e della distruzione
La Russia mantiene le modalità operative di combattimento che privilegiano il fuoco dell’artiglieria e la battaglia di usura con metodica erosione delle posizioni, letteralmente distruggendo e svuotando gli spazi urbani. A questo si accompagna la continuità dell’azione dal cielo (ma a basso tasso di presenza aerea) sulle infrastrutture civili e il terrore continuo che deve esaurire la popolazione, tra gli stenti e la morte.
Cambia però il passo del contesto, con una propaganda decisamente più spinta all’interno della Federazione. Significativo appare così persino il dilagare di falsità aperte per coprire alcuni colpi subiti (la distruzione della caserma Wagner nell’oblast di Lugansk a dicembre) e il parallelo crescere dei toni all’interno.
Chi ci parla delle trasmissioni televisive ne sottolinea la truculenta rabbiosità antioccidentale, il recupero pieno di una superba inimicizia, l’enfasi sulla solennità della situazione e della tenuta russa.
La mobilitazione resta ancora “parziale” ma si enfatizzano aspetti che sanno proprio di inclusione della popolazione nella guerra: enfasi sulla minaccia al territorio che riapre il tema della protezione aerea delle città interne: più una sollecitazione “alle armi” che constatazione effettiva di una minaccia. Retoriche della mobilitazione come schieramento prima che come fatica e missione.
Sul terreno, difficile computare successi e perdite ma il dato è quello proprio di uno scenario di erosione senza rotture significative e con guadagni limitati russi.
La fase è però cambiata: alla rabbiosa presenza “alternativa” di Wagner, che si è accollata a lungo il lavoro sporco e prosegue sacrificando uomini reclutati in ogni maniera (dunque un soggetto parallelo all’Armata e politicamente meno costoso), si affianca però, dal nuovo anno, il comando affidato apertamente a Gerasimov con una catena di comando che, dalla ritirata da Kherson gestita dalla figura di Surovikin, si è fatta più chiara.
L’enfasi sul ruolo di Gerasimov significa due cose: da un lato, lo sforzo sarà, per quanto “speciale” sia l’operazione, pienamente “nazionale” ed affidato all’Armata come garante di un’azione che ormai ha tempi lunghi e che viene rideclinata con un approccio sistematico e tradizionale: numeri, masse, fuoco distruttivo industriale se non tecnologico.
Gerasimov, secondo aspetto, ha spalle larghe per assumere, di fronte alla nazione, il ruolo di Responsabile gestore della crisi, sgravando in parte Putin dalle ricadute negative di parziali insuccessi sul campo.
Gerasimov vuol dire allora la strada della mobilitazione e della guerra in profondità.
Anche qui, dunque, un passaggio. La riorganizzazione logistica e produttiva che scava nelle possibilità lasciate aperte dalla politica delle sanzioni e dalle sue falle. Inclusi in questo tanto il recupero di una capacità produttiva nazionale che, sia pure con diseguali livelli qualitativi e tecnologici per la carenza di forniture, mette definitivamente in moto l’industria nazionale.
Ma inclusa in particolare la disponibilità di forniture esterne, sia in termini di magazzino (forse il ruolo principale della Korea del Nord) sia in termini di produzione (Iran).
Certo, il ricorso di emergenza a forniture di fabbrica iraniane non depone a favore della retorica putiniana intorno alla potenza tecnologica di prima grandezza della Federazione. Questi apporti però risultano pienamente fungibili nello scenario, come anche le montagne di proietti d’artiglieria, depositi di magazzino, o la rifunzionalizzazione in vesti trasformate e con ruolo di supplenza di tutti gli strumenti di fuoco disponibili (i missili navali convertiti in tomahawk da lanciare contro infrastrutture e città).
Ma tutto questo apre la strada ad una riflessione più profonda sul riplasmarsi delle asimmetrie di questa guerra.
Gli esordi vedevano la resistenza disperata e tellurica di un esercito “territorializzato” in funzione delle riforme del 2018 (il nuovo ROC Resistance Operating Concept), intrecciando all’azione delle unità regolari addestrate quella di una milizia capace di proteggere in varie forme il territorio. Il tutto integrando efficaci armamenti leggeri, comunicazione in rete e intelligence occidentale per mettere in crisi profonda l’originaria ambizione putiniana. Il colpo di mano è fallito nell’arco di 72 ore e si è aperto lo spazio per il completo ingolfamento operativo di un dispositivo troppo ambizioso in termini di ampiezza e ipotesi di occupazione e disperatamente goffo nella logistica, oltre che carente di forniture di base, soluzioni tecnologiche, comando e controllo.
