mercoledì 26 marzo 2014

La forma romanzata del terrorismo

Bruno Pischedda
Terrorismo senza romanzo
Il Sole 24 ore, 17 marzo 2014

È un giovane studioso proveniente dall'università di Trento, Gabriele Vitello; e non si può dire che il suo Album di famiglia: gli anni di piombo nella narrativa italiana scansi taluni fraseggi acerbi e riduzionismi parapolitici. Tuttavia l'indagine che egli conduce ha un sicuro valore storiografico; si esercita su un corpo di testi singolarmente vasto, compone riflessioni psicosociali con una serrata analisi tematica e figurale. Soprattutto dispone la materia su un doppio versante cronologico: da un lato i precursori del romanzo a sfondo terroristico (la Ginzburg di Caro Michele, Sciascia del Contesto, Moravia con La vita interiore, Parise per L'odore del sangue). Dall'altro, facendo data agli anni Novanta, una profluvie di opere che rendono la violenza settaria un pimento quasi obbligato nel quadro delle patrie lettere: Consolo, Tabucchi, Ortese, Carlotto, Genna, e ancora Givone, Sartori, fino a Culicchia, Lidia Ravera, Walter Veltroni e altri molti.
Validamente introdotto da Raffaele Donnarumma, il volume insiste invero su un particolare e frequentatissimo sottotipo, il romanzo terroristico di angolatura familiare. Nonostante l'argomento trascelto, esso sarebbe caratterizzato da un moto a ritroso, che procede dagli istituti di convivenza collettiva verso un'angusta intimità borghese e piccolo borghese. Un rinculo valido senz'altro a occultare le inquietudini seminate dai gruppi combattenti tra il popolo e settori non infimi di classe operaia. Ma che in ogni caso favorisce alcune costanti compositive: il primato drammaturgico accordato ai terroristi anziché alle vittime; l'ellissi o la trasfigurazione nel ricordo delle loro gesta cruente, ovviando agli estremi di un "realismo traumatico" più consono al noir; l'aggirarsi in queste storie di tanti intellettuali-scrittori, costantemente alle prese con difficoltà cognitive e crisi di ruolo; la sovrabbondanza delle figure femminili, infine, latrici di un perturbante che ha nel sesso la sua metafora maggiore (un sesso concepito dapprima come liberazione, Marcuse, Reich, e ora veicolo di fantasie mortuarie, autodistruttive, in sintonia con il rapido declinare dei movimenti di protesta).
Sono molte le questioni sollevate da Vitello, inteso a vagliare il ricco immaginario che in questi romanzi si esprime. Tra di esse, una ha però valore strategico, e riguarda l'obsolescenza dello schema edipico che per lungo tempo ha sovrinteso alla chiarificazione di simili fenomeni. Le scelte dei terroristi, se esaminate in prospettiva parentale, non valgono più come rivolta contro un padre autoritario e castratore; si presentano anzi come reagente alla sua "evaporazione", alla sua assenza o fondamentale inettitudine. È insomma su una pista lacaniana, ravvivata dalle ricerche di Luigi Zoja e Massimo Recalcati, che il giovane autore s'incammina con maggior convinzione. Edipo – spiega – poteva ben fungere da grimaldello per autori modernisti come Kafka, Pirandello, Tozzi o Svevo; la cui aggressione nei confronti dell'imago paterna consentiva un'efficace sintesi di "contenuto" e "forma del contenuto".
Ora una simile opportunità espressiva sembra perduta, e ci restano dozzine di testi impegnati a ricucire con una buona dose di nostalgia i legami infranti. Eccettuando i lavori di Parise* o di Sartori**, per i quali è spesa qui qualche parola di apprezzamento, ne viene una visione di tipo consolatorio, quando non decisamente regressivo.
D'accordo, nessuno dei romanzi in esame, familista o noir, si è poi affermato come il romanzo del terrorismo. E mancando un capostipite prestigioso, la galassia dei testi affini non ha poi dato luogo a un vero e riconosciuto genere. Andrebbe tuttavia segnalato un più ricco plesso di problemi: affinché si stabilisca un genere, non basta la presenza di un tema potentemente sentito, di grande importo simbolico; e neppure è prefigurabile in alcun modo l'insorgere di un capolavoro che funga da elemento catalizzatore. Necessita allo scopo un talento d'eccezione, quindi l'apporto non secondario del pubblico leggente, della critica; occorre che sia fausto il contesto in cui esso si inscrive. Nel secondo Ottocento mancò a questo obiettivo il romanzo cosiddetto parlamentare; lo stesso si può osservare negli anni Settanta del Novecento per il romanzo apocalittico, pure di lì in poi prediletto dai nostri scrittori. Vitello porta ad esempio positivo il tema della lotta antifascista, che certamente parve suscitare la costituzione di un genere, perché implicava collettività, epos. Tuttavia i manuali preposti prendono in considerazione la letteratura resistenziale, non il romanzo resistenziale.
I moti che nell'universo del romanzo conducono a sottospecie ben identificabili e dotate di prestigio restano in realtà per buona parte oscuri: conosciamo le leggi generali della gravitazione letteraria, non le dinamiche minute da cui emergono o non emergono singoli agglomerati planetari. Ci manca, per così dire, una teoria unificata, e nemmeno sembra che oggi siano in molti a cercarla.
D'altronde – ultima questione degna di nota –, Vitello chiede molto al romanzo terrorista. Vuole che abbia un significato analitico, conoscitivo, così da «influire sulla nostra percezione del passato». A indisporlo non è soltanto il tragicismo degradato, o la «figuralità nebulosa e narcisisticamente autoreferenziale» a cui tanto spesso si concede. Il punto è il travisamento sistematico di ciò che il terrorismo è stato in termini storici. Vuole insomma il romanzo realista, nella fattispecie del romanzo sociale: ahimè, uno tra i sottotipi più misconosciuti della nostra tradizione recente; ma unico, a suo avviso, in grado di preservare il retaggio letterario dall'invadenza mediatica, filmica, televisiva. È un'ipotesi diffusa, e gravata di alquanto massimalismo deprecatorio. Occorreva in ogni caso articolarla più nitidamente, per discuterne meglio, se non altro.

