Più di Italo Calvino, di Alberto Moravia, di Elsa Morante, anche se meno tradotto all'estero, nella cultura italiana dell'ultimo mezzo secolo Pier Paolo Pasolini ha avuto un ruolo di assoluto protagonista. La sua morte prematura ha accresciuto il suo successo e la sua influenza, facendo di lui un mito.

Quando fu assassinato, nel 1975, mentre era in compagnia di un "ragazzo di vita", in circostanze che forse un giorno saranno chiarite, aveva poco più di cinquant'anni ed era in Italia l'intellettuale più controverso e scandaloso. Le sue tesi sulla "mutazione antropologica" degli italiani venivano criticate e denigrate da ogni parte, soprattutto dalla sinistra radicale e marxista.

Nei suoi ultimi articoli e saggi, raccolti in due libri, Scritti corsari e Lettere luterane, Pasolini aveva lanciato un disperato allarme: lo sviluppo neocapitalistico, il culto dei consumi di massa o "consumismo" avevano abolito le differenze culturali di classe: proletari e sottoproletari avevano perso identità e coscienza di se stessi. Tutti, anche se di fatto non lo erano, volevano essere classe media, piccola borghesia modernizzata. Diversità durate secoli erano state cancellate nel corso di un decennio. La società italiana si era "omologata" al suo livello medio. Sostituendo il controllo politico, questa unificazione fondata su valori e stili di vita si dimostrava infinitamente più efficace, potente e pervasiva di ogni altra. La stessa cultura di sinistra, anche se marxista e anche se si credeva rivoluzionaria, non si era accorta di questa nuova "dittatura" che non aveva bisogno di un'ideologia di Stato e di un controllo poliziesco per controllare l'intera vita sociale. Era la dittatura fondata sull'identificazione fra sviluppo e progresso, crescita economica, incremento dei consumi e miglioramento della società. Di fronte a questo fenomeno, la critica marxista fondata sul materialismo economico si mostrava, secondo Pasolini, disarmata e cieca.

Ma chi era, che cos'era Pasolini? Forse troppe cose. E questo dava fastidio. Figlio primogenito di una maestra di scuola elementare e di un ufficiale di carriera, Pasolini era nato a Bologna il 5 marzo 1922. Apparteneva socialmente a una piccola borghesia che si sentiva custode di valori morali e a quella generazione, cresciuta sotto il fascismo, che si risvegliò dagli ideali patriottici alla coscienza politica nel corso della guerra 1940-45. In lui la resistenza contro il nazi-fascismo rimase un presupposto primario e incancellabile, dal quale si sviluppò la sua critica alla borghesia "moralmente fascista", alla politica clericale di destra e infine alla società di massa "omologata”.

Autore di poemetti autobiografici e ideologici che a metà degli ani cinquanta erano stati sorprendentemente innovatori per la loro provocatoria discorsività ideologica, Pasolini era anche un narratore: i suoi romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta avevano reso famose le periferie sotto-proletarie romane. Come critico letterario era molto attivo e spesso geniale sia per le sue idee che per la sua capacità di penetrazione psicologica e sociale. Giornalista, polemista e saggista politico, con la vocazione e l'istinto di fare scandalo, non aveva mai smesso di intervenire sui più diversi fenomeni culturali e fatti di cronaca. Infine, era un regista di film che sfidavano le abitudini del pubblico e le tradizioni prevalenti del cinema italiano.

Pasolini aveva così prodotto in un paio di decenni un'opera ampia, articolata e aperta a ogni sviluppo. Se non era universalmente apprezzato, la sua presenza sulla scena culturale era stata costante e incisiva. Oltre a essere un autore, Pasolini era un "personaggio" pubblico rivelatore e suscitatore di conflitti, un attore al centro della scena, un produttore, forse eccessivamente prolifico, di stili e di idee. Aveva praticato tutti i generi letterari, anche il teatro in versi, e come regista cinematografico è stato, da Accattone a Salò-Sade, anche più famoso e discusso che come scrittore. Tutto questo faceva di lui l'esempio più vistoso di intellettuale impegnato: un ideologo eretico che metteva se stesso e la sua esperienza personale al centro di ogni discorso pubblico. Si considerava anzitutto un poeta, sebbene un poeta più giovane di lui, Giovanni Raboni, abbia scritto, con arguta malizia, che poeta Pasolini lo era sempre, ma lo era meno quando scriveva poesie. Pasolini aveva però teorizzato la propria lotta contro la prigione dello stile. Le sue poesie si presentavano sempre più esplicitamente come progetti di opere future e appunti per poesie da scrivere.

Sta di fatto che per Pasolini scrivere poesia era la più naturale delle arti, un'attività più o meno quotidiana di cui non poteva fare a meno; una passione originaria e quasi maniacale che gli permetteva un immediato riconoscimento di se stesso: una specie di pratica propiziatoria, devozionale, igienica alla quale non poteva sottrarsi se voleva mantenere o ritrovare la fede in se stesso. Se era certo di essere poeta, poteva diventare qualunque altra cosa: uomo di cinema, critico letterario, ideologo antiborghese e infine, come è accaduto, un improvvisato ma originale sociologo della modernizzazione italiana, da lui sofferta personalmente e letterariamente come la fine improvvisa di un mondo secolare.