Lo scenario lasciava spazio alla speranza che la resistenza ucraina, sempre più determinata e convinta, e i suoi colpi, definissero una economia delle perdite e delle spese inaccettabile per Putin.
La rimodulazione dell’Operazione speciale, tra la tarda primavera e l’estate, ha misurato il ridimensionamento forzoso, sino ad agosto apparso solo provvisorio, delle ambizioni territoriali, poi alla fine fissate con l’annessione delle quattro zone del sud-est. Un passaggio in apparenza paradossale perchè coincidente con una ritirata, ma intrecciato anche alla “mobilitazione parziale”
Le spallate subite con il recupero offensivo ucraino di settembre-ottobre hanno così definito un nuovo scenario, dopo gli assestamenti nella responsabilità di comando (Surovikin).
Un processo di consolidamento, anche a rassicurazione degli attori esterni e interlocutori del vertice di Samarkand: garantirsi gli strumenti per mantenere il controllo dell’impero anche nelle periferie, scricchiolanti, con una presenza militare adeguata. Aprire la strada a una seconda fase “profonda” che superasse gli errori e i limiti dell’approccio iniziale e associasse agli strumenti “di eccezione” – peculiarmente coloniali - attivati a primavera, Kadirov e Wagner, logiche e mezzi della tradizione. Declinando la guerra come usura, della popolazione con l’attacco devastante alle sue condizioni di vita invernali, e dell’apparato militare avversario affrontato con un dispositivo che assuma il respiro necessario e punti sulla “eterna” determinante dei numeri e sulla tollerabilità di costi e perdite.
La scommessa di Putin è ancora quella sul futuro cedimento dell’Occidente, giocata però sulla lunghezza degli anni (potenziale e certo non priva di difficoltà anche per la Federazione) e non più sul cedimento immediato sognato con il colpo di mano e, subito dopo, con la prima offensiva a sud (Mariupol, il Mar d’Azov, Odessa) e ad est (area di Kharkiv).
Agli esordi, sosteneva la causa ucraina l’originario paradigma asimmetrico, con l’occupante che si consumava, con costi e perdite impreviste, di fronte a un avversario e a un territorio incontrollabile. Reincanalare lo scenario nella prospettiva della guerra di usura per l’acquisizione di territori, ancorchè devastati e svuotati di popolazione – in parte letteralmente deportata nelle prime settimane - è stata la via per mantenere accesa una operazione che è diventata una guerra per il regime.
Sotto questo segno muta la scala dei costi accettabili, progredisce con cautela ma con intensità crescente il coinvolgimento solenne della popolazione russa nella prova, si trasforma anche la posizione relativa degli attori contrapposti.
L’Ucraina è totalmente mobilitata ma costretta a subire sofferenze terribili in ogni settore: dovrà misurare – reciprocamente alla Federazione – la capacità di assorbire colpi e perdite con un dispendio più alto determinato dalla esigenze di proteggere per quanto possibile la popolazione (problema che manca ai russi) e di rispettare la vita e il coraggio dei propri soldati (aspetto che per ora viene “contenuto” dai russi arruolando soprattutto nelle aree periferiche della Federazione e drenando risorse mercenarie di ogni tipo per i compiti più ingrati o feroci). La determinazione distruttiva, priva di ogni argine e discrimine, fissa una polarità etica che diventa asimmetria operativa.
Proteggere costa e l’impiego indiscriminato di mezzi a basso tasso di tecnologia e costo ma distruttivi ed efficaci se impiegati in massa, esalta l’asimmetria tra l’aggressore e chi si difende. I missili antiaerei costano anche 50 volte più dei droni iraniani che abbattono. Sbilanciamenti economici che insidiano la possibilità di proseguire senza cedere.
In fondo, a questo punto, i tempi lunghi di Putin scommettono sulla critica possibilità delle democrazie, plurali tra loro e negoziali al loro interno, di reggere una mobilitazione crescente. Sin qui ripartita tra più attori ma ora chiamata a un salto di qualità.
Asimmetria di fronte alla sofferenza, asimmetria di fronte ai costi e al tempo. Dati di fatto e certamente anche una scommessa politica interna per Putin che si presenta come disposto a tutto. E apparentemente incurante di sanzioni e indebolimento imminente degli equilibri finanziari di bilancio.
Un calcolo che può sbriciolarsi, ma solo se i mezzi per l’Ucraina arriveranno finalmente per tempo, e tali da intaccare con i loro effetti paralizzanti e in profondità, la sicumera e gli ingranaggi della macchina di distruzione. Non contare solo sulla formidabile agency resistenziale ucraina, ma restituire alla superiorità tecnologica, anche a questi più elevati livelli di strutturazione del conflitto, la sua virtualità di rigenerare una panoptica e vincente asimmetria.