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(*) Qui il riferimento è a L'odore del sangue, su cui si può vedere http://www.italialibri.net/opere/odoredelsangue.html
(**) 
La “guerra” è la protagonista del romanzo di Giacomo Sartori (Anatomia della battaglia), incarnata dalla figura di un nonno forse colpevole di deportazioni di prigionieri e forse anche di ebrei, un padre fascista, “soldato” in battaglia contro gli altri e contro se stesso per tutta la sua vita, e un figlio che all’età di quindici anni entra a far parte di un gruppo di estrema sinistra e partecipa alla lotta armata.
Il figlio ormai quarantenne racconta la storia della sua famiglia, racconta la sua esperienza di terrorista che si inserisce tra le tante esperienze vissute nel corso della vita nel tentativo di costruire la sua identità, di formarsi come individuo che vuole sradicare l’odio tramandatogli dal padre e dal nonno.
Solo il desiderio di scrivere, vivo in lui fin da bambino, e la sua realizzazione in età adulta riesce, in parte, a farlo uscire da quella sorta di torpore e di passività che lo hanno caratterizzato nelle sue scelte di vita anche quella di partecipare alla lotta armata. Il racconto si costruisce su una continua alternanza di passato e presente, spiazzando a volte il lettore che non capisce bene dove si trova. (Sabina Gola)

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 l’Unità 4.4.14
Che cosa è successo veramente durante gli «anni di piombo»?
risponde Luigi Cancrini


Ripropongo alcune domande sugli «anni di piombo». Com’è possibile che, in un mondo dominato da Gladio, Cia, P2 etc, si siano potuto costituire organizzazioni tipo Brigate rosse e Prima linea? I pentiti muoiono in carcere. E gli irriducibili dove sono sistemati? MICHELE SCHIAVINO
Un romanzo di Alberto Garlini, La legge dell’odio, ricostruisce in modo a mio avviso molto efficace quello che accadde in quel periodo. Brigate Rosse e Prima Linea erano organizzazioni di estrema sinistra infiltrate e manovrate, come i loro avversari dell’estrema destra, dai servizi segreti. Che usavano le loro follie per organizzare attentati e rapimenti utili ad alimentare un clima di tensione e a eliminare o intimidire i protagonisti di un cambiamento politico in atto nel tempo in cui i successi elettorali del Pci facevano paura all’ortodossia della guerra fredda e dei blocchi contrapposti. Il caso Moro in cui il fanatismo di un gruppo di pazzi venne utilizzato per evitare che i comunisti partecipassero al governo del Paese è esemplare da questo punto di vista. I gruppi eversivi erano tutti infiltrati da agenti dei servizi segreti, d’altra parte, come confessò a me l’ufficiale della Digos che mi avvertiva di un possibile attentato contro la mia persona nel ’79. Senza spiegarmi perché i componenti del gruppo che mi aveva «messo in lista» insieme ad altri (giudici ed esponenti politici) non venivano semplicemente arrestati e solo «sorvegliati». Come accadeva allora in modo sistematico con tutti gli utili idioti dell’estremismo. Viene da qui il «perdonismo» del dopo? Probabilmente sì. A non capirlo o a non volerlo capire sono stati solo gli «irriducibili» che stanno ancora in carcere o che non hanno comunque mai patteggiato con chi li aveva usati e condannati.

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