domenica 29 gennaio 2023

Zelensky a Sanremo

 


 

Ecco un evento televisivo che ha trovato molti oppositori. Come mai? Guardiamo alla composizione del fronte contrario a un intervento destinato a durare due minuti in tutto. Questo fronte è composto da personaggi che hanno qualcosa in comune. Hanno tutti, in qualche occasione o sempre, votato a favore di un aiuto militare all'Ucraina. E tutti vogliono rendere nota una riserva mentale. Hanno votato per l'invio di armi all'Ucraina, ma non erano del tutto convinti. Queste persone continuano a cosiderarsi dei pacifisti, in realtà. La presenza di Zelensky è per loro intollerabile in quanto fa emergere una contraddizione. Sostenendo l'invio delle armi all'Ucraina, questi sedicenti pacifisti si sono schierati da una parte sola in un conflitto militare. Zelensky richiama una scelta ai loro occhi discutibile. Vade retro Satana! Ma questa non è gente cha resistito a Satana.  È gente che ha ceduto alla tentazione e ora mostra un qualche pentimento. A questo punto è utile introdurre nel discorso un altro elemento. I sondaggi. Ci sono stati dei sondaggi riguardo all'invio delle armi all'Ucraina. Un sondaggio di Euromedia Research illustrato da Alessandra Ghisleri su La Stampa dice che la maggioranza degli italiani è contraria all’invio di armi all’Ucraina. Il campione si schiera anche contro un eventuale intervento della Nato nel conflitto. E la maggioranza relativa pensa che la guerra finirà con un cessate-il-fuoco negoziato con la Russia che poi sarà imposto a Kiev. Gli italiani sentono il conflitto lontano. Tranne i giovani: il 15,8% sente vicine le ostilità della guerra, il 51% le sente addirittura prossime. Ghisleri spiega che la percentuale di contrari all’invio di armi è aumentata rispetto a dicembre. Mentre i favorevoli sono leggermente in calo. Tra questi ci sono gli elettori di Partito Democratico, Azione e Italia Viva. Ora l'enigma trova la sua soluzione. Che cosa accomuna Carlo Calenda, Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Gianni Cuperlo? La volontà di ostentare un certo pacifismo. Dove sta il crimine di Zelensky? Lasciamo parlare gli intellettuali (Carlo Freccero, Franco Cardini, Moni Ovadia e altri) contrari alla esibizione di Zelensky a Sanremo: "l'Italia ha rinunciato a svolgere l'importante ruolo di mediazione geopolitica che corrisponde alla sua vocazione storica, abdicando al contempo al proprio interesse nazionale e al proprio ruolo di fondatrice del processo di unificazione europea, come struttura per assicurare la pace fra le nazioni". Ecco il crimine: l'Italia avrebbe dovuto svolgere un ruolo di mediazione, tenendosi fuori della guerra. Questo non è avvenuto. Si è scelta l'Ucraina. Siamo un paese cattolico. Zelensky rappresenta la mela che, nel racconto biblico, ha fatto crollare la resistenza di Eva al peccato. C'è sempre posto per un pentimento.
Tutto molto semplice, alla fine. Tutto molto penoso, anche. La politica si fa spettacolo a buon mercato. Non c'è un voto parlamentare di mezzo. C'è una esibizione televisiva. Chi è contrario e strepita spera di guadagnare consensi. Scordiamoci il passato, diceva una vecchia canzone canzone napoletana: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.


venerdì 20 gennaio 2023

Soumahoro

 

 

Alessandro Ferretti 

A mio parere, a fare la figura peggiore nella vicenda Soumahoro non è Soumahoro stesso, ma i dirigenti nazionali di Sinistra Italiana e Verdi che lo hanno candidato.
Erano anni che l'operato di Soumahoro veniva messo in discussione da più parti, e si sapeva che le sue risposte alle accuse erano state evasive e insoddisfacenti. Ora sappiamo che Fratoianni era stato messo sull'avviso esplicitamente da più persone, anche interne al suo partito, e che oggi si giustifica dicendo nientemeno che "non c'erano ipotesi di reato".
Caro Fratoianni, perdonami la domanda ma davvero non capisco: ci sei o ci fai? Davvero pensi che un politico che cerca incessantemente visibilità proponendosi con grande prosopopea come simbolo vivente delle lotte degli ultimi, e che si ostina per anni a non spiegare come ha speso centinaia di migliaia di euro raccolti in beneficenza, nonostante ripetute richieste pubbliche, non finisca sotto la lente di ingrandimento mediatica subito dopo la sua elezione? Ma davvero davvero ritieni, come hai affermato, che non ci sarebbe stato alcun problema perché erano solo "voci" e "non c'erano ipotesi di reato"? Ma dove vivi, Fratoianni? Sul pianeta Marte?
Un simile clamoroso errore sarebbe stato difficile da perdonare anche nel caso che nessuno ti avesse avvisato.. ma a fronte di espliciti e molteplici avvertimenti, la stupidità di voler insistere con la candidatura è talmente colossale da risultare imperdonabile.
Io credo che di fronte a un simile errore, che mina alla radice la credibilità della dirigenza nazionale, l'unica possibilità per il partito di recuperare almeno un livello minimo di decenza passi dalla cacciata immediata di Fratoianni dal ruolo di segretario. Troppo comodo scaricare tutte le colpe su Soumahoro: viste come si sono svolte le cose, accettare le giustificazioni risibili di Fratoianni significherebbe posare una pietra tombale su un partito che già ha sofferto una terribile perdita di credibilità a causa del suo precedente segretario.
In politica, chi sbaglia paga: e se non arrivano le dimissioni del segretario, dev'essere il partito a cacciarlo via. Mi auguro che le tante persone che conosco e che militano o gravitano a vario titolo in SI si rendano conto che una netta soluzione di continuità sia indispensabile e operino urgentemente in tal senso.

giovedì 19 gennaio 2023

La Bersagliera

Gina Lollobrigida, la diva che diede speranza all’Italia che usciva dalla guerra

di Walter Veltroni

Il ricordo dell’attrice scomparsa a 95 anni, uno dei volti italiani del mondo del cinema: girò molti film negli Usa, al fianco dei più importanti attori americani. Ma i suoi personaggi, più di altri, raccontano il tempo in cui gli italiani tornavano a gustare la vita

Gina Lollobrigida, la diva che diede speranza all’Italia che usciva dalla guerra

Il primo film interpretato da Gina Lollobrigida è del 1946. Recitava il ruolo della cortigiana in «Aquila nera» di Riccardo Freda.

Bisogna soffermarsi sulla data, più che sul ruolo, per comprendere cosa abbia rappresentato l’attrice per il senso comune di generazioni di italiani. Suo padre era un ricco produttore di mobili ma perse tutto per un bombardamento alleato. E così, nella grande confusione di quel tempo la sua famiglia si trasferì da Subiaco a Roma, dalla provincia alla città, secondo il flusso migratorio delle povertà antiche e repentine di quei giorni.

La sua famiglia perse quello che aveva ma Gina aveva quello che l’Italia aveva perso: la bellezza. Partecipò a vari concorsi per miss e arrivò sempre nelle prime posizioni, ma mai ne vinse uno. Le gare di bellezza nell’Italia squarciata dalle bombe e dalla divisione possono apparire un ossimoro. Ma non è così.

Il paese che aveva pianto i figli e i mariti morti al fonte, contemplato le case distrutte dalle bombe e sofferto la dittatura, la fame e l’occupazione straniera aveva finalmente voglia di luce e di sorriso. Alla pesantezza della morte e del nero voleva opporre l’allegria del sorriso e la gioia della leggerezza. La bellezza contro il dolore. L’allegria contro la paura. Gina Lollobrigida incarnò, il verbo non è scelto a caso, questo desiderio di rinascita. Era esageratamente bella, trasmetteva una gioia di vivere che era estranea al lungo inverno italiano. Era a colori, in un mondo in bianco e nero.

L’Italia, finito il mito dell’impero, si riscopriva piccola, ritrovava il fascino delle storie minute come rifugio alle promesse fallaci di grandezza. Il piccolo comune di Sagliena, luogo immaginario, somigliava al paese intero. È lì che Luigi Comencini decise di ambientare «Pane amore e fantasia» che diventerà uno dei primi prodotti seriali della nostra cinematografia. La Lollobrigida e De Sica costituirono una coppia irresistibile. Lui ha cinquantadue anni, lei ventisei. Lui è un mondo che declina, lei il nuovo che avanza.

La Lollobrigida sarà poi uno dei volti italiani nel mondo. Girerà molti film negli Usa, al fianco dei più importanti attori americani: Burt Lancaster, Humphrey Bogart, Frank Sinatra, Steve Mc Queen, Tony Curtis. In un paese abituato agli antagonismi, da Romolo e Remo a Coppi e Bartali, la Lollobrigida venne immediatamente messa in competizione con l’altra star mondiale del nostro cinema: Sophia Loren. E nonostante anche la «Bersagliera» avesse avuto la fortuna di essere diretta da maestri come Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Luigi Zampa, negli Usa, da King Vidor o John Houston e in Francia da Jules Dassin o Agnès Varda le restò sempre la sensazione che alla Loren fosse riconosciuto, dal cinema italiano di qualità, un peso diverso.

La Lollo era una bravissima attrice. Io la ricordo così in un film della fine degli anni sessanta, «Un bellissimo novembre» di Bolognini e, soprattutto, nella magnifica interpretazione della Fata Turchina nel «Pinocchio» di Comencini. I suoi personaggi, più di altri, raccontano l’incanto di quel tempo, la seconda metà degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta, in cui gli italiani tornavano a vivere una vita normale, a sperare, a gustare la vita. La vita normale. Senza guerre, dittature, fame. La vita normale, fatta di pane, di amore e di fantasia.

 

martedì 17 gennaio 2023

Dante strattonato

 

 

 


Dante né di destra né di sinistra? Intanto si dovrebbero usare le parole destra e sinistra in senso lato. Poi si può anche scoprire che Dante è stato l'una e l'altra cosa. Per certi aspetti anticipa addirittura la Costituzione americana. Il governo per il popolo e non il popolo per il governo. Il diritto alla felicità. E poi l'esule che paga per la sua contrarietà alpartito dominante. I suoi modelli politici sono invece di tipo conservatore, senza dubbio. Questo è il Dante reale, a nostro avviso.

Giuseppe Sciara

Consiglio di lettura alla luce della recente polemica e dell'ondata di indignazione per le parole di Sangiuliano. Certi autori non sono né di destra né di sinistra, ma vengono usati politicamente e strumentalizzati nelle maniere più diverse. Vale per Dante, come per Machiavelli, Alfieri e altri. Nel bel libro di Fabio Di Giannatale, "Specchi danteschi" (ETS, 2020) troverete un Dante riformatore, uno "giacobino", uno nazionalista, uno "esoterico". E ancora: precursore di Mazzini, cattolico per eccellenza, profeta del primato italiano... E questo solo per l'Ottocento italiano.

https://www.academia.edu/30616138/Il_Dante_reazionario_di_Sanguineti_1992_


Forse si può affermare che ogni grande tratto poetico riposa, per una sua naturale dialettica, in ultima istanza, sopra un paradosso». Così Sanguineti a p. 170 del suo Dante reazionario (Editori Riuniti, Roma 1992), che raccoglie sedici saggi danteschi composti tra il 1956 e il 1989 (tre dei quali, inediti). Volendo condividere la boutade, sarà però da estenderne di getto l’applicazione allo statuto della critica. E richiesto di un nome a conferma, non esiterei a esibire quello di San- guineti medesimo. Né vi sarà studioso di Dante che leggendo — e per lo più rileggendo — i saggi di questo volume non vorrà ammettere l’u- tilità di molti, se non di tutti, i paradossi sanguinetiani. Bisognerà anche ammettere, però, la calcolata preterintenzionalità (se mi si pas- sa l’ossimoro) di uno almeno di tali paradossi, quello schiettamente ritico-negativa a dispetto delle mitologie bor- ghesi progressive, sul modello del Balzac marxiano, così da dedicare la fresca scheggiatura del “reazionario” a mordere l’ideologia del guada- gno, concludendosi il miracolo economico, e ricorrendo al termine inconsueto, per un reazionario, di «utopia» (p. 285). Infine, il paradosso dei paradossi, per il Sanguineti critico, sta nell’unione di puntigliosa pertinenza filologica (al livello dei più
grandi dantisti dell’Accademia) e di attualizzazione oltranzista e all’occorenza apertamente strumentale. Con doppia coscienza stori- ca: dell’oggetto-Dante e del presente della ricerca su esso. Quando l’azzardo riesce, ecco un Dante intero senza musei, vivo e “pericolo- so” quanto le provocazioni del suo mallevadore. È il caso delle osser- vazioni sulla narratività dantesca, distribuite in molte pagine e già filo conduttore, con una rilettura del comico e altro, delle Interpreta- zioni di Malebolge (Olschki, Firenze 1961); ma soprattutto concen- trate in «Le visioni della “Vita nuova”» (pp. 35-42), in «Dante, “praesens historicum”» (pp. 43-72) e, ovviamente, in «Il realismo di Dante» (pp. 273-289) — del 1965 il primo e il terzo saggio, del ’58 il secondo. Proposte come quelle di un Dante creatore della prosa moderna quale tendenza allo sliricamento (cfr. p. 42) — in un secolo come il nostro, perseguitato dalla prosa d’arte —, di una struttura, per la Commedia, sostanziata e inverata nella narratività (cfr. p. 46), di un Dante primo romanziere moderno (e inventore del «personag- gio essenziale del roman bourgeois», «l’eroe problematico» (pp. 282 e 287) — sono fruibili in sede storico-critica almeno quanto propizia- mente “scandalose” per malizia d’anacronismi. E puntualissime sono, d’altra parte, in margine al problema della narratività, le osser- vazioni su Dante-personaggio: fondato sullo «straniamento» di una «meditatissima retrodatazione prospettica» (in «Canzone sacra e canzone profana», 1980, a p. 160) — che è un altro bel modo per definire, volendo, lo statuto critico sanguinetiano. È pur vero, però, che quel che Sanguineti dà a Dante con una mano poi gli ritoglie — in un caso, almeno: però vitale — con l’altra. La definizione della narratività come struttura può d’un colpo “retrodatare” la Commedia, quando essa venga concepita come la rivelazione per exempla di un mera summa teologale (sostanziata di politica per sovrappiù di esemplarità). Sanguineti dichiara di adope- rare il termine “struttura” «in modi assolutamente neutri» (p. 173 e passim), contro la condanna di Croce ovviamente e meno ovviamen- te contro la opposta pregiudiziale strutturalista. Come se dalla lezio- ne di un Auerbach non fossero venute sufficienti aperture di una direzione radicalmente nuova (indagata poi, fra gli altri, da un Sin- gleton). Ora, il nome di Auerbach non compare quasi mai nei saggi sanguinetiani prima dell’ultimo (lo trovo, salvo il vero, due sole vol- te, fuggevolmente). E quando finalmente compare è per contrappor- re alla sua nozione di «figura», basilare nel poema dantesco, appun- to il modello dell’exemplum (pp. 285-287); senza fare i conti con il fatto che quest’ultimo è un genere letterario, un’opzione retorica; e 40 La strana pietà
il concetto di «figura», una gnoseologia (entro la quale quindi può trovare luogo l’exemplum; e non viceversa). La conseguenza è la sot- tovalutazione dell’allegoria dantesca, cioè la rimozione del bisogno tutto nuovo di mondanizzare la trascendenza, per così dire, ovvero di affrontare in termini radicalmente “civili” e politici le questioni decisive della esistenza (e della salvezza) umana: la teologia e la sto- ria infine faccia a faccia, in opposizione al simbolismo trascendente del Medioevo prima del suo «autunno». E d’altra parte la stessa nar- ratività (in senso anche specificamente moderno) non nasce forse proprio da questo bisogno di articolare tra coordinate mondane una teleologia (e una teologia)? Questioni non irrilevanti per una corret- ta valutazione del tema al quale il libro si intitola con troppa sbilan- ciata diagnosi e insoddisfacenti allegati di sintomi, o con parola meno impulsiva, della politicità di Dante. Saltando la mediazione decisiva dell’allegoria (e della funzione che hanno il concetto di «figura» e la concezione conseguente della struttura) si finisce, come fa Sanguine- ti, con l’aderire alla idea, non importa se frutto della autorevole pen- na di Barbi, che la Commedia sia stata concepita come una «rivela- zione» e non come un poema allegorico (p. 69, 1958): con il che sia- mo — è vero — un passo avanti nella dimostrazione della natura rea- zionaria di Dante, ma, per una volta, un passo indietro nel reperi- mento della verità.

domenica 15 gennaio 2023

Mariolina Bertini, Su Liala

 


Mariolina Bertini, Su Liala, sl, Nuova editrice Berti 2022, 80 pp.

Questo piccolo libro è per me una sorpresa. Conoscevo in parte gli scritti di Mariolina Bertini su Liala e, francamente, mi ero fatto un'idea diversa. A una lettura più attenta e completa, la rivalutazione o l'apologia di Liala si rivela un aspetto secondario. Per me questa doveva essere una irruzione nel dominio della letteratura rosa, una stravaganza proveniente dalla natura birichina dell'autrice, abitata da uno spiritello diabolico che non si arrende e che, anzi, si manifesta volentieri, in modo gioioso e noncurante. Illustrare il fascino di Liala poteva essere un modo per andare contro corrente. E l'autrice va contro corrente quando mette in luce il lato frivolo dei romanzi scritti da Liala e al tempo stesso vede nello splendore del culto riservato agli oggetti che simboleggiano la riuscita un fattore di fascino: fascino quasi ipnotico, fascino irresistibile, scrive. Camilla Cederna introduce nel testo il tema del kitsch. Questa è una prima particolarità che va oltre il repertorio delle stranezze. Alla fine l'opera di Liala mostra la persistenza del kitsch nell'epoca del disincanto. Una seconda particolarità è legata all'attenzione per il perturbante. Pur tra tante cianfrusaglie colpisce il mutamento nel ruolo della donna. Cambia il rapporto della donna con il desiderio. Parola chiave per Lacan, come è noto. Parola antica, che percorre l'intero episodio di Paolo e Francesca nella Commedia. Desiderio condiviso in quel caso. Qui invece siamo al tempo di lady Chatterley. Liala approda a un riconoscimento e a una esaltazione del desiderio femminile. Intanto nello spazio attribuito all'attesa e all'idoleggiamento del corpo maschile. E poi c'è l'esplosione: le donne diventano macchine desideranti di inaudita potenza. Siamo ben lontani dalla banalità dilagante nel romanzo rosa.